Tuscia mistica, parte quinta

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Tuscia mistica, parte quinta

Dopo oltre due anni di stasi, riprendiamo a pubblicare materiale della nostra affascinante ricerca sul territorio della Tuscia, con particolare riferimento a diversi aspetti della sua ricca dimensione religiosa.

Come abbiamo parzialmente argomentato nei post precedenti, la Tuscia è stata difatti — per molti secoli — un territorio d’elezione per la realizzazione dell’homo religiosus. Riprendendo liberamente la definizione di Mircea Eliade: l’homo religiosus è colui che, esule volontario, fuoriesce senza rimpianti dalla vicenda umana, per sposare il cielo.

In altre parole, la Tuscia è stata — a partire dai primi secoli dell’Era Cristiana — un luogo ideale per praticare la fuga mundi, sperimentando diverse forme di eremitaggio e di ascesi.

Nei post precedenti abbiamo tentato di spiegare come questo fenomeno si sia sviluppato, focalizzandoci in particolare su quella che è forse la migliore perla della Tuscia: il territorio di Castel Sant’Elia, celebre per aver ospitato eremi e cenobi che iniziano ad essere documentati, storicamente, a partire dal sesto secolo, come abbiamo esposto nella parte terza e quarta di questa ricerca.

Per leggere Tuscia mistica prima parte, cliccare quiTuscia mistica seconda parte, cliccare quiTuscia mistica terza parte, cliccare qui e Tuscia mistica quarta parte cliccare qui.

 

Dell’antico cenobio sulla Valle Suppentonia, nel territorio di Castel Sant’Elia, parla Gregorio Magno (ovvero Papa Gregorio I, sul soglio pontificio dal 3 settembre 590 al 12 marzo 604) nel primo libro dei suoi Dialoghi; opera che sarebbe passata alla storia come una delle maggiormente lette nel Medio Evo, imperniata su lunghi e profondi colloqui tra il celebre pontefice ed il suo discepolo Pietro che si rivela un ottimo ascoltatore della ricca aneddotica del suo maestro.

Gregorio Magno — celebre per essere anche stato uno dei quattro dottori della Chiesa d’Occidente, insieme a San Girolamo, Sant’Agostino e Sant’Ambrogio — accenna inizialmente al cenobio in oggetto, in un primo racconto, a proposito di Nonnoso: priore del monastero del Monte Soratte (non molto distante, anzi potremmo dire “a tiro di fionda”, da Castel Sant’Elia) che si sarebbe poi, probabilmente, trasferito in quello della Valle Suppentonia.

Cito:

 

«1. Gregorio. Ti dirò qualcosa che riguarda un luogo vicino; l’ho appreso dal racconto del venerabile vescovo Massimiano e dell’anziano monaco Laurione che tu conosci, tutti e due ancora in vita. Laurione è stato allevato nel monastero chiamato Subpentoma, vicino alla città di Nepi, da Anastasio, un sant’uomo, che era molto amico del venerabile Nonnoso, priore del monastero che sta sul Monte Soratte. Erano molto legati l’uno all’altro sia per la vicinanza dei luoghi sia per l’eccellenza dei costumi e lo zelo per la virtù. Nonnoso viveva sotto un abate di carattere arcigno e difficile, che egli però sopportava con grande equanimità, e a sua volte esercitava con mitezza la sua autorità sui fratelli, e più volte con la sua umiltà aveva mitigato la collera dell’abate.

2. Il monastero era situato in cima al monte e perciò non c’era un’estensione pianeggiante per coltivare anche solo un piccolo orto. Soltanto sul fianco del monte si era formato un piccolo bordo, ma era stato occupato da una grande roccia che si era spostata là per forza d’inerzia. Un giorno Nonnoso si mise a pensare che quel piccolo spazio avrebbe potuto essere adatto almeno a farvi crescere gli aromi con cui condire la verdura, se non l’avesse occupato quella roccia; ma constatò che neppure cinquanta paia di buoi l’avrebbero potuta smuovere. Disperando della capacità di lavoro dell’uomo, cercò di ricorrere all’aiuto divino e nel silenzio della notte si dette a pregare. Al mattino i fratelli che vennero in quel luogo trovarono che la grande roccia si era allontanata di là e col suo ritiro offriva loro largo spazio.

