Comunitarismo e “Temporary Autonomous Zones”

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Comunitarismo e “Temporary Autonomous Zones”

Dal nostro collaboratore, Silvio Marconi

 

Il concetto di Temporary Autonomous Zones è stato reso celebre anche in Italia dall’anarchico statunitense Peter Lanborn Wilson (che scrive sotto lo pseudonimo di Hakim Bey) nei primi anni ’90 del XX secolo, grazie alla pubblicazione in Italiano di TAZ, Zone temporaneamente Autonome nel 1993 a cura dell’editore Shake di Milano, a cui ha fatto seguito nel 1996 quella di A ruota libera da parte di Castelvecchi di Roma.

Hakim Bey parla di esperienze sociali fuorilegge (che chiama “utopie pirata”) con carattere di “aree di autonomia dalle misure sociali oppressive” in varie epoche e situazioni geografiche, sebbene la sua attenzione di autore che opera dagli USA si concentri prevalentemente su quelle del Continente Americano e dei Caraibi, senza peraltro tralasciare di citare esperienze dei Tuareg e degli Assassini medievali.

Il sottoscritto ha affrontato quella tematica, focalizzando maggiormente l’attenzione sull’area mediterranea, nel suo Banditi e Banditori del 2000, pubblicato dalla Casa Editrice Manni di Lecce, per cercare di colmare un vuoto collegato anche al fatto che mentre delle TAZ nel “Nuovo Mondo” e perfino delle situazioni consimili figlie della fantasia letteraria di un Salgari ambientate nei mari estremo-orientali si sono ampiamente occupati i media e la cinematografia soprattutto hollywoodiana, su quelle mediterranee è stata fatta, con rare eccezioni, calare una coltre di silenzio. Nel mio testo del 2000 affrontavo quindi la realtà, fra l’altro, delle rivolte schiavili in epoca classica romana (non solo quella celebrata dal film di Kubrick Spartaco, cara anche ai comunisti tedeschi), dei pirati mediterranei medievali, della vicenda dei moriscos nascostisi fra i gitani nella Spagna dell’etnocidio di Filippo II, dell’epopea dei “rinnegati” cantata anche da Fabrizio De André in Sinai Capudan Pascià, dei Catari nel Midì francese, dei coquillards cantati dal loro compagno di strada Villon ed accennavo al cosiddetto brigantaggio nell’Italia Centro-Meridionale in epoca pre-unitaria e post-unitaria.

Esperienze assai diverse fra loro e differenti da quelle dei pirati caraibici, delle comunità a sfondo religioso nordamericane, dei quilombos  degli schiavi ribelli e fuggiaschi brasiliani, care a Lanborn Wilson, ma con una rete non solo di elementi comuni che rimandano ai concetti espressi da Hakim Bey ma anche di elementi che in molti casi si sono trasmessi, in forme in genere sincretiche e parziali, dall’una all’altra realtà in areali neppure tanto circoscritti. Come mostrano i collegamenti ad esempio fra comunità degli eretici Bogomili balcaniche e quelle catare occitane, fra la comunità pirata medievale a matrice islamica di Fraxineto (presso l’attuale St.Tropez), le Repubbliche Marinare italiane e le esperienze dei “rinnegati”, fra queste e l’intreccio Gitani-Moriscos e molti altri casi.

Le TAZ non coincidono interamente con le realtà che si è usi definire comunità intenzionali, poiché non tutte queste ultime, specie nei tempi a noi più vicini, si collocano in posizione di illegalità rispetto al potere istituzionale egemone nei luoghi in cui esse vengono a crearsi, ma appare chiaro che le TAZ sono parte rilevante delle comunità intenzionali configuratesi nel corso dei secoli e si può anche aggiungere che nella stragrande maggioranza dei casi storici, anche ciò che nacque magari in forme non illegali venne comunque considerato, anzi reso tale dalle istituzioni egemoni e come tale trattato in momenti successivi.

