Eterodossie, “eresie” o sincretismi nell’Islam?

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Eterodossie, “eresie” o sincretismi nell’Islam?

Dal nostro collaboratore, Silvio Marconi

 

E’ abitudine corrente da parte di molti di noi occidentali, inclusa tanta parte degli operatori dei media, dei cosiddetti opinion makers e purtroppo anche di altri intellettuali o che amano definirsi tali, usare con significativa frequenza il termine eterodossie o perfino eresie per categorizzare correnti islamiche diverse da quella sunnita (o, nei casi di maggiore “apertura concettuale”, da quelle sunnita e sciita) ed anche fenomeni culturali e cultuali che sono presenti all’interno della stessa corrente sunnita ed ancor più di quella sciita.

Non ci si accorge che così facendo si compiono due enormi errori, uno storico-culturale ed uno socio-politico. Sul piano storico-culturale (e si potrebbe dire anche storico-antropologico) ci si dimentica che l’Islam ed in particolare proprio quello sunnita non ha alcuna forma di centralismo che fondi un potere verticistico capace di definire cosa vada considerato “ortodosso” e quindi, di conseguenza, cosa vada considerato “eterodosso” e più ancora “eretico”. Se la corrente scita dell’Islam ha una gerarchia, un sistema organizzato unificato di formazione degli operatori cultuali, centri di irradiazione riconosciuti dell’interpretazione dottrinaria, anche esso non ha l’equivalente di un “Papa” e di un “Concilio (neppure l’ayatollah Khomeini fu mai qualcosa di paragonabile ad un Urbano VIII o ad un Pio XII) e nella corrente sunnita, largamente maggioritaria nell’Islam a livello planetario, non esistono neppure tali elementi gerarchici e tali riferimenti se non a livello locale, si potrebbe dire localistico.

Certo, ad esempio, le concettualizzazioni figlie dei dotti dell’Università Al Azhar del Il Cairo sono considerate influenti e rispettabili, ma non rappresentano dogmi o dottrina univoca e la fatwa, ossia la “sentenza” di un dotto dell’Islam sunnita non è affatto vincolante per tutti i Sunniti e men che mai per gli altri dotti.

Paradossalmente, proprio quegli integralisti islamici (da Al Qaida al DAESH ad Al Nusra, ecc.) che assolutizzano in modo più estremo i presunti “dettami originari” del Profeta Muhammad e che ne fanno meccanicisticamente derivare norme, feroci, di comportamento per sé e per chi viene assoggettato da loro, lo possono fare proprio in quanto esercitano un diritto di qualsiasi credente musulmano e, a maggior ragione, di qualsiasi dotto musulmano: quello di proclamare come vera e da seguire una interpretazione (la sua…) del Corano e soprattutto degli hadith, ossia dei detti attribuiti al Profeta Muhammad, che peraltro sarebbero già incomparabilmente meno vincolanti per i musulmani rispetto al sacro testo coranico, posto che, a differenza di quello, non sono affatto considerati provenienti da Allah.

Utilizzare proprio questa opportunità fondata su un pluralismo concettuale e teologico di fatto che non ammette “ortodossie”, per stabilire invece proprio una distinzione più o meno feroce fra la propria concezione, che diventa pertanto automaticamente la “vera”, anzi “l’unica vera” e quindi l’”ortodossia”, e le altre, che diventano quindi automaticamente tutte “false” e quindi “eterodosse” o più chiaramente “eretiche”, “blasfeme”, perfino “politeiste”, è un’operazione tutta politica, non religiosa e solo in parte culturale. Un’operazione che è già avvenuta con la contrapposizione determinatasi pochi decenni dopo la morte del Profeta Muhammad fra i seguaci di Ali, che saranno poi detti “sciiti”, e quelli degli altri esponenti della leadership islamica dell’epoca, detti “sunniti”, che non avvenne sulla base di un originario contrasto interpretativo di ordine teologico-cultuale ma, invece, sulla base dell’opposizione fra chi (i primi) ritenevano che la successione al potere temporale sulla comunità dei credenti musulmani (la Umma) spettasse solo ai membri della famiglia del Profeta (quale Ali appunto era) e chi (i secondi) propendeva invece per un sistema di selezione oligarchica.

