Drusi e dintorni
Di seguito il quarto articolo del nostro collaboratore Silvio Marconi, per la serie: eterodossie, eresie o, semplicemente sincretismi nell’Islam”.
Il primo riporta il titolo della serie. Per leggerlo cliccare qui!
Leggi il secondo articolo: Aicha e il Sufismo.
Leggi il terso articolo: Islam, confraternite, esoterismo e dintorni.
Si sono già citati in precedenza i drusi e forse qualcuno li ricorda in rapporto alle vicende mediorientali (ed in particolare libanesi) degli ultimi decenni, ma parlarne significa affrontare una delle realtà che restano effettivamente meno note di tutta la galassia islamica e questo proprio per alcune caratteristiche delle loro concezioni, a cui si è fatto già cenno.
Una realtà segnata dalla e pratica, in forme estreme, della taqiya
Se si vuole ridurre la caratterizzazione dei drusi a poche parole, infatti, cosa peraltro pericolosa metodologicamente, si potrebbe dire che essi rappresentano una realtà segnata dalla teorizzazione e dalla messa in pratica in forme estreme della taqiya, ossia della dissimulazione e della segretezza; se nel Corano essa è legittimata solo in forma difensiva estrema, per evitare la morte di un credente, e se in molte correnti islamiche (soprattutto sufiche o sciite, in particolare le tendenze ismailite) essa è invece applicata anche nell’ambito di una strutturazione degli adepti in concentrici cerchi di conoscenza iniziatica che escludono da certe “verità” chi non faccia parte del livello adeguato, nel caso dei drusi la dissimulazione verso l’esterno della comunità, ossia verso tutti coloro che drusi non sono, diventa non un diritto ma un dovere e si estende anche ad aspetti della cosiddetta “vita laica”, come patti, accordi, contratti, tregue, alleanze.
Inoltre, essendo anche i drusi articolati in rigidi cerchi concentrici di sapienzialità iniziatica, le vere prescrizioni e teorie note solo al cerchio interno sono del tutto ignote, tuttora, agli stessi studiosi, che mai hanno avuto effettiva possibilità di accesso ai testi sacri più segreti. Infine, come è accaduto per altre realtà basate su strutture di confraternita, ma in forme ancor più accentuate di quelle di altri casi, i drusi hanno intrecciato l’appartenenza ad una confraternita con quella ad una comunità clanica chiusa ed endogamica, dove tra l’altro dal 1043 non si può entrare per adesione o conversione ma solo per filiazione, e in più tale comunità si è radicata (con l’eccezione dei suoi nuclei emigrati in tempi relativamente recenti in altri continenti per fuggire guerre e oppressioni o semplicemente per ragioni economiche) in un’area geografica specifica ed assai ristretta, frammentandosi poi perfino in quell’area che va dalla Siria Meridionale ai Monti dello Chouf in Libano (effettivo centro della presenza e della cultura drusa) alle alture del Golan siriane occupate ancora dagli israeliani ed alla Galilea (salvo gruppi presenti in Cisgiordania e in Giordania): un’area in cui si sono fissati definitivamente durante la dominazione ottomana.
Drusi e modernità
Tutto questo rende la realtà drusa tra le più chiuse ed impenetrabili del Medio Oriente, eppure al tempo stesso i drusi sono stati capaci di adattarsi egregiamente agli stilemi della modernità; ad esempio, il loro leader libanese Walid Jumblatt (nato nel 1949 e tuttora vivente), non solo ha svolto un ruolo decisivo nel gioco di alleanze politiche durante e dopo la guerra civile libanese a partire dagli anni ’70 ma ha rappresentato il partito politico a base etnica (cioè solo druso) chiamato Partito Socialista Progressista Libanese in seno all’Internazionale Socialista, a fianco dei leaders socialisti europei.