Lo scontro fra il modello dell’autonomia comunitaria e quello dei poteri centralistici è ineluttabile, se non altro perché questi ultimi non possono accettare l’esistenza di modelli alternativi al proprio.

Tale scontro può avvenire fin dal momento in cui le autonomie delle comunità intenzionali si manifestano, qualora esse siano figlie di rivolte, fughe, rifiuti espliciti dell’oppressione, come nel caso delle ribellioni schiavili (nella Sicilia della Roma Repubblicana come nel Brasile del colonialismo portoghese del XVI-XVII secolo), della pirateria (della Tortuga o di Fraxineto), del rifiuto di adeguarsi alla religione imposta dal potere statuale (nell’Occitania medievale come nelle Alpujarras granadine degli albori del XVII secolo), ovvero realtà di clandestina opposizione al potere incistate dentro le sue città, come certi circoli ereticali nell’Italia della Controriforma o certi centri sociali nell’Europa attuale. Oppure può avvenire quando un’alterità inizialmente tollerata si espande eccessivamente e comincia a configurarsi come germe di contropotere pericoloso per il “pensiero unico” dominante.

Lo scontro non ha una sola via di uscita nella repressione, spesso atroce e totale; il potere che fa solo strage e annichila, che cerca perfino di cancellare la memoria delle controculture è solo una parte della realtà, come la violenza è sempre solo uno degli strumenti del potere, mai l’unico. Il potere sa conquistare e mantenere l’egemonia con un mix di forza e costruzione del consenso attraverso la cooptazione e la strumentalizzazione, altrimenti il potere stesso crolla! E va subito detto che in tutta la Storia nessuna esperienza di comunità intenzionale e/o di TAZ ha mai portato al crollo di alcun potere e del resto la definizione di Lanborn Wilson di “Zone Temporaneamente Autonome” lo esplicita ed evidenzia che il crollo delle istituzioni centralizzate è nella maggioranza dei casi perfino estraneo agli scopi stessi dei creatori delle TAZ.

L’altra strada che si offre al potere è quella, dunque, di cooptare e strumentalizzare le comunità intenzionali e/o le TAZ. Può farle diventare folclore, perfino attrazione commerciale/mediatica/filmica, può offrire ricchi posti nei suoi apparati alle loro “menti pensanti” (come è avvenuto ad esempio per certi leaders delle controculture giovanili italiane da parte di Mediaset o direttamente di Forza Italia), può annacquarne il senso e trasformarne il messaggio in “moda” (come avviene di certe forme di radicalismo ecologista e neoruralista), può strumentalizzarne alcuni elementi per inserirli in concezioni passatiste, reazionarie, antiscientifiche, populiste, come hanno largamente fatto il nazismo e movimenti ad esso collaterali quali il banderismo ucraino, il movimento ustascia croato, le croci frecciate ungheresi e come fanno innumerevoli movimenti neonazisti attuali, da quelli statunitensi a quelli italiani, greci, danesi, tedeschi, baltici, scandinavi.

Può, infine, costringere ciò che è nato sulla base di concezioni comunitariste o che, perlomeno, sbandierava tali concezioni a trasformarsi per opporsi all’oppressore in una realtà strutturata secondo gerarchie e modalità ancor più rigide, istituzionali, oppressive di quelle contro cui ci si batte, soprattutto forzando gli elementi già esistenti di leaderismo, carismatismo, limitazione della dialettica interna, non-democrazia.

E’ grazie a questo mix di ricette, tutte applicate largamente nel corso dei secoli, oltre che alle caratteristiche intrinseche nelle loro esperienze, che nessuna TAZ, nessuna comunità intenzionale ha mai intaccato in forma significativa e duratura il modello centralistico, istituzionale, statalista, sebbene elementi importanti delle loro esperienze si siano trasmessi nel tempo e siano andati ad alimentare esperienze diverse, dal misticismo all’ambientalismo, dal sindacalismo al movimento mutualistico e cooperativistico, dalla ricerca pedagogica all’interculturalismo e siano quindi entrati a far parte anche di tendenze vincenti nella Storia umana.

