L’eredità di Gurdjieff; intervista a Fabio Guidi

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L’eredità di Gurdjieff; intervista a Fabio Guidi

Circa tre mesi dopo il pregnante colloquio avuto con Fabio Guidi in merito al suo testo I miei anni con Gesù; un vangelo psicosintetico, scomodiamo nuovamente il nostro autore riguardo un altro suo lavoro, pubblicato con Mediterranee: L’eredità di Gurdjieff

Buona lettura!

 

Manuel Olivares

 

«Nasreddin stava spargendo manciate di briciole intorno a casa sua.
“Cosa stai facendo?”, gli chiede qualcuno.
“Tengo lontane le tigri”, risponde lui.
“Ma non ci sono tigri da queste parti!”.
“Infatti. Funziona, non è vero?”» [1].

 

Caro Fabio, iniziamo questa intervista a partire dalla figura di Nasreddin: il nonno che racconta al nipote “i suoi anni con Gurdjieff”. Sappiamo che ricorda la figura di Mullah Nasreddin, resa celebre anche dai divertenti discorsi di Osho Rajneesh. Una figura per certi versi archetipica e transculturale, giunta addirittura in Sicilia con il personaggio, speculare, di Giufà, immortalato a sua volta, da Giuseppe Bonaviri, in Novelle saracene. Perché hai voluto associare il co-protagonista del tuo libro proprio a Mullah Nasreddin e dunque a un seguace del metodo Malamati (la ricerca, deliberata, della pubblica disapprovazione) e, in ultimo, c’è qualcosa di autobiografico in questo personaggio? Ti è stato, cioè, ispirato da una figura — ad esempio un famigliare — con cui eri direttamente in contatto?

 

Ritengo che il metodo malamati sia l’essenza di ogni vero insegnamento spirituale, perché rappresenta la piena rottura con il modo di pensare ordinario. Non si può progredire sul piano evolutivo se rimaniamo imprigionati negli schemi convenzionali e temiamo di esercitare la piena libertà, la piena autonomia di pensiero. Come insegna anche Alan Watts, la liberazione interiore è anche una liberazione dalla cultura, cioè dallo ‘spirito del tempo’ in cui siamo immersi. Ho la profonda convinzione che almeno un pizzico del metodo malamati deve essere presente in ogni individuo che intenda trasmettere le autentiche verità interiori, a partire dall’autoironia attraverso cui è capace di mostrarsi agli altri e a dispetto della seriosità di tanti sedicenti maestri. E Nasreddin è un maestro in questo. Per venire alla tua ultima curiosità, non c’è niente di autobiografico nella mia scelta di questo simpatico personaggio, se non un tributo al mio vero nonno, David, che ricordo come un uomo dotato di una laica rispettosa saggezza.

 

Venendo ora a considerare la figura di Gurdjieff, viene spesso associata alla tradizione sufi. Il che è, ovviamente, molto generico perché il Sufismo racchiude, al suo interno, diverse tradizioni che si legano a diverse confraternite. È celebre il racconto di Gurdjieff riguardo la sua visita al Monastero dei Sarmoung, in Asia Centrale, di cui diversi autori, tuttavia, non riconoscono la reale esistenza, considerando quanto si trova nel testo dell’autore in oggetto come “pura fiction”. Quanto, a tuo parere, Gurdjieff ha effettivamente ripreso dal Sufismo? È secondo te plausibile che sia stato incaricato da alcuni Shaikhs di diffondere elementi di dottrine sufi in Occidente (come si favoleggia da più parti)?

 