Walid è però il figlio di Kamal Jumblatt (nato nel 1917 e morto nel 1977), fondatore di quel partito e questo non sarebbe un fatto eccezionale in un Libano dove tutti i partiti, compresi quelli cristiani di destra (si pensi al caso della “dinastia” dei Gemayel….) hanno leaderships ereditarie, che si tramandano di padre in figlio, spesso in seguito all’uccisione da parte di nemici del padre; il fatto è che Walid è figlio (unico) anche di May Arslan, che era la figlia dell’emiro druso Shekib Arslan e le due famiglie Jumblatt ed Arslan non sono solo i due principali clans familiari drusi libanesi, ma le detentrici del potere politico tradizionale fra i drusi, mentre la famiglia Arslan rappresenta più ancora della famiglia Jumblatt anche il potere spirituale. Anche i Jumblatt, comunque, hanno un ruolo rilevante nella strutturazione della comunità chiusa drusa, e se Kamal nacque a Mukhtara, il centro sacralizzato dello Chouf druso, non è un caso, dato che il padre di Kamal, Fuad (assassinato nel 1921), era in quegli anni il governatore effettivo dello Chouf e perfino sua moglie, Nazira, dopo la sua morte ebbe un ruolo politico rilevante, anche perché le donne non sono affatto discriminate fra i drusi.
Ciò non impedisce che Kamal sia educato in una scuola primaria cristiana, frequenti le migliori scuole di Beirut, si diplomi in Filosofia a vent’anni e si rechi a studiare infine alla Sorbona di Parigi nel 1937, alla Facoltà di Arte, ma dedicandosi nel contempo ad approfondire nella capitale francese la Sociologia e la Psicologia, mentre al rientro in Libano nel 1939 continua i suoi studi in una Università Cattolica (quella di Saint Joseph), ove si laurea nel 1945 in Giurisprudenza.
Fuad Jumblatt (nato nel 1885-6), a sua volta, non è altro che il discendente di una delle due famiglie (l’altra è appunto quella degli Arslan) druse che costituiscono la leadership drusa fin dalla migrazione che nel XVII secolo raggiunse i Monti dello Chouf e vi creò l’insediamento druso. Si intrecciano qui la modernità delle forme organizzative partitiche e perfino della loro partecipazione ad organismi che riuniscono partiti a livello sovrannazionale con la clanicità tradizionale di stampo simil-feudale, la concezione dei partiti come “organizzazioni politiche armate” che porta a formare milizie di partito con la tradizione delle sette, delle confraternité, delle comunità teologiche, l’iniziativa in sede parlamentare in un ambito “nazionale” fortemente segnato da confini ed istituzioni figlie della fase coloniale occidentale con la territorializzazione e l’etnicizzazione di una comunità di fede che da un millennio circa non permette adesioni esterne e si riproduce solo per filiazione. Tutto questo non riguarda direttamente, in apparenza, il carattere della realtà drusa in termini di polisincretismi cultuali e rituali, ma in effetti sono proprio le caratteristiche polisincretiche dell’esperienza storica drusa che consentono il citato intreccio, che apparrebbe invece paradossale se riferito ad una realtà davvero “auto-centrata” e “pura”. Non v’è alcunché di rigido nell’esperienza e nella realtà drusa che pure si autorappresenta come tale e che si dà, davvero, regole rigide sia di esclusione dell’altro, sia di organizzazione interna, sia di dissimulazione, e quella rigidezza ed astoricità auto rappresentative sono nei fatti figlie di una lunga catena di polisincretismi e consentono l’attivazione di processi di adattamento alla modernità ed alla postmodernità che non sarebbero neppure pensabili se tali “storicità”, “immutabilità”, “purezze” fossero strutturali e non artificialmente configurate.
“Muwahhiddun” (“unitariani”)
I drusi, del resto, non si auto-denominano neppure con tale termine, che anzi considerano insultante, bensì “muwahhiddun” (“unitariani”), oppure “discepoli di Hamsa”, mentre “drusi” è il modo in cui vengono definiti dagli altri abitanti del Medio Oriente usando un termine che deriva dal nome di Mohammen bin Ismail Nashtakim ad-Darazi, che fu uno dei maestri fondatori ismailiti in Egitto nel secolo XI, ma che i drusi considerano in realtà “eretico”! Pure il riferimento a questa figura ha aspetti contraddittori perché se Ad-Darazi fu aspramente combattuto da uno dei primi leaders del movimento detto “druso”, alcuni autori riferiscono invece la denominazione “drusi” ad un altro personaggio, Hussayn ad-Darazi, che fu uno dei primi rappresentanti del movimento.
