Aicha e il Sufismo

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E’ questo il secondo articolo di una serie, curata dal nostro collaboratore Silvio Marconi, su “eterodossie, eresie o, semplicemente sincretismi nell’Islam”.

Il primo riporta il titolo della serie. Per leggerlo cliccare qui!

 

Una fiaba dell’Atlante marocchino

Nel suo Feminisme Soufi  (Afrique Orient, Casablanca, 1991), Abdessamad Dialmy analizza una fiaba dell’Atlante marocchino, peraltro nota in tutto il Marocco, che è considerata un raro esempio di “femminismo” in ambito islamico, dato che narra del trionfo di una donna su un uomo attraverso una serie di intelligenti espedienti. La protagonista, Aicha, di umili natali, umilia in una prima fase il suo pretendente, figlio di un Sultano, ponendogli una serie di domande (“quante foglie ha il basilico? quante stelle ci sono in cielo? quanti pesci ci sono nel mare? quanti punti ci sono nel Corano?”), peraltro dal valore esoterico, a cui egli non sa dare risposta e poi, con l’aiuto del padre, lo umilia sessualmente “femminilizzandolo” dopo averlo addormentato (lo rade, lo trucca, gli pone un ravanello nell’ano). L’uomo si vendica facendo imporre dal Sultano al padre di Aicha le nozze e poi rinchiudendola in un sotterraneo mentre lui tre volte viaggia lontano dopo averle beffardamente chiesto chi sia più potente, l’uomo o la donna, e ricevendo sempre come risposta da Aicha “la donna”.

Ogni volta Aicha esce dal sotterraneo attraverso un tunnel scavato dal padre e magicamente si fa trovare, senza essere riconosciuta, dal marito in una tenda nel luogo che egli raggiunge, lo fa ardere di passione e si accoppia con lui, che allontanandosi le fa un dono. Ogni volta la donna torna nel sotterraneo, e nove mesi dopo partorisce un figlio, nascostamente, nella casa paterna (due maschi ed una femmina). Il Sultano, credendo che in tre anni Aicha non abbia mai dato un erede al figlio prepara le nozze del giovane con una seconda donna, una cugina, ma alla cerimonia si presentano i tre figli di Aicha che si fanno riconoscere dal padre attraverso  i tre doni ed a questo punto il giovane libera Aicha e riconosce la superiorità della donna e scaccia la cugina.

Questa favola include molti elementi appartenenti alla cultura berbera preislamica, sia nei riferimenti esoterici che nel significato iniziatico del tunnel, che nell’uso delle pratiche magiche ma ad una seconda lettura può anche essere vista come la descrizione della normalizzazione (“islamizzazione”) di un simbolo (Aicha) di tale cultura perché in fondo la donna non commette adulterio (i figli sono del legittimo marito), partorisce i necessari eredi e quindi la “normalità” trionfa.

 

Altre due Aicha

In realtà, per capire cosa rappresenti quella fiaba  occorre collegare la protagonista con altre due Aicha. La prima è Aicha Kandicha, che nella cultura berbera preislamica è la signora della notte (e del nero) e della sessualità (e fertilità, collegata ai cicli lunari) signora della magia e delle pratiche iniziatiche, evocata in riti di possessione che sincreticamente si ripresentano nelle pratiche delle donne marocchine “islamizzate” fino ad oggi; quella Aicha kandicha, però, è collegata anche alle figure delle “prostitute sacre” dei culti punici e fenici alla dea Ashtarte e ad altri simili riferimenti culturali protostorici mediterranei.

La seconda Aicha è colei che, giovanissima, fu l’ultima sposa del Profeta Muhammad, che sopravvisse al marito per quarantasei anni ed in quegli anni svolse un ruolo politico determinante; apparentemente quanto di più opposto alla figura di Aicha kandicha e semmai una conferma della spiegazione della fiaba non in senso “veterofemminista” ma di “normalizzazione” della Aicha berbera in una Aicha musulmana.