3. In altra occasione, mentre quel sant’uomo nell’oratorio lavava le lampade di vetro, una gli cadde di mano e si ruppe in mille pezzi che si sparsero qua e là. Temendo la violenta collera dell’abate, Nonnoso raccolse in fretta tutti i pezzi della lampada, li collocò davanti all’altare e si mise a pregare tra alti gemiti. Quando ebbe terminato la preghiera, alzò di nuovo gli occhi e trovò che la lampada, i cui pezzi per paura aveva raccolti, si era aggiustata. Così egli imitò con due miracoli i prodigi di due padri: riguardo alla roccia imitò Gregorio, che aveva mosso un monte e, quanto alla riparazione della lampada, il miracolo di Donato, che aveva aggiustato un calice riportandolo allo stato di prima.

4. Pietro. Come vedo, abbiamo miracoli nuovi sull’esempio di antichi prodigi,

Gregorio. Vuoi allora conoscere come Nonnoso col suo miracolo abbia imitato anche Eliseo?

Pietro. Lo desidero ardentemente.

5. Gregorio. Un giorno nel monastero venne a mancare l’olio vecchio, e anche se ormai era prossimo il tempo di raccogliere le olive, non c’erano olive sugli alberi. Allora l’abate pensò di mandare nei dintorni i monaci per aiutare gli altri nella raccolta delle olive, in modo che a compenso della loro opera portassero un po’ di olio nel monastero. Ma Nonnoso, l’uomo del Signore, sia pur umilmente si oppose, per evitare che i fratelli, uscendo dal monastero, mentre cercavano di lucrare l’olio, avessero a perdere qualcosa nella loro anima. Dato poi che nel monastero c’erano ben poche olive sugli alberi, le fece prendere e mettere nel frantoio: avrebbero poi portato a lui quel poco d’olio che fossero riusciti a ricavare.

6. Fu fatto così: raccolto in un piccolo recipiente tutto l’olio che si poté ricavare, lo portarono a Nonnoso. Egli lo collocò subito davanti all’altare e, fatti uscire tutti, si dette a pregare. Poi chiamò i fratelli e disse loro di prendere con sé l’olio che avevano portato, dividendolo un po’ per volta in tutti i recipienti del monastero, affinché tutti ricevessero qualche goccia dell’olio che egli aveva benedetto. Poi fece chiudere tutti i recipienti, così come erano, vuoti. Il giorno dopo i vasi furono aperti e si trovò che erano tutti pieni di olio.

Pietro. Ogni giorno constatiamo che si realizzano le parole della Verità: Il Padre mio opera sempre, e anch’io»[1].

 

Sono convinto che meritasse citare per intero questo passaggio dal primo libro de I Dialoghi di Gregorio Magno per la bella presentazione che vi viene fatta della figura del venerabile Nonnoso. Insieme ad Anastasio è, difatti, il santo patrono di Castel Sant’Elia. I due passarono molto tempo insieme, anche forti della già menzionata vicinanza dei rispettivi monasteri (Anastasius Nonnoso assidue iungebatur, scrive Gregorio Magno: Anastasio si incontrava spesso con Nonnoso). Sembra ma non è del tutto accertato storicamente che Nonnoso succedette ad Anastasio come abate del monastero della Valle Suppentonia. Del resto, abbiamo presentato nel terzo post di questa serie la grotta di Nonnoso nella stessa valle anche se, purtroppo, oggi non è più accessibile.

Ad Anastasio Gregorio Magno dedica un altro, significativo brano (immediatamente successivo a quello su Nonnoso) nel primo libro de I Dialoghi che merita, a sua volta, di essere citato per intero, per farci quasi magicamente trasportare nel sesto secolo, all’epoca della compilazione dell’opera del grande pontefice che scriveva di fatti a lui quasi contemporanei.

Abbiamo già accennato a quanto viene riportato nella prossima citazione in Tuscia Mistica Parte quarta, dove abbiamo anche postato una foto di un affresco significativo che è possibile ancora oggi visionare nella Basilica di Sant’Elia:

 

«1. Gregorio. In quello stesso tempo il venerabile Anastasio, che ho avuto già occasione di nominare, fu notaio della santa chiesa di Roma, alla quale per volere di Dio presto il mio servizio. Ma egli, desiderando occuparsi soltanto di Dio, abbandonò l’archivio e scelse il monastero, quello di cui ho già parlato, che si chiama Subpentoma, dove è vissuto per molti anni comportandosi santamente e fu a capo del monastero con vigile solerzia.