E’ in Egitto che nascono i drusi, come costola di quell’Ismailismo che ha forti correlazioni con lo Gnosticismo ma anche con le concezioni cultuali e rituali iraniche, ad opera di Hamza ibn Ali ibn Ahmad, nel secondo decennio dell’XI secolo, sulla base della credenza diffusa da alcuni dotti ismailiti che l’imam fatimide Al-Hakim (che è in effetti colui che ha il potere in Egitto in quell’epoca e che supporta la nascita del movimento druso) abbia caratteristiche semidivine se non addirittura divine ma nel senso della “mistica della Luce” sufica. Tale credenza è considerata ovviamente “eretica” dagli altri musulmani, sebbene non sia altro che l’estremizzazione dell’Ismailismo ed il risultato di forti contaminazioni sincretiche derivanti dal substrato nilotico-mesopotamico che attribuisce carattere semidivino (o divino) alla regalità. Quando Al Hakim muore (probabilmente assassinato), i drusi sostengono che tale morte non è effettivamente avvenuta ma che si è trattato di un “occultamento”, avvenuto assieme a quello di Hamza ibn Ali e di altri dotti del movimento, che viene a questo punto guidato da Al Muqtana Baha’uddin e che Al Hakim riapparirà e questa credenza, che a del resto si rifà alla tradizione ismailita che prevedeva la figura del Mahdi, l’”inviato” (il “ritornato”), non può che porre i drusi in opposizione rispetto al nuovo califfo Al Zahir, figlio di Al Hakim, che li perseguita duramente; dietro la coloritura religiosa si celano contrasti politico-clanici in ambito fatimide e che essi si rappresentino attraverso tematiche cultuali e rituali è assolutamente ovvio in un’epoca nella quale sia in ambito islamico che cristiano tutte le controversie politiche non possono che esprimersi in termini religiosi e teologici. Il risultato di questo scontro è una serie di massacri di decine di migliaia di drusi in tutto l’Egitto ma anche ad Aleppo ed Antiochia, ed essi fuggono verso alcune énclaves isolate dell’area siriana, creando anche i primi nuclei nell’area dello Chouf, dove secoli dopo molti di loro (fra cui i clan degli Arslan e degli Jumblatt, nel XVII secolo) si rifugeranno per sfuggire a nuove persecuzioni, stavolta ottomane; persecuzioni che non impediranno ai sovrani ottomani di assegnare proprio a leaders drusi (come l’avo di Walid Jumblatt) incarichi di governo areale su quelle regioni, secondo la metodologia sempre usata dagli ottomani di delegare a notabili di singole comunità religiose ruoli di gestione dei rispettivi territori. Intanto dopo circa un decennio, le persecuzioni si attenuano e la comunità drusa può ricominciare a svilupparsi ed è a questo punto che nel 1043 viene stabilito il divieto di aderire alla comunità drusa, che da questo momento diventa chiusa; la stessa chiusura all’esterno dei drusi non manca di avere eccezioni significative, visto che ad esempio nel XII secolo essi includono in posizione preminente anche la gente della tribù di Shihab, che si insedia attorno al Monte Hermon ma proviene dall’Hijaz della Penisola Araba.