In realtà tale contrapposizione è fittizia, perché Aicha sposa del Profeta, famosa per la sua eccezionale bellezza e per il suo erotismo, ma anche per la sua intelligenza ed il suo carisma, viene considerata da molte storie tradizionali musulmane come collegata con il mondo dei jinn, esseri intermedi fra uomini ed angeli esplicitamente citati dal Corano e dotati di poteri straordinari, mentre Aicha Kandicha, nella versione sincretica berbero-islamica, è nient’altro che la “Jenniya”, ossia la “regina dei jinn” ed è come tale che viene invocata/evocata nei riti sincretici di possessione marocchini. Dunque, la fiaba di Aicha è essa stessa, coi suoi vari livelli di lettura ed i suoi diversi rimandi, un esempio di sincretismo, anzi di polisincretismo, che fiorisce in uno specifico ambito e tale ambito può essere definito con tre aggettivi: berbero, islamico, sufico.

 

Una correlazione articolata fra sistemi culturali e cultuali differenti

La chiave di quel polisincretismo è essa stessa complessa e ci svela una correlazione articolata fra sistemi culturali e cultuali differenti. La cultura berbera, già in fase preislamica (fin dall’epoca punica e da prima ancora) e poi in quella post-islamizzazione, è impregnata anche di elementi di radice africana sub sahariana, quali i riti di possesione, e di matrice mediorientale (quale la correlazione riti di fertilità/luna-prostituzione sacralizzata); l’islamizzazione non cancella né gli elementi autoctoni né quelli di origini mediorientali e/o sub sahariane preislamiche che resistono in forma sincretica, anche perché è la stessa cultura arabo-islamica che conquista il Nordafrica a cavallo fra il VII e l’VIII secolo ad avere elementi sincretici, come mostrano le tradizioni legate alla moglie del Profeta Mohammed, l’altra Aicha. Quegli elementi sincretici sono particolarmente forti nell’ambito delle tendenze di quello che viene chiamato “Sufismo”, un universo ricco e complesso su cui si tornerà in altri articoli successivi, che non a caso trova un terreno di particolare fioritura proprio (anche se non soltanto) nell’Africa del Nord e, secoli dopo, con l’espansione dell’Islam verso il Sahel, anche nelle regioni sub sahariane. Esiste quindi una dialettica tra Sufismo e sincretismi berbero-islamici che vede il primo, per le sue caratteristiche, alimentare e supportare i secondi ed i secondi innervare e caratterizzare in ambito maghrebino il primo, conformando appunto un polisincretismo che proietta le sue influenze fino nella Penisola Iberica e nel Sud d’Italia, grazie al fatto che furono proprio i Berberi (guidati dal liberto berbero Tariq, a cui è intitolata Gibilterra, Gebel al-Tariq, “la montagna di Tariq”) la prima ondata, nel 711, della conquista musulmana di ampie regioni della Penisola Iberica, partecipando inoltre anche alle ondate successive e fino all’epoca delle dinastie di matrice marocchina degli Almoravidi e degli Almohadi furono berbere significative aliquote dei colonizzatori musulmani della Sicilia.

 