Le differenze nelle interpretazioni di alcuni elementi teologico-cultuali vennero dopo e si moltiplicarono, al tempo stesso cristallizzandosi e producendo differenze rituali, nella struttura della formazione teologica, di riferimenti storico-mistici, nel corso dei secoli, ma tutto nacque sul piano eminentemente politico, esattamente come ciò che si autodefinisce oggi “islamismo radicale” e che noi Occidentali siamo più abituati a chiamare integralismo islamico non nasce affatto da una riflessione autonomamente confinata in origine  all’ambito teologico che poi assume carattere politico, ma, al contrario, da una elaborazione politica che si connota da riflessione teologica e si ammanta di religione. Ciò è particolarmente vero proprio nella corrente sunnita dell’Islam, quella dentro cui fioriscono fenomeni come il Wahhabismo caro ai Saud, che assume un ruolo non più insignificante solo grazie alla sponsorizzazione occidentale (inizialmente britannica e poi statunitense) di quel grande clan familiare in funzione di guardiano delle risorse petrolifere della Penisola araba, ma anche come la Fratellanza Musulmana, che non è esente da influssi concettuali ed organizzativi tratti di peso dalle più disparate esperienze europee dei decenni a cavallo fra secolo XIX e XX, dal nazionalismo romantico all’attivismo soreliano, dalla concezione del partito leninista alla concezione corporativa fascista.

Dunque, se sul piano storico-culturale è sbagliato accettare un uso di termini come “eterodossia” e più ancora “eresia” applicati a concezioni e comportamenti che non appaiono “tipicamente islamici” (ma tipicamente rispetto a che e deciso da chi?), sebbene tali termini siano polemicamente usati da secoli anche in ambito islamico per legittimare polemiche e conflitti, fratture e scontri e spesso guerre, sul piano politico-sociale tale accettazione ci schiera oggettivamente a fianco dei peggiori campioni di quello che noi chiamiamo “integralismo islamico”, compresi quei terroristi che proprio in nome di quella che loro proclamano ed autodefiniscono lotta all’”eresia” massacrano, sgozzano, schiavizzano, devastano monumenti, vietano pratiche culturali e cultuali in un’orgia di contrapposizioni violente non solo alle altre religioni (dal Buddhismo all’Induismo, dal Cristianesimo all’Ebraismo, dai culti tradizionali africani allo Yazidismo, ecc.) ma a tutto quanto nell’Islam si distacca dalla propria visione e quindi, ovviamente, in primo luogo le diverse famiglie della corrente sciita ma anche tutto quanto è “diverso” in seno allo stesso sunnismo.

Questo secondo errore solo in parte, sia pure significativa, è figlio del primo, perché in realtà l’Occidente ama applicare anche in questo, come in molti altri casi, la sua tecnica dei “due pesi due misure”; così i media hanno portato in tutte le case occidentali le notizie terribili delle distruzioni che gli integralisti islamici di vario colore (dai talebani afghani ai tagliagole di DAESH) hanno compiuto contro elementi del Patrimonio Culturale planetario come i Buddha di Bamiyan, i resti archeologici di Palmyra in Siria, le collezioni archeologiche di musei siriani ed iraqeni, tante chiese cristiane, ma anche moschee, santuari sufici, tombe di “uomini pii” musulmani, minareti, ma non si spiega mai che l’avvento al potere del clan Saud nella Penisola Arabica (voluto e reso possibile dall’Occidente) ha portato ad altrettante devastazioni ad esempio proprio dei centri di ritualità sufica in quell’area, dato che ogni ritualità e cultualità che non sia indirizzata al Dio unico è considerata nel Wahabbismo come “politeista” e da estirpare.