Successivamente, il potere (semifeudale) dei drusi su alcune aree cresce grazie al ruolo che essi svolgono nell’opposizione armata ai crociati, in particolare nella fase del dominio mamelucco in Egitto (XIII-XIV secolo) ed è fin dall’inizio di questo periodo che emerge come famiglia drusa prominente quella degli Arslan. Terminata la fase dell’espulsione dei crociati dal Medio Oriente, però, i Mamelucchi avviano la repressione delle tendenze non-sunnite (Sciiti duodecimani, Alawiti, Ismailiti e appunto Drusi), che si sviluppa in campagne militari, stragi e conversioni forzate al Sunnismo e tale politica viene inizialmente proseguita dal nuovo potere ottomano nei secoli XVI-XVII, ma non tanto sulla base di fattori religiosi, quanto dei conflitti fra potere centrale (e centralistico) ottomano e comunità ribelli al giogo fiscale che si dedicano anche alla guerriglia/banditismo, finché gli ottomani riconoscono nuovamente il potere (semifeudale) druso sullo Chouf e su altre aree territoriali. In questa fase si sviluppano forti contrasti interni alla comunità drusa, le cui fazioni vengono di volta in volta appoggiate o contrastate dal potere ottomano, ma che arrivano (ad esempio con Fakhr-al-Din all’inizio del Seicento) addirittura a sottoscrivere trattati con potenze cristiane come Napoli e la Toscana, dove talora trovano asilo contro le persecuzioni ottomane, che si riacutizzano nel XIX secolo, mentre alla metà del secolo (1840-1860) esplodono forti contrasti fra le comunità druse e quelle maronite, alimentati dall’azione coloniale francese, che spinge i maroniti alla rivolta contro i drusi, rappresentanti feudali del potere ottomano.
Supposta astoricità e principi dottrinari dei drusi
Ai drusi, inoltre, per costruire la loro supposta astoricità, non basta neppure il riferimento ad una fittizia immutabilità dal secolo XI in poi e, come molte altre correnti religiose medievali, essi si costruiscono una legittimità che affondi le sue radici mitiche in epoche lontanissime, preislamiche, e quindi ritengono loro fondatore Shuayb, un profeta preislamico che viene identificato con Ietro, suocero di Mosé; per questo i drusi considerano sacro il luogo dove tradizionalmente si suole credere sia posta la sua tomba, vicino Hittin, dove ogni anno, il 25 aprile, si tiene una celebrazione drusa del profeta.
Per quel che si conosce della loro complessa e in parte (come si è detto) tuttora ignota dottrina, essa si fonda sulla credenza in un “Principio Divino” detto anche “Intelletto Attivo” che può darsi forma umana e che, appunto, veniva identificato al sorgere del movimento druso con Al Hakim. Nelle loro concezioni, che pure hanno una evidente derivazione dall’Islam ismailita (già esso stesso polisincretico), si ritrovano elementi sincretici di derivazione indiana (come la credenza nella trasmigrazione delle anime o metempsicosi), cristiana (i drusi riconoscono sacro il Nuovo Testamento alla pari del Corano); inoltre, mentre i drusi manifestano una spiccata concezione “unitaria” di Dio, essi si rifanno anche ad uno dei cardini del Sufismo, ossia la centralità della cosiddetta “mistica della Luce” (che influenzò largamente anche Dante), ma quel che davvero distingue i drusi da altre tendenze islamiche è la centralità della credenza nella reincarnazione, che avverrebbe nel momento stesso della morte ed è essa stessa rigidamente…chiusa, non solo alla possibilità di reincarnarsi in animali, accettata da Buddhismo ed Induismo, ma anche nel senso che un uomo druso si reincarnerà solo in un maschio di famiglia drusa e una donna drusa in una donna di famiglia drusa! In più, il numero di anime esistenti è considerato finito, però i drusi condividono con le concezioni di matrice indiana l’idea della possibilità di sfuggire al ciclo delle rinascite riunificandosi con l’Intelligenza Cosmica in uno stato di beatitudine eterna. Altro elemento caratteristico del movimento druso, comune peraltro a diverse correnti islamiche (e che viene copiato ad opera di templari ed altri soggetti cristiani…) è la suddivisione in tre gradi dei fedeli; il primo è riservato a chiunque possa leggere ed è detto zahir, il secondo è riservato a chi ha compiuto un percorso di apprendimento iniziatico ed è detto batin, il terzo è riservato ad una ristrettissima élite di maestri iniziatici ed è solo in questo livello che si possono conoscere i veri principi dei drusi, che possono essere anche non solo differenti ma opposti