Il ruolo di cerniera del Sufismo

Per capire come il sufismo abbia giocato questo ruolo di cerniera nel caso dei sincretismi afro-berbero-musulmani e perché altrettanto sia avvenuto, in forme diverse, in altre aree geografiche e culturali con altri tipi di sincretismi in ambito islamico, occorre innanzi tutto ricordare che il Sufismo stesso, per molti una corrente “eterodossa” (o meglio un insieme di correnti “eterodosse”) dell’Islam è in effetti il risultato di processi sincretici. La stessa denominazione di “sufi” e “sufismo” non è altro che un termine-ombrello, che racchiude sotto di sé realtà diversificate che hanno in comune alcuni elementi: l’organizzazione in confraternite” guidate da un maestro che è tale perché riconosciuto dai suoi adepti, la centralità della relazione mistica con la divinità, la ricerca conseguente di tale relazione attraverso pratiche ascetiche e/o di uso di sostanze psicotrope e della musica appropriata, il rapporto forte con il culto post-mortem di questi maestri (assimilati nella cultura occidentale a “santi”) e sia con la credenza che tale culto (spesso a carattere possessivo o estatico) consenta benefici ai praticanti che con quella di un effetto benefico più generale (una sorta di “benedizione”, di azione protettiva, detta baraka) verso tutti gli abitanti di un determinato territorio ove sia situato il sepolcro di uno di tali maestri, a cui in molti casi si associa nel tempo un vero e proprio complesso sacrale-rituale, una sorta di “santuario”. A questo si aggiunge il fatto che il Sufismo implica l’acquisizione della conoscenza attraverso lunghi percorsi iniziaticamente caratterizzati di apprendimento da parte del discepolo guidato dal maestro e l’esistenza di livelli differenziati di “verità”, ossia di un vero e proprio sistema esoterico, che implica anche l’estremizzazione del concetto, presente già nel Corano, della taqiya. Taqiya” è la cupoletta di tessuto che molti Musulmani mettono nella tradizione fra la propria testa ed il copricapo (il turbante, ad esempio, in area turca, il mantello ripiegato in area araba, ecc.) e che resta pertanto nascosta alla vista ed in effetti quel termine indica nel Corano il diritto del credente musulmano di dissimulare la propria fede, facendo finta di assumerne un’altra, se viene messa in pericolo la sua sopravvivenza a causa di essa; l’importante, per il Corano, è “restare musulmani nel cuore” anche quando esteriormente si fa finta di essere altro. Questa tecnica, ad esempio, è stata largamente utilizzata da tanti cripto-Musulmani durante il periodo della Reconquista, ossia dell’avanzata cattolica nella Penisola Iberica dal secolo XIV al secolo XVI, fintisi Cristiani per sopravvivere. Il Sufismo porta all’estremo questo concetto e da un diritto in casi di emergenza ne fa un dovere in ogni caso, correlandolo al fatto che esistono livelli di conoscenza nascosti che devono restare tali ed estendendolo, in taluni pensatori sufi, addirittura al fatto che si può essere in rapporto mistico con Dio in forma sufi non solo da Musulmani, ma anche da Cristiani, da Ebrei, da Induisti, da non-credenti, nonché violando apertamente molte delle norme comportamentali coraniche, considerate come semplicemente “esteriori”, comprese quelle circa l’etica sessuale (ad esempio circa l’omosessualità), il consumo di alcool, il digiuno del Ramadan, ecc. Vedremo in futuro in altro articolo che sono addirittura esistite confraternite sufiche che predicavano la violazione voluta ed esplicita delle regole coraniche per essere disprezzati e puniti nella società musulmana in modo da cancellare ogni egocentrismo e avvicinarsi così al rapporto mistico con Dio. Un altro elemento-chiave del sufismo, nelle sue diverse versioni in modo più o meno estremizzato, è il rifiuto dei “valori materiali” visti come illusioni pericolose e ostacoli al raggiungimento della desiderata unione mistica con Dio, che si traduce nel pauperismo, talora ancora una volta nelle pratiche capaci di attirare biasimo e riprovazione sociale per negare la materialità dell’esistenza; lo stesso termine “sufi” deriverebbe da souf e si collega al rozzo burnus di lana (mantello col cappuccio) che, abito per eccellenza dei poveri pastori e dei Berberi maghrebini) i Sufi adottano quasi come un distintivo, in ogni regione. Un abito da cui trae origine anche quello francescano, non per caso, dato che, come si dirà, gli elementi del pensiero sufico nelle concezioni di Francesco d’Assisi (come di molti altri pensatori cristiani medievali) sono numerosi e spiegano anche perché nella nota sua visita presso il Sultano musulmano in Egitto, i saggi (sufi) che attorniavano il Sultano stesso lo rispettassero…. .

