“Comunità intenzionali” nella Storia: fra realtà, miti e rimozioni
Il nostro vulcanico collaboratore, Silvio Marconi, ci offre un nuovo articolo critico sulle comunità intenzionali, dopo averci parlato di TAZ e di Miao/H’mong.
Prima di augurarvi, al solito, buona lettura, cogliamo l’occasione per ricordare ai lettori che è possibile avere il nostro testo Comuni, comunità, ecovillaggi, di cui sono rimaste poche copie, “quasi in regalo”.
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Silvio Marconi:
Si è già accennato in un mio precedente contributo al fatto che la definizione-ombrello di comunità intenzionali comprende sotto di sé realtà diversificatissime. Afferma Manuel Olivares a pag. 3 di Comuni, Comunità, Ecovillaggi (Vivere Altrimenti, 2010): << Le “comunità intenzionali” (…) possono essere identificate con gruppi di persone che abbiano maturato l’intenzione di condividere, a diversi livelli, spazi (edifici, terreni, ecc….), beni di vario genere (…) e denaro>>.
Come si vede, una definizione giustamente poco specificante, che ad esempio non dice nulla circa le motivazioni della intenzionalità (rivolta, comunanza di fede politica o religiosa, fuga dall’oppressione, pratica della pirateria e/o della rapina, ricerca ascetica, sottrazione ad un genocidio, pauperismo programmato, prefigurazione di società utopiche, ecc.), le forme di strutturazione della comunità (egualitaria, pseudo-egualitaria, settaria, carismatica, tirannica, ecc.), le forme di inclusione/esclusione (aperta, flessibile, oppure chiusa, settaria, auto segregante, ecc.), le forme di interazione con altre comunità e con i contesti sociopolitici e storici (isolamento, conflitto, interazioni deboli, interazioni a rete, sottomissione, ecc.) e che pertanto racchiude in sé realtà profondamente diverse e perfino opposte, specie se si guarda ad essa in termini storico-antropologici. Racchiude oltre tutto, accanto a situazioni che sono davvero tali da rientrare nella definizione attraverso il termine “condivisione”, molte altre realtà che lo sono solo nella loro versione mitizzata che non tenga conto delle fortissime gerarchizzazioni interne alle “comunità”, esplicite ed implicite. Versione propagandata all’esterno e spesso fatta credere ai membri, versione su cui troppo spesso si soffermano analisi superficiali e attenzione mediatica, complici volontarie o involontarie di chi quella versione produce per suoi specifici fini.
Cosa si condivide, infatti? La proprietà dei terreni, degli edifici, dei beni strumentali, dei prodotti? Non è affatto sempre così, specie laddove esistono leaders carismatici e/o strutture settarie (politiche o più spesso religiose o pseudo religiose) che controllano di fatto e quasi sempre anche di diritto (grazie a donazioni, impegni, contratti, ecc.) proprietà della comunità e perfino forza-lavoro dei membri.
Il potere decisionale? Vale la stessa considerazione.
Il progetto, lo scopo, l’intenzione? Sì, salvo che spesso esiste una dimensione esoterica (religiosa, pseudo-religiosa e/o politica, ma perfino semplicemente materialistico-commerciale), un progetto “nascosto” che solo una cerchia ristretta di “iniziati” può conoscere e che non corrisponde affatto a quello proclamato!
Rifiuto del centralismo delle comunità intenzionali
In pratica si potrebbe dire che la definizione abbia senso più per contrapposizione ad altre forme sociali che per un suo fondamento su caratteristiche specifiche comuni; infatti tutte le comunità intenzionali, sia pure per motivi diversissimi, rifiutano la logica del centralismo a larga scala (anche quando praticano un centralismo leaderistico a piccola scala) che è proprio di tutti gli organismi statuali e proto-statuali. In tutta la storia, infatti, come non si è mai dato il caso di una comunità intenzionale (o anche di uno dei rari casi di rete di comunità intenzionali) che abbia vinto definitivamente nel conflitto con organismi sociali centralistici e non ne sia stata distrutta o assimilata o folklorizzata/strumentalizzata, non si è mai neppure dato il caso di comunità intenzionali (egualitarie o rigidamente centralistiche al loro interno) che abbiano costituito per autonomo processo endogeno una entità centralistica a larga scala, un vero stato, se non quando i poteri centralistici hanno imposto tale soluzione che corrisponde alla negazione stessa del loro essere.