2. Sovrasta questo luogo una grande rupe e al di sotto si spalanca un profondo precipizio. Una notte, quando ormai Dio onnipotente aveva decretato di ricompensare Anastasio delle sue fatiche, si udì una voce dall’alto della rupe che gridava forte scandendo le parole: “Anastasio, vieni”. Dopo di lui furono chiamati per nome altri sette monaci. Per un momento la voce tacque, poi chiamò un ottavo fratello. Dato che tutta la comunità aveva udito quelle parole distintamente, nessuno dubitò che fosse prossima la dipartita di tutti quelli che erano stati chiamati.

3. Dopo pochi giomi Anastasio per primo, poi tutti gli altri, vennero a morte ne1l’ordine con cui li aveva chiamati la voce dalla rupe. Il fratello che era stato chiamato dopo che la voce era rimasta per un po’ in silenzio, visse per pochi giorni dopo che gli altri erano morti e poi morì anche lui, in modo che si capisse che il silenzio della voce aveva indicato quei pochi giorni di vita.

4. In quella occasione accadde un fatto meraviglioso. Quando Anastasio stava per morire, c’era nel monastero un fratello che non voleva sopravvivergli. Perciò, prostrato ai suoi piedi, cominciò a chiedergli tra le lacrime: “Nel nome di colui al quale tu vai, che io possa vivere dopo di te non più di sette giorni”. Dopo sei giorni anche lui morì, benché in quella notte non fosse stato chiamato insieme con gli altri, sicché apparve chiaro che solo l’intercessione di Anastasio aveva potuto ottenere che morisse  anche lui. […]»[2].

 

Dopo aver indugiato ancora, brevemente, nella Valle Suppentonia, trasferiamoci virtualmente sul Monte Soratte cui la stessa valle è stata, in diversi modi, legata.

Entrambi i luoghi hanno difatti una lunga e profonda tradizione eremitica oltre ad aver avuto un ruolo di rilievo nella precedente epoca pagana.

A parere di diversi storici sulla sommità del  Monte Soratte era ubicato, in epoca pre-cristiana, un tempio dedicato dal dio del Sole Apollo Soranus cui era consacrata anche una vicina area boscosa mentre, nel cuore della Valle Suppentonia, l’attuale Basilica di Sant’Elia sorgerebbe sulle vestigia di un tempio, dedicato alla dea Diana, fatto costruire dall’imperatore Nerone dove ancora prima si ergeva un santuario etrusco, dedicato a Pico Marzio.

 

 

Insediamenti monastici sul Monte Soratte

 

È stato recentemente presentato, nella Basilica di Sant’Elia, il testo, di Clorinda Salini, Insediamenti monastici sul Monte Soratte.

Prima di entrare nel vivo della propria ricerca, l’autrice riporta alcune considerazioni generali sul monachesimo delle origini nella Tuscia che merita citare:

 

«L’area viterbese, prossima a Roma ed attraversata da importanti assi stradali, si pose sin dalle prime origini del cristianesimo come luogo privilegiato per accogliere comunità di fedeli e gruppi organizzati di cristiani. I nuclei a carattere religioso scelsero, inizialmente, di collocarsi negli spazi disponibili nel territorio, spesso residui di insediamenti trogloditici, in grotte precedentemente usate come abitazioni e spazi cultuali primitivi o sepolture nel periodo etrusco-falisco. Il riutilizzo degli spaziosi antri della Tuscia è ormai accertato per quanto riguarda Santa Romana al Soratte, considerata da alcuni storici la più antica manifestazione della civiltà nel territorio falisco, modificata ed adattata a soluzioni cristiane. Gli insediamenti monastici rupestri dell’area viterbese avvicinano alle esperienze monastiche ispirate alla regola benedettina, ma la certezza di tali legami non è avvalorata da documenti coevi ed è più probabile che solo in seguito “l’organizzazione benedettina verrà a inglobare i fermenti precedenti”»[3].

 

Il Monte Soratte si erge, solitario, nella campagna a nord di Roma, da cui dista circa quaranta chilometri. È alto 691 metri e sulla sua punta più alta sorgono le vestigia di quello che fu il Monastero di San Silvestro, la cui storia è particolarmente interessante riguardo i lontani trascorsi della cristianità.