E’ questo Sufismo la porta che permette ai sincretismi afro-berbero-islamici di fiorire ma che riceve da loro forza ulteriore, nella fusione fra riti di possessione e culto dei maestri, fra organizzazione sufica in confraternite e gruppi rituali berberi, circa il ruolo importante delle donne, che è centrale in alcuni sistemi rituali-cultuali sincretici afro-berbero-islamici (come si è detto nel caso delle adepte di Aicha Kandicha), ma che vede anche fra i produttori nel corso dei secoli di pensiero sufico islamico un numero incredibilmente alto di donne, non solo in Egitto e nel maghreb ma anche, ad esempio, in Andalusia.

Chiunque si sia occupato dei sistemi cultuali e rituali, delle concezioni  e delle pratiche in area indiana che sbrigativamente vengono in genere incluse nel termine “Induismo” e che in effetti sono un ricchissimo e frammentato universo, sarà capace di notare le similitudini di tale realtà con il Sufismo di matrice islamica e questo non avviene casualmente ma per il fatto che in effetti il Sufismo stesso ha matrice sincretica, giacché esso è risultato di rielaborazioni di elementi indiani in area mediorientale egemonizzata prima dal Cristianesimo (che a sua volta non è privo di influssi di matrice indiana) e poi dall’Islam. Non a caso, lo stesso processo di islamizzazione di alcune aree dell’altopiano del Deccan avvenne, nel corso dei secoli, ben prima della conquista Moghul proprio grazie alla penetrazione da un lato mercantile e dall’altro di maestri, predicatori e confraternite sufici, che risultavano portatori di concezioni e pratiche non ignote agli Indiani.

 

Altre correlazioni

Le correlazioni vanno ancora oltre. La cantautrice canadese Loreena McKennit, autrice ed interprete ma anche studiosa di musica celtica, ha mostrato (anche col suo The mask and the mirror) l’influenza di segmenti del sistema culturale sufico su quello dell’ascetismo iberico ma anche della musica sacra iberica e perfino, appunto, sul misticismo e sulla musica tradizionale irlandesi; del resto, elementi sufici si ritrovano anche nella cultura ebraica medievale e nel misticismo di figure come Teresa d’Avila, che peraltro era di origine ebraica (il nonno era un ebreo di Toledo che aveva acquistato una falsa patente da Cristiano per sfuggire all’Inquisizione) ed i cui confessori/guide spirituali erano sacerdoti…di origine ebraica.

I più grandi nemici del Sufismo nella Storia sono stati gli integralisti cattolici e quelli musulmani; nel Medioevo in effetti l’intero apparato della Chiesa combatteva proprio con particolare ardore il sufismo e le sue concezioni e pratiche di camuffamento, ma il fanatismo di settori islamici anti-sufi si sviluppa soprattutto in epoca recente, grazie ad esempio all’affermarsi del Wahhabismo nella penisola araba, sponsorizzato dai Britannici prima e dagli statunitensi poi. In quei luoghi il Sufismo è stato bandito e tutte le tombe ed i santuari sufici sono stati distrutti ben prima che una sola pietra di Palmira o di Mossul venisse toccata dai terroristi!

 

Sufismo VS integralismo

E’ evidente, del resto, che proprio il carattere polisincretico ed “aperto” del Sufismo è una sfida diretta a qualsiasi integralismo e se i nemici del Sufismo di ogni epoca hanno utilizzato spesso le forme estreme di tale realtà (come quelle del non rispetto dei precetti coranici) per colpire i Sufi come “apostati”, in effetti quel che dava e dà fastidio a tutti gli integralismi non è questa o quella violazione, posto che ad esempio molti promotori dell’osservanza più stretta di tali norme in Arabia Saudita le violano costantemente sui loro yachts o nelle loro residenze lussuose nel Mediterraneo, ma è invece proprio il rifiuto sufico di erigere steccati rigidi attorno alla fede e di delegare ad un rigido sistema di norme il rapporto mistico con Dio.