L’errore socio-politico, che diventa perfino geopolitico, deriva invece in parte anche da un altro aspetto: la sottovalutazione sistematica che in Occidente ci siamo abituati a fare del vero elemento portante di tante di quelle forme rituali, cultuali, comportamentali che nell’Islam sono troppo spesso etichettate (da noi e da tanti Musulmani stessi) come “eterodossia” e/o “eresia” (se non, appunto “blasfemia” e “politeismo”, con le terribili conseguenze del caso) e che invece andrebbero ricondotte alla fenomenologia dei sincretismi. Dove intendiamo per “sincretismo” non la semplice mescolanza di elementi di origini culturali, religiose, etniche, storiche diverse, ma il risultato di un processo che vede dietro tale mescolanza uno squilibrio di potere fra una o più componenti soggiogate, egemonizzate, oppresse ed una componente soggiogatrice, egemone, oppressiva (dove i tre termini non sono sinonimi, pur intrecciandosi tra loro, dialetticamente, in proporzioni diverse nei diversi casi storici).

Figli più o meno espliciti se non del razzismo eurocentrico alla Gobineau, certamente dell’eurocentrismo di secoli di studi, di accademia, di espansionismo planetario, di colonialismo, di missionariato religioso sulla punta delle spade e poi delle baionette, dell’esaltazione acritica di “romanità” e “grecità”, noi occidentali tendiamo a rimuovere non solo il fatto che non esistono culture “pure” e neppure “religioni pure”, ma che in ogni cultura e religione esistono non tanto e non solo quelle “sopravvivenze” di altra radice di cui tanti studiosi sono disposti a parlare, quanto elementi e interi segmenti di sistemi concettuali e di pratiche frutto di una tenace resistenza degli oppressi, degli egemonizzati verso gli oppressori e gli egemoni, resistenza che ha poche possibilità di effetto duraturo quando si esplica solo nella forma del rifiuto e della lotta aperta (come nel caso degli autoctoni delle Grandi Pianure nei confronti dei coloni europei), ma che ne ha invece assai di più quando alla lotta coniuga la penetrazione nel sistema culturale egemone e la sua “contaminazione” con parti del proprio, come ad esempio nel caso delle culture afrocubana, afrobrasiliana, ma anche di molti fenomeni interni ai mondi cristiano ed islamico. Fenomeni che riguardano sia i sincretismi relativi a sistemi culturali precedenti il Cristianesimo e l’Islam, sia quelli relativi alla dialettica  fra Cristianesimo ed Islam.

Per capire, quindi, che certe “eterodossie” in ambito islamico sono in effetti risultati particolarmente visibili di sincretismi che pervadono in forme meno esplicite larga parte dell’organismo culturale e religioso definito “Islam”, occorrerebbe accettare che lo stesso è avvenuto in ambito cristiano, nonostante che in esso abbiano operato meccanismi di gerarchizzazione, di verticalizzazione, di definizione di “ortodossie” e quindi di “ortoprassi” e conseguentemente di “eterodossie” e quindi di “eteroprassi” che hanno portato come conseguenza forme di repressione, discriminazione, annichilimento, omologazione forzata, rimozione in misura incomparabilmente maggiore che nell’Islam, per le ragioni storico-culturali a cui si è fatto cenno. Repressione, discriminazione, annichilimento, omologazione forzata, rimozione  che non solo hanno ridotto oggettivamente le possibilità di essere espliciti di questi fenomeni sincretici in ambito cristiano rispetto a quelli in ambito islamico, non solo hanno, in questo caso, davvero trasformato tali fenomeni nella maggior parte dei casi in vere “eterodossie” e spesso in vere “eresie” dal punto di vista del potere ecclesiastico, ma proprio attraverso questa trasformazione che è stata per secoli sotto gli occhi di tutti in Occidente, che ha segnato le vite di milioni di individui e di intere comunità, hanno fondato la falsa identificazione, che ormai appartiene al nostro senso comune collettivo, fra “sincretismo” ed “eterodossia/eresia”, che finiamo per applicare pari pari all’ambito islamico ed a qualsiasi altro monoteismo, accettando al più che i “sincretismi” possano essere elementi folklorici, da “popoli altri” possibilmente da “buoni selvaggi”…..