Per capire meglio cosa siano davvero le tante realtà che rientrano sotto quella definizione, non basta e spesso non serve riferirsi all’oggi, dove convivono comunità intenzionali esplicitamente postmoderne (soprattutto sul terreno dell’ecologia), comunità “ruraliste” che hanno come riferimento un ruralismo mitizzato figlio della crisi del mito della città, anch’esso postmoderno e comunità che si sono reinventate sulla base della costruzione artificiale di arcaismi religiosi, storici, culturali, altrettanto moderni e postmoderni, accanto a comunità dichiaratamente antagoniste, con “intenzioni” del tutto anti-arcaiche. Serve invece scavare meglio e di più nella storia, soprattutto nelle sue parti rimosse, occultate o mistificate dai poteri centralistici, e senza compiere salti, ad esempio dall’epoca dell’India delle civiltà di Harappa e Mohenjo Dahro alle “comuni” ottocentesche, ma riandando ad esperienze come quelle delle comunità schiavili ribelli nella Roma tardo repubblicana, alle comunità pirate mediterranee e caraibiche, alle realtà Miao della Cina classica, alle comunità di schiavi fuggitivi in Brasile ed a Cuba nel XVI-XVII secolo, ecc.
Distinzione tra comunità intenzionale e clan-tribù
Serve innanzi tutto distinguere “comunità intenzionale” da “clan”/“tribù”, che si rischia di far rientrare nella definizione. Una società basata esclusivamente su sistemi di parentela allargata (“clan”) ed eventualmente su sistemi di federazione di tali realtà (“tribù”) su base linguistica, e/o ideologica non ha nulla a che vedere con le comunità intenzionali, perfino quando non si evolve verso forme proto statuali e quindi statuali (se non, magari nelle logiche postcoloniali), come ad esempio è avvenuto in Somalia, in Libia, ecc. Perché i clan, le tribù possono volere o meno strutturarsi in forme di accresciuto centralismo a larga scala ma la possibilità che ciò avvenga per scelta endogena, certo dialetticamente collegata con gli eventi storici al contorno, sussiste sempre e nei fatti è la prospettiva maggioritaria storicamente determinatasi! Mentre fa parte della “intenzionalità” delle cosiddette comunità intenzionali rifiutare a priori quella ipotesi e quando essa comunque sopraggiunge vuole semplicemente dire che la comunità intenzionale è stata sconfitta, distrutta. Così Spartaco non voleva conquistare Roma né creare uno stato, né lo volevano fare i pirati musulmani incistatisi a Fraxinetum o quelli caraibici o i neri dei quilombos brasiliani e se in alcuni casi (rivolte schiavili in Sicilia nella Roma tardo repubblicana) si conformarono invece comunità internamente gerarchizzate e dispotiche, esse non ebbero mai l’ardire di presentarsi come stati nascenti.
Serve poi distinguere fra cosa una comunità intenzionale è stata nella storia, ovvero è oggi, e come essa viene descritta da osservatori esterni (spesso i suoi nemici ma anche chi ha interesse a mitizzarla), dalle leadership interne, da suoi corifei distanti secoli dalla sua vera esperienza, come nel caso degli Spartachisti marxisti tedeschi dell’inizio del ventesimo secolo rispetto alla rivolta schiavile guidata da Spartaco in età precristiana. I nemici delle comunità intenzionali, che sono spesso gli unici ad aver prodotto documenti rimasti a nostra disposizione su quelle realtà, nella storia, hanno interesse a stravolgerne le caratteristiche in vario modo. Le descrivono come covi di vizio e depravazione di ogni tipo, ne amplificano la violenza e l’assenza di coesione, ne svillaneggiano simboli e riti, ne deridono i livelli organizzativi, talora ne accrescono la forza e la pericolosità per far risaltare maggiormente la gloria di averle stroncate e per alimentare la paura nella loro ricostruzione futura. Ma soprattutto le giudicano a partire dalle proprie categorie concettuali ed organizzative, attribuendo ad esempio “poteri regali” a capi scelti liberamente e temporaneamente, classificando come “barbare” o “primitive” usanze opposte alle proprie, attribuendo loro progetti diversi da quelli che hanno portato alla loro nascita.