Prima di parlare del monastero non possiamo non perderci nei resoconti in parte storici e in parte leggendari riguardo la figura che gli dà ancora oggi il nome.

 

 

San Silvestro e la Silvesterlegende

 

Di Silvestro non conosciamo la data esatta di nascita. La si ascrive, generalmente, al terzo secolo.

Sono invece ben conosciute: la data in cui viene eletto pontefice (31 gennaio 314) e la data della sua morte, che coincide con la fine del suo pontificato (31 dicembre 335).

La data di nascita non è, come vedremo presto, l’unico elemento poco chiaro di questo cruciale personaggio storico. Cruciale perché i suoi “anni maturi” coincidono con il protagonismo, sul palcoscenico della storia, dell’imperatore romano Costantino il Grande che avrebbe portato la cristianità fuori dal terribile guado d’illegalità che esponeva i suoi seguaci a spietate persecuzioni. Sarà dunque durante il pontificato di Silvestro che si assisterà al passaggio epocale dalla Roma pagana alla Roma cristiana.

Vediamo dunque di provare a conoscere meglio la storia (che, come già accennato, sfuma spesso nella leggenda o, per meglio dire, nella specifica leggenda di cui è stato oggetto: Silvesterlegende) di questo pontefice.

Frughiamo per un attimo tra le righe di quello che veniva considerato, fino a tempi relativamente recenti, il testo più attendibile della storia del papato: il Liber Pontificalis. Scritto a partire dal quinto o sesto secolo da anonimi chierici della Chiesa di Roma, presenta una serie di biografie papali.

Tra il nono e l’undicesimo secolo la compilazione viene penalizzata dalle traversie storiche della chiesa di Roma e dunque la mole di informazione dei diversi pontefici si riduce in maniera considerevole per poi tornare ad essere più esauriente durante il pontificato di Leone IX, alla metà dell’undicesimo secolo.

Nella seconda metà del Quattrocento, l’umanista Bartolomeo Sacchi (1421-1481) si dedica con fervore al Liber Pontificalis, arricchendolo con nuove biografie fino a Papa Pio II (1458-1464).

Il libro viene stampato per la prima volta, a Magonza, nel 1602 sotto la supervisione di Joannes Busaeus.

Oggi se ne trovano sul mercato versioni in latino, in inglese, in francese e in tedesco. Io sto utilizzando una versione in inglese, pubblicata dalla Columbia University Press nel 1916 e facilmente reperibile on line (link).

Nella trattazione della biografia di San Silvestro, il Liber Pontificalis inizia con il riportare che, durante le persecuzioni di Costantino il futuro pontefice andò in esilio, da Roma, sul “Monte Syraptin” per poi ritornare, qualche anno dopo, “vincitore”, avendo guarito il suo persecutore dalla lebbra ed avendogli somministrato, in un secondo momento, il battesimo.

Questa versione delle vicende intercorse tra San Silvestro e Costantino si lega agli Actus Silvestri, considerata una delle opere più controverse della storia occidentale — e di cui esistono diverse edizioni e redazioni — il cui scopo sarebbe stato di ordine, possiamo dire, “revisionista” riguardo la memoria del primo imperatore ufficialmente cristiano che “sedette sul trono” dal 306 al 337.

«Negli Actus Silvestri», scrive la professoressa Tessa Canella nell’estratto dell’Enciclopedia costantiniana sulla figura e l’immagine dell’imperatore del cosiddetto Editto di Milano: Gli Actus Silvestri tra Oriente e Occidente. Storia e diffusione di una leggenda costantiniana, disponibile on line (link), «il pontefice è protagonista e principale artefice della conversione dell’imperatore, ispiratore e moderatore della sua azione religiosa; inoltre è lui a conferire a Costantino il battesimo. In questo modo la leggenda contraddice la versione del battesimo di Costantino ritenuta ancor oggi storicamente valida, quella che vuole l’imperatore battezzato poco tempo prima della morte da un vescovo ariano, Eusebio di Nicomedia (poi vescovo di Costantinopoli): versione, questa, autorevolmente trasmessa dal Chronicon di Girolamo, realizzato intorno al 380, che traduceva, aggiornandolo e proseguendolo, quello di Eusebio di Cesarea».