Nella serie di articoli che verranno realizzati, ci si limiterà ad affrontare alcuni casi di sincretismi in ambito islamico, sia prendendo in considerazione sotto tale luce quelli che vengono considerati “eterodossie” e/o “eresie”, sia parlando di alcune realtà che in ambito antropologico anche occidentale, oltre che, ad esempio, maghrebino, sono riconosciute nonostante tutto come “sincretiche”.

Pur limitandosi alla galassia islamica ed a solamente alcune parti della sua grande complessità, si cercherà inoltre di mettere in evidenza quali rapporti esistono fra taluni di quei fenomeni e fenomeni culturali-rituali presenti ad esempio nel mondo mediterraneo cristianizzato, le cui radici spesso sono state indagate da generazioni di antropologi rimuovendo proprio tali rapporti dall’orizzonte dello studio per preconcetti e pregiudizi tesi a non ammettere che “noi” abbiamo l’”altro” nel profondo di noi stessi.

Resta, prima di affrontare singoli casi esemplificativi e connetterli fra loro a rete, da precisare che questa dimensione sincretica assume un valore del tutto nuovo nell’era della globalizzazione e dei grandi flussi migratori (in larga misura figli dello sfruttamento e delle guerre che l’Occidente ha perpetrato per qualche secolo e continua in forme “nuove” a perpetrare nelle terre extra-occidentali) verso l’Occidente ed in particolare verso l’Europa: è infatti la prima volta dal Basso Medioevo che il contatto fra i sistemi culturali e cultuali occidentali e quelli dell’Islam, oltre che degli altri sistemi cultuali presenti nei continenti extraeuropei (ad esempio Induismo, tradizioni africane, ecc.) avviene non nelle terre “loro”, come risultato della conquista e del soggiogamento europei, ma nelle terre che abbiamo fatto diventare “nostre” (magari estirpandone genocidariamente mori ed ebrei come nella Penisola Iberica dei secoli XVI-XVII), cosa che era già avvenuta, in altre forme (tratta schiavista transatlantica) nelle colonie europee nel continente americano.

I migranti che giungono in Europa dall’Africa (Musulmani, Cristiani come risultato del colonialismo, o portatori di culti tradizionali; in tutti e tre i casi già figli largamente di fenomeni sincretici in quel continente africano) o dall’arco che va dal Medio Oriente al Bangladesh (musulmani, induisti, cristiani o aderenti ad altri sistemi cultuali, anche in questo caso già figli largamente di fenomeni sincretici in quel continente asiatico) sono nuclei di nuova dialettica culturale e cultuale, che abbisogna certamente di tempi medio-lunghi per esprimersi, anche se non mancano già i primi segni di radicamenti di fenomeni sincretici nuovi, spesso favoriti (in forma largamente inconsapevole) dal fatto che nelle forme religiose, specie popolari, del Cristianesimo europeo e nella sua iconografia e mitologia quei migranti, portatori di altri sistemi culturali e cultuali (anch’essi sincretici, non va dimenticato!), ritrovano elementi propri o comunque riferibili al proprio sistema culturale-cultuale di origine.