a quelli proclamati negli altri due livelli, e la Verità stessa a proposito dell’intero Universo. I sette principi essenziali della condotta di vita drusa sono: veridicità nel parlare (verso i drusi), solidarietà e protezione (verso i drusi), rifiuto delle false credenze (quelle non druse), ripudio del diavolo e del dispotismo visto come strumento del diavolo, proclamazione rigorosa dell’unità di Dio, accettazione della volontà di Dio e, conseguentemente, totale sottomissione al suo volere. Va ancora ricordato che, nell’applicazione estremizzata del concetto, caro anche agli ismailiti in genere, della “dissimulazione”, molti drusi aderiscono formalmente alla religione o alla tendenza religiosa dominante dell’area in cui si trovano a vivere quando non vi è in essa un potere druso e questo porta anche ad accettare stili di vita, ideologie e forme istituzionali diverse; così, ad esempio, mentre i drusi del Libano hanno attivamente partecipato alla resistenza anti-Israeliana, quelli della Galilea sono gli unici non-Ebrei ammessi nell’esercito israeliano. Interessante è il fatto che mentre la società drusa ha sistemi di potere clanico-feudali adattati alla modernità e mentre esistono, come si è detto, gradi assai diversi di “sapienzialità”, non esiste una gerarchia di operatori religiosi e ciononostante oltre il 90% della popolazione drusa non è iniziata e rientra nella categoria dell’ignoranza (al-Juhhal) e non può né conoscere i testi sacri dei drusi, né partecipare alle riunioni rituali; coloro che invece possono partecipare sono classificati come al-Uqqal e, in apparente contraddizione con la non esistenza di una gerarchia religiosa, fra loro sorgono leaders spirituali comunitari detti ajawid, fra i quali vengono selezionati i massimi leaders spirituali drusi, che hanno anche il ruolo di tramite verso le autorità temporali, oltre che quello di giudici.
Altri elementi delle concezioni druse conosciute sono l’indissolubilità matrimoniale, il rifiuito della poligamia, il divieto di apostasia, il rifiuto dell’iconografia e l’adozione dei cinque colori bianco, azzurro, giallo, rosso e verde come simbolo religioso (a forma di stella o di strisce) e di ciascuno di essi come corrispondente ad un concetto: il bianco rappresenta l’Immanenza, l’azzurro la Causa, il giallo il Logos, il rosso l’Anima Universale, il verde l’Intelligenza Universale.
I libri di Silvio Marconi
Uno studio che, lungi dall’avere un obiettivo “enciclopedico” o di minuziosa analisi storica, vuole evidenziare quelle connessioni e correlazioni – tradizionalmente taciute e rimosse – tra i fenomeni ed i processi che portarono alla crisi ed al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e quelli operanti in un’Asia la cui complessa storia viene, tuttora, sottovalutata.
Quando una farfalla batte le ali in Cina si sofferma sul ruolo che, nella crisi e nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ebbero tanto la Persia quanto, indirettamente, la Cina, dimostrando come il pregiudizio etnocentrico che ancora permea la formazione, la divulgazione e la costruzione dell’immaginario occidentale sia un pernicioso ostacolo a una comprensione di ben più ampio respiro e alla lezione metodologica che ne se ne può trarre.
In questa prospettiva, il riconoscimento di una molteplicità di poli e fattori transculturali è la precondizione per affrontare qualsiasi problematica: storica, politica, economica o strategica.
Una precondizione troppo spesso, volutamente, ignorata da una cultura occidentale che, a differenza di quelle orientali, ha rifiutato la logica olistica privilegiando un approccio molto settoriale.
Silvio Marconi – ingegnere, antropologo, operatore di Cooperazione allo sviluppo, Educazione allo Sviluppo e Intercultura – fa ricerca, da anni, nell’ambito dell’antropologia storica e dei sincretismi culturali. Ha pubblicato, al riguardo: Congo Lucumì (EuRoma, Roma, 1996), Parole e versi tra zagare e rais (ArciSicilia, Palermo, 1997), Il Giardino Paradiso (I Versanti, Roma, 2000), Banditi e banditori (Manni, Lecce, 2000), Fichi e frutti del sicomoro (Edizioni Croce, Roma, 2001), Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma, 2002), Dietro la tammurriata nera (Aramiré, Lecce, 2003), Il nemico che non c’è (Dell’Albero/COME, Milano, 2006), Francesco sufi (Edizioni Croce, Roma, 2008), Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016).
Prezzo di copertina: 18 euro Prezzo effettivo: 15.5 euro