Mitizzazione/strumentalizzazione delle comunità
intenzionali
Paradossalmente, spesso chi in ambiti lontani geograficamente e/o temporalmente da quello originario mitizza e strumentalizza in termini di “antagonismo” (spesso venato di esotismo implicitamente razzista) tali realtà lo fa proprio esaltando quel che i nemici delle “Comunità intenzionali” hanno inventato contro di loro! Così è avvenuto per la vicenda di Spartaco, per quella dei pirati della Tortuga, ecc. e ciò favorisce ancora una volta la confusione fra vere comunità intenzionali e clan/tribù, al punto da far rientrare fra le prime le esperienze clanico-tribali degli autoctoni nordamericani che finiscono per ispirare in Italia fumetti alla Zagor e, negli anni Settanta, gli Indiani metropolitani!
Non meno letale per la vera comprensione delle comunità intenzionali é l’azione mitizzante di amici e falsi amici contemporanei alla loro esistenza o successivi ad essa. Il mito, tutto occidentale, urbano e borghese, del “buon selvaggio” di rousseauiana memoria alimenta la mitizzazione in chiave ecologista, new age, alternativistica di comunità indigene (anche qui senza chiedersi se siano comunità tribali invece che “intenzionali”), così come le analisi assai discutibili di orientalisti europei ottocenteschi (specie tedeschi, ma anche inglesi, francesi ed italiani) sulle società arcaiche dell’India da un lato sono alla radice di tante mode di ricerca di un ashram, di un guru da parte di giovani, intellettuali, borghesi delle città occidentali in fuga, dall’altro sono alla radice delle deliranti teorie arianiste naziste, quanto di più agli antipodi di ogni “rifiuto del centralismo” si posa immaginare e le due facce della medaglia, paradossalmente (ma neppure tanto) arrivano a non contraddirsi del tutto, si intrecciano, sia nella elaborazione di studiosi come Evola e Tucci e dei loro moderni piccolissimi epigoni stile Casa Pound, sia nella concezione di una comunità intenzionale come cuore e vetta di un sistema rigidamente e disumanamente gerarchizzato nella elaborazione di Himmler circa il ruolo della “comunità SS” nel futuro Reich germanico, sia in alcune esperienze attuali di “comunità ecologiche” in Europa, che attingono largamente dalle elaborazioni su tali temi proto naziste e naziste e vedono un diretto impegno di figure del neonazismo europeo, sebbene si guardino dall’esplicitare tale pedigree.
Quali vere caratteristiche delle comunità intenzionali?
Come districarsi in questo coacervo di intrecci, mistificazioni, rimozioni, stravolgimenti, strumentalizzazioni, folklorizzazioni, mitizzazioni che offusca la vista e la comprensione delle vere comunità intenzionali e delle loro vere caratteristiche? Personalmente credo che la difficoltà non sia maggiore rispetto a quella che si incontra davanti a concetti apparentemente meno complicati da definire come ad esempio quello di “popolo”. Infatti, sappiamo, ad esempio, che la Carta dell’ONU stabilisce il diritto alla “autodeterminazione dei popoli” ma…sfortunatamente, in 70 anni all’ONU non si è mai arrivati a stabilire univocamente cosa si intenda per “popolo”, dunque chi siano i portatori di quel diritto, che viene negato a chi “popolo” non è, tanto che la stessa ONU condanna i separatismi e permette agli stati di intervenire al proprio interno per combatterli! E’ “popolo” chi si autodefinisce tale indipendentemente da radici storiche, come nel caso di un “popolo padano” mai esistito come compagine statuale, etnolinguistica, politica nel corso di tutta la storia? Evidentemente parrebbe di no, ma allora cosa sono i “popoli” belga, somalo, libico, iraqeno, ecc.? E’ “popolo” chi ha una radice storica, etnolinguistica, politica storicamente dimostrabile? Riferita a quale periodo ed a quale territorio? I toscani sono eredi degli etruschi o sono risultato di tali rimescolamenti storici da non avere alcun diritto particolare sull’antica Etruria? E gli ebrei russi, statunitensi, yemeniti, italiani che diritti hanno sul territorio mediorientale chiamato Israele? E i nazionalisti ucraini di Leopoli/Lvov che considerano i Russi come nemici e sono in un territorio che è “ucraino” solo per decisione di Stalin ed in cui la maggioranza polacco-ebraica della popolazione non è più tale solo perché sterminata dai nazisti e dai collaborazionisti ucraini a loro cari? I catalani ed i baschi sono popoli, i siciliani ed i sardi no? Le genti del Kossovo, quelle della Croazia. quelle dell’Eritrea (invenzione coloniale italiana), quelle del Sud Sudan hanno visto riconosciuto il loro “diritto all’autodeterminazione”, quelle del Donbass, quelle del Kurdistan, quelle del Kashmir no….