In altre parole: gli “storici ufficiali” della chiesa (Eusebio di Cesarea — 265-340 — fu consigliere e, addirittura, biografo di Costantino) sostenevano, nei loro testi, il “battesimo ariano” dell’imperatore.

Tuttavia la Silvesterlegende, “di cui gli Actus Silvestri” (opera divisa in due libri), scrive la professoressa Canella, “costituiscono il primo atto”, ha avuto grande fortuna, a partire dall’esigenza di allontanare la figura di Costantino dalla “contaminazione ariana” dopo che, per buona parte del quarto secolo, il conflitto tra i seguaci di Ario e quelli dell’ortodossia nicena aveva funestato la cristianità, fino alla definitiva condanna dell’arianesimo nel primo concilio di Costantinopoli (381) che confermò il credo niceno. La Silversterlegende inizia a circolare a Roma, fra la letteratura apocrifa, tra la fine del V e gli inizi del VI secolo, beneficiando del sostegno di Papa Simmaco (sul soglio pontificio dal 498 al 514) — il quale dedicò a S. Silvestro e S. Martino il titulus Equitii sull’Esquilino (l’attuale S. Martino ai Monti) e avrebbe ispirato la redazione degli Apocrifi Simmachiani, nei quali si trova la leggenda degli Actus — e, successivamente, di Papa Adriano I (772-795).

«Il Liber Pontificalis nella Vita Silvestri, datata da Louis Duchesne intorno agli anni Trenta del VI secolo», scrive Tessa Canella, «riprende in maniera evidente la tradizione presente nella leggenda su Silvestro: “Hic [scil. Silvester] exilio fuit in monte Soracten et postmodum rediens cum gloria baptizavit Constantinum Augustum, quem curavit Dominus a lepra, cuius persecutionem primo fugiens exilio fuisse cognoscitur”. La rilevanza del Liber Pontificalis come fonte, e la sicura citazione che vi viene fatta della vicenda degli Actus, determinò la diffusione della leggenda nelle epoche successive».

Gregorio di Tours, nella seconda metà del sesto secolo, sarà il primo tra gli storici latini a sostenere, nella sua Historia Francorum, la versione del battesimo di Costantino da parte di Silvestro.

Nelle diverse edizioni degli Actus che videro la luce nel mondo latino (la tradizione manoscritta ci trasmette circa trecento codici latini, a partire dal decimo secolo), greco (circa novanta codici) e siriaco (nell’ambito del quale si trova la versione più antica degli Actus, risalente circa al 492), vengono presentate diverse versioni della stessa leggenda su cui non è il caso qui di soffermarsi, rimandando chi fosse interessato all’estratto della professoressa Tessa Canella (link).

Non si può non segnalare che la Silvesterlegende si lega al clamoroso falso della Donazione di Costantino in virtù della quale il celebre imperatore romano avrebbe conferito a Silvestro ed ai suoi successori poteri e privilegi superiori a quelli di cui era lui stesso il beneficiario.

Il passaggio più controverso del falso editto costantiniano sarebbe dunque il seguente:

 

«In considerazione del fatto che il nostro potere imperiale è terreno, noi decretiamo che si debba venerare e onorare la nostra santissima Chiesa Romana e che il Sacro Vescovado del santo Pietro debba essere gloriosamente esaltato sopra il nostro Impero e trono terreno. Il vescovo di Roma deve regnare sopra le quattro principali sedi: Antiochia, Alessandria, Costantinopoli e Gerusalemme, e sopra tutte le chiese di Dio nel mondo… Finalmente noi diamo a Silvestro, Papa universale, il nostro palazzo e tutte le province, palazzi e distretti della città di Roma e dell’Italia e delle regioni occidentali».

 

Visto che parliamo di Tuscia, merita menzione che la falsa Donazione di Costantino è di poco successiva all’autentica Donazione di Sutri (728) con la quale si può — forse un po’ approssimativamente — affermare abbia iniziato a prendere corpo lo Stato Pontificio. Non manca chi sostiene che il falsario autore della Donazione di Costantino abbia preso ispirazione dal cruciale evento storico della Donazione di Sutri di cui abbiamo parlato nel primo post di questa serie .

 

 

Il monastero di San Silvestro

 

Facendo attenzione lo si vede, un puntino grigio nel verde della vegetazione, dall’aereo. Venendo spesso dall’Inghilterra, quando l’aereo è in procinto di atterrare a Ciampino sorvola il Soratte e la Valle del Tevere, le cui anse si snodano sinuose tra i campi prima di entrare nell’Urbe e per me è sempre un’esperienza emozionante che mi fa sentire, per usare un’espressione dello storico tedesco Ferdinand Gregorovius, “l’alito della storia”.