Lo stesso è avvenuto con il laicismo esasperato della Turchia di Ataturk, che ha messo al bando il Sufismo per decenni e ne ha distrutto o ridotto a semplice folklore le confraternite, che nell’Impero Ottomano erano state influentissime.

Se già l’Islam (specie sunnita) è assai meno centralizzato e verticalizzato  (nonostante la caricatura tragica propagandata dai tagliagole di oggi al servizio di interessi geopolitici) del Cattolicesimo, la versione, anzi l’arcipelago di versioni delle concezioni sufiche lo sono infinitamente meno e ogni confraternita finisce per configurarsi come una comunità a se stante, come una sorta di versione islamica dell’ashram, sebbene possa arrivare storicamente a diffondersi articolarsi, acquisire una influenza politica, economica e culturale rilevante; in questo sta il valore di argine che il Sufismo ha contro ogni concezione teocratica ed integralista, un valore che l’Occidente non ha mai voluto capire e sostenere perché ciò implicherebbe rimettere in discussione anche troppa parte delle proprie chiusure e delle proprie false certezze, dei propri rigori (laicisti o religio-centrici che siano) e delle proprie rigidità e vorrebbe anche dover ammettere il debito grande che il pensiero occidentale stesso nelle sue parti migliori, da Francesco a Pico della Mirandola, da Thomas Moore a Boccaccio, da Chaucer a Shakespeare, ad esempio, ha verso le correnti sufiche e più in generale verso il fenomeno dei sincretismi.

 

I libri di Silvio Marconi

 

Uno studio che, lungi dall’avere un obiettivo “enciclopedico” o di minuziosa analisi storica, vuole evidenziare quelle connessioni e correlazioni – tradizionalmente taciute e rimosse – tra i fenomeni ed i processi che portarono alla crisi ed al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e quelli operanti in un’Asia la cui complessa storia viene, tuttora, sottovalutata.
Quando una farfalla batte le ali in Cina si sofferma sul ruolo che, nella crisi e nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ebbero tanto la Persia quanto, indirettamente, la Cina, dimostrando come il pregiudizio etnocentrico che ancora permea la formazione, la divulgazione e la costruzione dell’immaginario occidentale sia un pernicioso ostacolo a una comprensione di ben più ampio respiro e alla lezione metodologica che ne se ne può trarre.
In questa prospettiva, il riconoscimento di una molteplicità di poli e fattori transculturali è la precondizione per affrontare qualsiasi problematica: storica, politica, economica o strategica.
Una precondizione troppo spesso, volutamente, ignorata da una cultura occidentale che, a differenza di quelle orientali, ha rifiutato la logica olistica privilegiando un approccio molto settoriale.

 

Silvio Marconi – ingegnere, antropologo, operatore di Cooperazione allo sviluppo, Educazione allo Sviluppo e Intercultura – fa ricerca, da anni, nell’ambito dell’antropologia storica e dei sincretismi culturali. Ha pubblicato, al riguardo: Congo Lucumì (EuRoma, Roma, 1996), Parole e versi tra zagare e rais (ArciSicilia, Palermo, 1997), Il Giardino Paradiso (I Versanti, Roma, 2000), Banditi e banditori (Manni, Lecce, 2000), Fichi e frutti del sicomoro (Edizioni Croce, Roma, 2001), Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma, 2002), Dietro la tammurriata nera (Aramiré, Lecce, 2003), Il nemico che non c’è (Dell’Albero/COME, Milano, 2006), Francesco sufi (Edizioni Croce, Roma, 2008), Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016).

Prezzo di copertina: 18 euro Prezzo effettivo: 15.5 euro