La questione, perciò, dalla sfera del diritto internazionale, della sociologia libresca, dell’antropologia ancella di tutti i poteri ma autoproclamatasi “neutrale” per 150 anni, delle definizioni concettuali, delle teorie astratte, cala come sempre sul terreno della concretezza, dei rapporti di forza, del conflitto, delle alleanze, delle egemonie! Si è “popolo” e se ne hanno i diritti quando si intrecciano la volontà soggettiva di una collettività e le condizioni internazionali perché ciò avvenga ed allora si inventa, si costruisce una legittimità che prescinde dal vero dato storico, sia che esso esista e possa supportare le proprie rivendicazioni, sia che esso sia stato costruito a tavolino: tutti i “popoli” hanno date di nascita, cioè sono stati inventati, e se si sono affermati come tali o meno dipende dalle situazioni e dalle dinamiche storiche.
Parimenti, si è comunità intenzionale e non semplicemente clan/tribù/banda/gang quando si intrecciano la volontà soggettiva di una collettività e le condizioni al contorno (comprese quelle conflittive) perché ciò avvenga ed allora si costruisce una realtà che può perdurare nel tempo, nella storia ben oltre la sopravvivenza della realtà comunitaria e farsi modello o mito sfruttato, legittimamente o meno da altri soggetti, sempre in forma intenzionale: tutte la comunità intenzionali hanno date di nascita, cioè sono stati inventate, e spesso di morte, cioè sono distrutte o assimilate o banalizzate o stravolte o folklorizzate e se si sono affermate come modelli o miti o meno dipende anche in questo caso solo dalle situazioni e dalle dinamiche storiche.
I libri di Silvio Marconi
Uno studio che, lungi dall’avere un obiettivo “enciclopedico” o di minuziosa analisi storica, vuole evidenziare quelle connessioni e correlazioni – tradizionalmente taciute e rimosse – tra i fenomeni ed i processi che portarono alla crisi ed al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e quelli operanti in un’Asia la cui complessa storia viene, tuttora, sottovalutata.
Quando una farfalla batte le ali in Cina si sofferma sul ruolo che, nella crisi e nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ebbero tanto la Persia quanto, indirettamente, la Cina, dimostrando come il pregiudizio etnocentrico che ancora permea la formazione, la divulgazione e la costruzione dell’immaginario occidentale sia un pernicioso ostacolo a una comprensione di ben più ampio respiro e alla lezione metodologica che ne se ne può trarre.
In questa prospettiva, il riconoscimento di una molteplicità di poli e fattori transculturali è la precondizione per affrontare qualsiasi problematica: storica, politica, economica o strategica.
Una precondizione troppo spesso, volutamente, ignorata da una cultura occidentale che, a differenza di quelle orientali, ha rifiutato la logica olistica privilegiando un approccio molto settoriale.
Silvio Marconi – ingegnere, antropologo, operatore di Cooperazione allo sviluppo, Educazione allo Sviluppo e Intercultura – fa ricerca, da anni, nell’ambito dell’antropologia storica e dei sincretismi culturali. Ha pubblicato, al riguardo: Congo Lucumì (EuRoma, Roma, 1996), Parole e versi tra zagare e rais (ArciSicilia, Palermo, 1997), Il Giardino Paradiso (I Versanti, Roma, 2000), Banditi e banditori (Manni, Lecce, 2000), Fichi e frutti del sicomoro (Edizioni Croce, Roma, 2001), Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma, 2002), Dietro la tammurriata nera (Aramiré, Lecce, 2003), Il nemico che non c’è (Dell’Albero/COME, Milano, 2006), Francesco sufi (Edizioni Croce, Roma, 2008), Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016).
Prezzo di copertina: 18 euro Prezzo effettivo: 15.5 euro