Questo non solo perché (spesso lo dimentichiamo) il Cristianesimo stesso non è nato a Roma o a Lutetia o ad Augusta Taurinorum ma in Medio Oriente e tutti, ma proprio tutti i suoi elementi costitutivi (simboli, concetti, riti, cerimonie, miti, ecc.) sono già figli di millenni di sincretismi fra cultura sumera, cultura babilonese, cultura ebraica, cultura egiziana, cultura iranica, cultura anatolica, cultura araba, ecc. ed addirittura sono risultato di influssi indiani (si pensi alle aureole) e cinesi (si pensi alle campane), ma soprattutto perché in aree dell’Europa come l’Andalusia e la Sicilia, la Puglia e l’Alentejo, l’Occitania e la Sardegna, Malta e la Grecia ed altre ancora per millenni si sono sincretizzate schegge di sistemi culturali e cultuali di differenti sima origine che hanno trovato il modo di resistere in modo più o meno celato nel cuore stesso delle pratiche cristiane, specie popolari, nei culti dei santi e delle madonne, degli arcangeli e dei siti sacri, nelle pratiche cerimoniali e nelle iconografie. Quando, dunque, un Ghanese o un Iraqeno, un Tunisino o uno Srilankese giungono a contatto con i risultati di simili sistemi che si possono definire a ragione “polisincretici”, con maggiore facilità si innesca un ri-conoscimento di certi elementi, di certe evocazioni, di certe sollecitazioni simboliche. Tutto materiale che fa significativamente ribrezzo tanto ai “puristi” razzisti occidentali, cultori nei fatti anche quando non lo rivelano del “suprematismo” eurocentrico, quanto ai “puristi” integralisti islamici (ma anche induisti, ebraici, ecc.), che pure in questo modo confermano di essere in fondo le due facce della medesima medaglia che ha proprio nei sistemi culturali e cultuali sincretici, ovunque, il suo peggior nemico, sebbene ciò sia ampiamente sottovalutato, colpevolmente, da chi pure afferma di voler combattere razzisti ed integralisti che appestano l’attualità.

 

I libri di Silvio Marconi

 

Uno studio che, lungi dall’avere un obiettivo “enciclopedico” o di minuziosa analisi storica, vuole evidenziare quelle connessioni e correlazioni – tradizionalmente taciute e rimosse – tra i fenomeni ed i processi che portarono alla crisi ed al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e quelli operanti in un’Asia la cui complessa storia viene, tuttora, sottovalutata.
Quando una farfalla batte le ali in Cina si sofferma sul ruolo che, nella crisi e nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ebbero tanto la Persia quanto, indirettamente, la Cina, dimostrando come il pregiudizio etnocentrico che ancora permea la formazione, la divulgazione e la costruzione dell’immaginario occidentale sia un pernicioso ostacolo a una comprensione di ben più ampio respiro e alla lezione metodologica che ne se ne può trarre.
In questa prospettiva, il riconoscimento di una molteplicità di poli e fattori transculturali è la precondizione per affrontare qualsiasi problematica: storica, politica, economica o strategica.
Una precondizione troppo spesso, volutamente, ignorata da una cultura occidentale che, a differenza di quelle orientali, ha rifiutato la logica olistica privilegiando un approccio molto settoriale.

 

Silvio Marconi – ingegnere, antropologo, operatore di Cooperazione allo sviluppo, Educazione allo Sviluppo e Intercultura – fa ricerca, da anni, nell’ambito dell’antropologia storica e dei sincretismi culturali. Ha pubblicato, al riguardo: Congo Lucumì (EuRoma, Roma, 1996), Parole e versi tra zagare e rais (ArciSicilia, Palermo, 1997), Il Giardino Paradiso (I Versanti, Roma, 2000), Banditi e banditori (Manni, Lecce, 2000), Fichi e frutti del sicomoro (Edizioni Croce, Roma, 2001), Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma, 2002), Dietro la tammurriata nera (Aramiré, Lecce, 2003), Il nemico che non c’è (Dell’Albero/COME, Milano, 2006), Francesco sufi (Edizioni Croce, Roma, 2008), Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016).

Prezzo di copertina: 18 euro Prezzo effettivo: 15.5 euro