Certamente Gurdjieff romanzava molto i suoi racconti, o forse potremmo dire che aveva una certa cura nel nascondere gli eventi e gli incontri straordinari della sua vita, magari per proteggerli dai soliti curiosi turisti della spiritualità. Certamente ha avuto contatti con il Sufismo, perché in molto del suo insegnamento si riconoscono elementi sufi, dal concetto stesso di «lavoro» al ricordo di sé, dalla denuncia dei falsi ‘io che comandano’ alla analogia della carrozza… Potrebbe quindi essere plausibile che fosse stato inviato, da alcuni maestri sufi, a portare un «lavoro» preliminare in Occidente, ma ciò non può essere in alcun modo documentato. Sul Monastero di Sarmoung, invece, ho scoperto qualcosa di interessante. Avrai senz’altro sentito parlare di Chogyam Trungpa Rinpoche, un maestro di grado elevato all’interno del Buddhismo Tibetano. Nato in Tibet nel 1939, fin da giovanissimo fu  intronizzato come abate del Monastero Dutsi Til di Surmang e governatore dell’omonimo distretto. Il Monastero di Sarmoung non è mai stato individuato ma James George, un diplomatico canadese, nonché stretto allievo per lunghi anni di Madame de Salzmann – che, come sai, è stata la più fidata collaboratrice di Gurdjieff – ha espresso un’ipotesi interessante. Ha detto che, sulla base del nome e della posizione simili, Surmang, la sede del lignaggio di Trungpa,  possa essere la vera base del Monastero di Sarmoung. Tra i molti altri suoi incarichi, George è stato Alto Commissario in India e Ambasciatore in Nepal, per cui ha avuto modo di conoscere bene quei luoghi. In un’intervista rilasciata agli inizi di questo millennio, il diplomatico ha fatto presente che Gurdjieff aveva detto di aver trascorso tre anni e mezzo in Tibet e di essere stato  portato in un monastero dell’Asia centrale, nel Kashmir o in Tibet, chiamato Monastero della confraternita Sarmoung. Secondo George, i termini ‘Surmang’ e ‘Sarmoung’, differenziandosi nella pronuncia solo per una trasposizione di vocali, indicano lo stesso luogo dove Gurdjieff ricevette gran parte del suo insegnamento. L’ipotesi è suggestiva.

 

Cambiando per un attimo prospettiva, in quale misura Gurdjieff avrebbe, a tuo parere, contribuito ad alimentare — insieme ad alcuni personaggi a lui, direttamente o indirettamente, collegati come John G. Bennett e Idries Shah o suoi “successori” come P.D. Ouspensky — una vulgata di “pseudo-sufismo”, per usare un’espressione di Laurence Paul Elwell-Sutton (professore emerito all’Università di Edinburgo, specializzato in cultura persiana e studi islamici), “centrato non su Dio ma sull’uomo”?

 

Gurdjieff , nonostante, si sa, fosse di sincera fede cristiano ortodossa, non amava parlare di religione, e il suo insegnamento era del tutto laico, incentrato sull’impegno dell’uomo, sullo sforzo cosciente e la sofferenza volontaria, come diceva. Questo principio racchiudeva l’intero suo insegnamento riguardo al Lavoro interiore. Non parlava neppure di spiritualità, da quanto era cauto e temesse di essere frainteso. A un allievo che un giorno gli chiese qualcosa su Dio, Gurdjieff rispose laconicamente: “Vai troppo in alto!”. E da quel giorno la parola ‘Dio’ non fu più menzionata al Prieuré. In effetti, Gurdjieff aveva terrore di ogni intellettualismo, e questa era la critica maggiore che faceva al suo allievo più illustre, Ouspensky, il quale si rivelò incapace di attingere realmente al suo insegnamento per l’intera sua vita, pur comprendendolo lucidamente su un piano puramente mentale e pubblicando il testo più importante sull’insegnamento di Gurdjieff, i Frammenti, apprezzato dallo stesso maestro. All’interno del Sufismo, il maestro che più pare abbia continuato l’eredità gurdjieffiana è stato Idries Shah, esponente di spicco del neo-sufismo, che, capisco, può essere definito da alcuni pseudo-sufismo, perché in esso manca l’afflato spirituale che si respira nei classici testi sufi ed è “centrato non su Dio ma sull’uomo”. Nel neo-sufismo si respira più un clima psicologico che religioso, anche se si tratta di psicologia «transpersonale», come vediamo chiaramente in autori come Robert Ornstein.

 

Ci puoi dire qualcosa in merito all’“idiota gurdjieffiano”? Nel tuo libro emergono in più punti i celebri “brindisi agli idioti” nel corso degli incontri con Gurdjieff ed ho visto che la figura dell’idiota l’hai analizzata a fondo e da più di una prospettiva, con un accenno allo stesso romanzo di Dostoevskij. “Idiozia” e “autentica nobiltà”: due concetti che consideri in maniera contigua (ragion per cui ti chiederei di spendere due parole anche sul secondo di essi).