Va pur detto che l’alito della storia si può sentire, nel caso del monastero di San Silvestro ma non è certo l’unico, con un margine di scarsi millecinquecento anni. Tornano nuovamente utili, a questo proposito, i Dialoghi di Gregorio Magno ed esattamente l’estratto che abbiamo citato all’inizio di questo post riguardo il venerabile Nonnoso: «venerabilis vir (…) praeposito monasterii quod in Soractis monte situm est (…) eius monasterium in summo montis cacumine situm est». Particolare non di poco conto, Gregorio Magno allude ad un monastero sulla cima del Monte Soratte, che è dunque sicuramente quello di San Silvestro , senza però dargli un nome preciso, accennadovi piuttosto in maniera generica.

Il nome appare invece in un “documento con il quale Gregorio II (715-731) affittava al Monastero di San Silvestro il fondo Scanziano, sito nel Patrimonio di San Pietro in Tuscia[4].

Queste due appena richiamate sono dunque le fonti storiche più attendibili per determinare il periodo  a partire dal quale l’esistenza del monastero di San Silvestro sul Monte Soratte è storicamente certa.

Non che manchino fonti storiche che la retrodatano di qualche secolo ma vengono considerate meno attendibili.

La principale di queste è, sicuramente, il Chronicon di Benedetto del Soratte: un manoscritto conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana che traccia una storia degli eremi sul monte un tempo sacro ad Apollo Soranus fino al decimo secolo.

Benedetto del Soratte è un personaggio piuttosto fumoso, non si può essere sicuri nemmeno del suo nome. È probabile, si legge nel testo di Clorinda Salini, che visse “nella seconda metà del X secolo e fu monaco nel monastero di S. Andrea in flumine, posto nei pressi del Tevere, tra il Monte Soratte e Ponzano”[5].

 

«Il Chronicon di Benedetto narra che papa Damaso (366-384), il quarto successore di papa Silvestro, avrebbe riconsacrato la chiesa dedicata alla memoria di quest’ultimo, posta sulle pendici del Soratte e distrutta, secondo la tradizione, durante una leggendaria persecuzione di Giuliano l’Apostata. Damaso, nella nuova consacrazione, avrebbe lasciato dei versi che sarebbero stati trascritti sulla tomba del martire, collocata nella medesima chiesa. Gli storici non hanno accettato tale versione, non essendo sostenuta da fonti attendibili e, anche per il carme pronunciato da papa Damaso esistono forti riserve, in quanto apparirebbero come due componimenti fusi in uno, dei quali il secondo è tratto dagli atti di San Biagio. La problematica relativa a questi scritti è molto complessa, ma offre spunti utili per l’argomento in esame. Del fatto si sono occupati anche esperti del settore archeologico, che hanno attribuito, forse con affrettata sintesi, una sostanziale paternità degli scritti allo stesso papa Damaso, pur ponendosi il dubbio della motivazione per cui tali scritti fossero stati posti nella chiesa ricordata»[6].

 

Si esce dalle “nebbie”, come abbiamo già visto, nell’ottavo secolo quando compare un documento ufficiale (probabilmente del 727) in cui il monastero, cui aveva già fatto cenno Gregorio Magno, viene indicato con il proprio nome. Ed è intorno alla metà dello stesso secolo (precisamente nel 747) che, nel Monastero di San Silvestro, si ritirò — dopo aver abdicato al grado di Maggiordomo di Austrasia e di erede al trono — Carlomanno, primogenito di Carlo Martello e fratello di Pipino il breve.

Le ragioni di questa scelta sarebbero da ricondursi al desiderio di redenzione per i massacri di cui l’aristocratico si era reso responsabile sui diversi campi di battaglia in cui aveva combattuto nel corso della sua carriera. Una scelta che mi ricorda quella dell’imperatore indiano del terzo secolo avanti Cristo Ashoka che, per ragioni simili a quelle che determinarono la fuga mundi di Carlomanno, si convertì al Buddhismo e mandò un numero difficilmente quantificabile di missionari in buona parte del mondo allora raggiungibile ― soprattutto attraverso la rete di vie carovaniere ― dall’India, con ricadute di grande importanza per i secoli a venire (per approfondire, clicca qui).