Va anche precisato che ben diverso è ed è stato il destino di TAZ e/o di comunità intenzionali in differenti contesti geografici e culturali. Laddove esse si sono sviluppate in contesti altamente urbanizzati o comunque fortemente antropizzati e strutturalmente segnati dall’essere luoghi di interconnessioni a grande scala (centri di mercato, porti, bacini fluviali) il loro destino è stato in genere rapidamente tragico, quando non sono state riassorbite, piegate, strumentalizzate, stravolte e rese “altre da se”. Laddove invece il contesto di isolamento in cui hanno preso vita o si sono rifugiate (aree montuose, isole, per una certa fase storica foreste) ne ha protetto l’esistenza e, inoltre, le ha rese marginali rispetto alle aree di interesse prevalente dei poteri istituzionali, militari ed economici, quelle esperienze hanno potuto durare di più e talora (è il caso dei quilombos degli schiavi neri ribelli/fuggitivi in Brasile) perfino sopravvivere alla situazione stessa che ne aveva generato la nascita.

Interessante è comunque il fatto che se da un punto di vista dei rapporti di potere quelle esperienze sono state tutte e sempre sconfitte, elementi della produzione creativa di ordine politico, artistico, culturale in senso lato collegati alla loro esistenza sono invece riusciti a filtrare nelle culture dominanti, a “contaminarle”, spesso sincreticamente, ad influire su di loro, svolgendo un ruolo progressivo di grande rilievo.

In una serie di articoli, si analizzeranno alcune di queste drammatiche esperienze di scontro e di sconfitta, in forme assai diverse fra loro, e si sottolineeranno nel contempo gli elementi sopravvissuti a tali sconfitte ed il loro impatto nella Storia, ben al di là dell’ambito delle TAZ e delle comunità intenzionali, che restano pertanto laboratori eccezionali di innovazione sociale, culturale, politica in ogni epoca.

 

I libri di Silvio Marconi

 

Uno studio che, lungi dall’avere un obiettivo “enciclopedico” o di minuziosa analisi storica, vuole evidenziare quelle connessioni e correlazioni – tradizionalmente taciute e rimosse – tra i fenomeni ed i processi che portarono alla crisi ed al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e quelli operanti in un’Asia la cui complessa storia viene, tuttora, sottovalutata.
Quando una farfalla batte le ali in Cina si sofferma sul ruolo che, nella crisi e nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ebbero tanto la Persia quanto, indirettamente, la Cina, dimostrando come il pregiudizio etnocentrico che ancora permea la formazione, la divulgazione e la costruzione dell’immaginario occidentale sia un pernicioso ostacolo a una comprensione di ben più ampio respiro e alla lezione metodologica che ne se ne può trarre.
In questa prospettiva, il riconoscimento di una molteplicità di poli e fattori transculturali è la precondizione per affrontare qualsiasi problematica: storica, politica, economica o strategica.
Una precondizione troppo spesso, volutamente, ignorata da una cultura occidentale che, a differenza di quelle orientali, ha rifiutato la logica olistica privilegiando un approccio molto settoriale.

 

Silvio Marconi – ingegnere, antropologo, operatore di Cooperazione allo sviluppo, Educazione allo Sviluppo e Intercultura – fa ricerca, da anni, nell’ambito dell’antropologia storica e dei sincretismi culturali. Ha pubblicato, al riguardo: Congo Lucumì (EuRoma, Roma, 1996), Parole e versi tra zagare e rais (ArciSicilia, Palermo, 1997), Il Giardino Paradiso (I Versanti, Roma, 2000), Banditi e banditori (Manni, Lecce, 2000), Fichi e frutti del sicomoro (Edizioni Croce, Roma, 2001), Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma, 2002), Dietro la tammurriata nera (Aramiré, Lecce, 2003), Il nemico che non c’è (Dell’Albero/COME, Milano, 2006), Francesco sufi (Edizioni Croce, Roma, 2008), Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016).

 

Prezzo di copertina: 18 euro Prezzo effettivo: 15.5 euro