 

L’insegnamento gurdjieffiano sull’«idiozia», si presta ad essere un ottimo studio sui modi deficitari, infruttuosi attraverso i quali ognuno di noi si avvicina alla propria evoluzione interiore. Hai accennato al fatto che ho dedicato molto spazio agli «idioti» – ben sette capitoli! – e quindi è chiaro come per me sia un punto fondamentale dell’eredità che ci ha lasciato il maestro armeno, anche se, purtroppo, il ‘brindisi agli idioti’ non è stato particolarmente sviluppato tra i suoi epigoni e può passare, agli occhi di molti, per uno dei soliti espedienti bizzarri e irriverenti di Gurdjieff per mettere in ridicolo le persone. Secondo questo insegnamento, ognuno di noi è ‘idiota’ – Gurdjieff stesso si definiva tale – perché ognuno esprime una sua particolare forma di egoismo, o egocentrismo, che ho cercato di descrivere puntualmente nel mio libro (qui, ovviamente, non posso riprendere quanto lì è esposto). Il cercatore della verità è un idiota del tutto particolare, e in questo sta la sua ‘nobiltà’. Innanzitutto, come in  Dostoevskij, passa agli occhi dell’uomo ordinario come un ingenuo, un sempliciotto,  perché incapace di concepire le bassezze e le ipocrisie dalle quali l’uomo di mondo è vaccinato. Inoltre, il cercatore, nella scoperta della sua autenticità, si trova a dover affrontare questa sua ‘idiozia’, assumendola come limite e, insieme, come risorsa che concorrono all’unicità del proprio cammino interiore. Conoscere la propria idiozia è dunque qualcosa di estremamente prezioso.

 

Quanto, a tuo parere, la figura di Gurdjieff può essere legittimamente considerata controversa e spregiudicata? Sappiamo innanzitutto che, al pari di altri “maestri” (ad esempio Osho Rajneesh), non era stato legittimato da nessuno ad impartire insegnamenti esoterici e sapienziali (diversamente da coloro che vengono incaricati di insegnare e trasmettere determinate dottrine dai propri predecessori nell’ambito di “catene” sapienziali conosciute con i termini guru paramparā in ambito hindu e buddhista e silsila in ambito genuinamente sufi). Nel tuo libro l’eccentricità e la spregiudicatezza di Gurdjieff, oltre a chiare espressioni di “culto della personalità” nei suoi riguardi, emergono in abbondanza. Per riprendere e completare la domanda che ti ho già posto: a tuo parere, di fronte a un personaggio come Gudjieff, alla sua eccentricità e spregiudicatezza, dovremmo sospendere ogni giudizio o possiamo avere dei dubbi al suo riguardo come di fronte “ad ogni comune mortale”?

 

Ogni maestro che intende trasmettere un insegnamento al di fuori del suo contesto originario, si trova inevitabilmente di fronte al problema dell’inculturazione, che in fondo è sempre qualcosa di eretico, in un ottica rigorista. Questo è il motivo per cui autentici maestri sono spesso visti da molti esponenti dell’Istituzione come troppo “controversi e spregiudicati”. Ciò avviene in ogni tradizione. Spesso, però, sono proprio questi personaggi, che parlano inevitabilmente a un numero relativamente ristretto di persone, a rivitalizzare un spiritualità agonizzante. Ciò è successo a Osho, come ricordi, a Trungpa, di cui accennavo prima, e anche a Gurdjieff, che, in fondo, definiva il suo insegnamento un «cristianesimo esoterico» rivolto a “coloro che sanno”. Ad ogni modo, io ritengo che l’ombra del dubbio debba essere estesa a tutto e a chiunque, evitando facili entusiasmi da una parte e sterili critiche dall’altra. Un maestro è sempre, come dici, un “comune mortale”, ma spesso mostriamo una luciferina arroganza, pretendendo di comprendere, stigmatizzandoli, i sottili psichismi di qualcuno che possiede un livello di consapevolezza superiore al nostro, magari evitando accuratamente di contestualizzarli. Gesù, a questo riguardo, parlava di “bestemmia contro lo spirito”, l’unica bestemmia imperdonabile.

 

Gurdjieff muore il 29 ottobre 1949. Quale consistenza pensi che abbia, oggi, la sua eredità? Quanto credi che i discepoli siano oggi all’altezza del maestro e in che misura credi il suo insegnamento possa essere stato travisato?