La permanenza di Carlomanno presso il Monastero di San Silvestro ebbe conseguenze positive per la comunità monastica sul Monte Soratte, in termini di ampliamento degli spazi residenziali e di restauri dell’edificio. È inoltre da ricondurre all’iniziativa dello stesso Carlomanno l’edificazione di altre realtà monastiche sullo stesso monte o, come nel caso del Monastero di San’Andrea in flumine, alle pendici dello stesso.

Carlomanno non resterà a lungo nel Monastero di San Silvestro, spostandosi in quello di Montecassino dove verranno successivamente tumulati i suoi resti dopo la sua morte, avvenuta a Vienne il 17 agosto 754.

Il Monastero di San Silvestro viene dunque concesso da Paolo I, con la bolla Salubri providentia, a Pipino, fratello di Carlomanno e re dei Franchi a partire dal 751. Questi lo restituisce al papa tra il 762 ed il 767.

Il monastero di San Silvestro sul Soratte verrà dunque ceduto, da Paolo I, al monastero di San Silvestro in Capite a Roma che sarebbe diventato, nel tempo, uno dei monasteri con maggiori possedimenti nella Tuscia (interessante al riguardo questo estratto di Giancarlo Pastura). Seguono diverse vicissitudini: le scorrerei dei saraceni nel nono secolo e la riforma cluniacense i cui effetti positivi giungono anche sul Monte Soratte, per restare entro l’anno Mille.

Documenti della Santa Sede del quindicesimo secolo riportano la presenza di pauperes fraticellos o sacerdoti romitani sul Monte Soratte, confermandone la vocazione eremitica. Nel 1443 il monastero di San Silvestro sul Soratte e quello di S. Andrea in Flumine vengono annessi, da papa Eugenio IV, al Monastero di San Paolo fuori le Mura a Roma per poi passare (nel caso del Monastero di San Silvestro sul Soratte) agli Eremiti Camaldolesi di Monte Corona nel 1528. Vent’anni dopo i due monasteri (le cui sorti sono non di rado state congiunte, essendo il secondo una sorta di filiazione, ad opera come abbiamo visto di Carlomanno, del primo) vengono aggregati all’abbazia delle Tre Fontane a Roma e questo segnerà il passaggio ai monaci cistercensi, particolarmente sensibili alla vocazione eremitica del Monte Soratte.

 

«La minaccia dei fulmini , che cadevano con eccessiva frequenza sulla cima del monte, convinse i monaci cistercensi a spostarsi nella struttura di Santa Maria delle Grazie, posta più in basso, che fu subito adattata, con opportuni lavori, alla nuova esigenza. […] I cistercensi restarono a Santa Maria delle Grazie sino al periodo della nascita della Repubblica Romana, quando nella struttura si trasferirono i Francescani in seguito alle difficili vicende legate a tale fase storica. Dopo questa breve parentesi, i cistercensi-trappisti tornarono a Santa Maria delle Grazie»[7].

 

Il Monastero di San Silvestro sul Soratte viene abbandonato definitivamente nel 1835 quando, ultimi in ordine di tempo, i Trinitari Scalzi si trasferiscono, a loro volta, nel sottostante Monastero di Santa Maria delle Grazie che è ancora oggi attivo.

Non potremo non tornare a trattare l’argomento degli insediamenti monastici sul Soratte. In questo post ci siamo concentrati su quello più famoso, data anche la figura storica cui è intitolato. Speriamo solo di non tornare ad occuparci di Tuscia mistica fra altri due anni; faremo del nostro meglio per rimanere entro un ambito mensile o bimestrale.

Manuel Olivares

 

 

[1] Salvatore Pricoco e Manlio Simonetti (a cura di), Gregorio Magno, storie di santi e di diavoli, Vol I, Mondadori, Milano, 2005, pp. 55-59.

[2] Ivi, pp. 61-65.

[3] Clorinda Salini, Insediamenti monastici sul monte Soratte, Davide Ghaleb Editore, Vetralla (VT), 2023, p. 21.

[4] Clorinda Salini, Insediamenti monastici sul monte Soratte, op. cit., p. 50.

[5] Ivi, p. 30.

[6] Ivi, pp. 33-34.

[7] Ivi, p. 76.