 

Qui la risposta è piuttosto semplice, caro Manuel. In tutto il mio libro – che s’intitola, appunto, L’eredità di Gurdjieff – cerco di mostrare come sia necessario entrare nello spirito di un insegnamento, invece che celebrarne la lettera. Ed ecco che emergono molti cristiani ed ebrei, buddhisti e musulmani, oshani e gurdjieffiani… che, come sappiamo, amano vivere nell’adorazione della lettera. È un problema vecchio quanto il mondo. Lo stesso Jung – il geniale psicologo tedesco che tanto si è occupato di spiritualità – arrivò a dire, spiritosamente, che per fortuna lui era Jung e non uno junghiano. È fin troppo facile tradire lo spirito originario di un insegnamento, e questo, è ovvio, è avvenuto anche con Gurdjieff. La comprensione intellettuale non ha niente a che vedere con la comprensione del sentimento, l’unica che conti! Di conseguenza, non sembra che i discepoli di Gurdjieff si siano rivelati all’altezza del maestro, anche quelli apparentemente blasonati, a partire da Ounspensky. Oggi vedo ‘gurdjieffiani’ baloccarsi con idee come gli ‘idrogeni’ o la ‘legge dell’Ottava’, oppure con il ‘supersforzo’ o i ‘movimenti’, in un processo che lo stesso Gurdjieff definirebbe “cercare mezzogiorno alle tre”. A mio parere – e anche secondo il maestro armeno – bisogna lavorare innanzitutto sul ‘cavallo’, sempre usando un termine gurdjieffiano, cioè sul sentimento.

 

In ultimo: personalmente ho maturato, nel tempo, l’idea che legarsi troppo ad “autoproclamati maestri”, in buona parte svincolati da ogni tradizione religiosa, possa essere, per utilizzare un’efficace termine inglese, misleading: “depistante”. Data la ristrettezza del numero dei loro seguaci — che spesso perdono i contatti con le proprie tradizioni religiose di appartenenza perché pensano di aver trovato risposte più esaustive — un’adesione completa al loro insegnamento può, secondo me, alimentare una psicologia da conventicola, se non da setta. Non credi che i ricercatori di verità debbano, prima di tutto (come dicevi nel corso della nostra precedente intervista), “scegliere una tradizione spirituale, religiosa e seguirla fino in fondo”? Del resto, ogni tradizione ha innumerevoli espressioni che però rimangono “nell’alveo” della tradizione stessa che ha, generalmente, un respiro di millenni. Essere ispirati da figure come Osho Rajneesh e/o Gurdjieff può essere, a mio modo di vedere, sicuramente utile, oltre che affascinante ma non pensi che rimettersi completamente a “dei carismatici isolati” (perché i loro insegnamenti tendono ad essere compiuti in se stessi e dunque solo riconducibili alle loro, accentratrici, figure) possa essere, in qualche modo, “alienante” per il discepolo e vettore di anomia a livello sociale?

 

Sì, il rischio è sempre presente. C’è da dire che il vero maestro non fonda una dottrina, non fonda una religione. Né BuddhaGesù hanno fondato una religione, ma hanno semplicemente cercato di rivitalizzare la religione dei loro tempi, che non rispondeva più ai reali bisogni dei contemporanei. Un autentico maestro non si occupa di religione, ma di spiritualità, e questo si vede anche in figure come Osho o Gurdjieff, per riprendere solo gli esempi appena citati. Penso che il vero maestro si ponga l’obiettivo di permettere al discepolo di riscoprire le ricchezze della propria tradizione religiosa. Quando Gurdjieff parlava del suo insegnamento come «cristianesimo esoterico» intendeva questo e diceva che, in pratica, si trattava di insegnare ad amare, invece di limitarsi a predicare l’amore per il prossimo. L’insegnamento dei maestri, quindi, deve essere innestato nella propria tradizione religiosa, che costituisce il latte materno con il quale siamo stati nutriti dalla nascita. In questo senso, penso che la conversione ad un’altra religione sia possibile solo a quei pochi che sacrificano (rendono sacri) molti anni della loro vita allo studio per penetrare lo spirito della nuova religione a cui vogliono aderire. Il maestro serve a indicare la via verso il cuore della religione, invitando ad abbandonare un inutile e sterile girovagare sulla circonferenza del cerchio, senza mai prendere il raggio che ti porta al centro. Penso che Gurdjieff avesse questo in mente, ma, si sa, quando il saggio indica la luna, lo sciocco guarda il dito. E così è stato creato anche un ‘sistema gurdjieffiano’, un’espressione che avrebbe fatto rabbrividire il maestro. Purtroppo, l’essere umano in genere non cerca la verità, ma solo facili rassicurazioni intellettuali.

 

 

[1]Fabio Guidi, L’eredità di Gurdjieff, Mediterranee, Roma, 2021, pp. 12-13.