Miao/H’mong fra “Comunità intenzionali” e folklorizzazione

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Miao/H’mong fra “Comunità intenzionali” e folklorizzazione

Dal nostro collaboratore, Silvio Marconi.

 

Si è detto in un articolo precedente che molte comunità intenzionali, nel corso della storia, scontrandosi contro poteri centralistici sono state costrette a cercare rifugio in aree geograficamente ed economicamente marginali oppure a farsi includere in forme subalterne nelle strategie di quei poteri, per evitare la distruzione totale. Le due opzioni non sono del resto completamente contrastanti, dato che la prima ha implicato spesso la seconda, almeno in certe fasi storiche e proprio grazie al fatto che l’acquisita marginalità ha obbligato ad accettare anche, ad esempio, l’impiego di settori di quelle comunità in una funzione militare mercenaria, che “valorizzasse” esperienze e competenze sviluppatesi originariamente come resistenzialità.

 

Comunità intenzionali e marginalità

Va subito precisato che non tutte le realtà collettive insediate o costrette ad insediarsi in situazioni geografiche ed economiche marginali sono state comunità intenzionali e tantomeno lo sono state le molte fra loro che hanno dovuto/potuto/saputo coniugare la resistenzialità nella marginalità con l’accettazione di fasi di mercenariato al servizio di poteri centralistici.

La società nepalese, ad esempio, sviluppatasi in un’area che in parte può essere considerata “marginale” (ma che in effetti rappresenta la chiave del controllo dei percorsi fra India e Tibet….) e che è restata parzialmente “ai margini” delle vicende che hanno interessato le regioni settentrionali dell’altopiano del Deccan e la Cina, non è mai stata una comunità intenzionale e si è strutturata storicamente come una entità statuale, centralistica; l’uso britannico dei suoi “gurka” in funzione di truppe specializzate non ha quindi nulla a che vedere con le realtà a cui si fa riferimento in questa serie di articoli. Lo stesso si può dire dei curdi, dei berberi dell’Atlante marocchino, delle genti macedoni, dei baschi a cavallo dei Pirenei e di molte altre realtà costrette alla marginalizzazione geo-economica per lunghe fasi storiche ma segnate da sistemi non meno centralistici (anche quando si tratta di centralismi frammentati in potentati locali) di quelli delle società dei grandi bacini fluviali.

 

Un esempio asiatico di grande comunità intenzionale

Un esempio interessante, invece, asiatico di grande comunità intenzionale (o sarebbe forse più corretto dire di galassia di comunità intenzionali non centralistiche) costretta alla marginalizzazione geo-economica, combattuta da poteri centralistici, ma al tempo stesso usara in determinate fasi dai poteri centralistici, fino ad un epilogo attuale di grandissimo interesse, è quello delle genti che in Cina sono dette “Miao e da parte dei colonizzatori occidentali, a partire dal XVIII secolo, sono più spesso chiamate “Hmong”” (o “Meo”, termine peraltro dalla connotazione insultante simile a quella di “Miao” usata dai Cinesi).

Queste genti,  da circa 6.000 fino a circa 2.000 anni fa, erano stanziate nel Bacino del Fiume Giallo ma la loro origine, secondo studi etnografici e genetici, è addirittura da far risalire alle regioni della Cina Settentrionale, a contatto con le culture mongole e siberiane; essi erano organizzati in comunità indipendenti accomunate solo dalla base linguistica (articolata in vari dialetti), con una gerarchizzazione scarsissima, una inesistenza di un potere centrale, una stratificazione sociale minima. Queste comunità fecero parte delle prime esperienze di coltivazione del riso in Cina ed avevano una rilevanza tale che il termine “Miao” venne usato dai cronisti cinesi, anteriormente al Primo Imperatore (221 a.C.) per indicare l’insieme delle genti non-Han del Sud, il che porta a confondere le comunità davvero etnoculturalmente Miao con realtà sociali (spesso tribali ma niente affatto comunitarie) del tutto distinte.

 

Caratteristiche delle comunità Miao

Queste comunità erano caratterizzate da un ruolo rilevantissimo della donna, da una scarsissima penetrazione dei culti taoisti e buddisti, da rituali funebri distinti da quelli cinesi e simili a quelli siberiani, da una lingua del tutto diversa da quelle del gruppo cinese. Nel corso dei secoli il potere centralistico cinese operò verso queste comunità in tre forme intrecciate. La prima fu assimilarle, etnoculturalmente e politicamente, inglobandole fra gli Han. La seconda fu sospingerle attraverso campagne militari verso Sud, in regioni meno appetibili per l’agricoltura ed infine in aree montuose marginali, ma che controllavano pur tuttavia i percorsi dei traffici con regioni del Sud-Est asiatico e che in parte costituivano rami della cosiddetta “via del tè”. La terza di quella di usarne competenze e personale militare per i propri scopi; ad esempio in epoca Ming vennero adottate dalle truppe cinesi spade che erano del modello inventato dai Miao. Dal XVIII secolo, i Miao furono oggetto di un interesse crescente dei governi cinesi perché rappresentavano la realtà preminente delle regioni di frontiera cinese sud-occidentale, verso le quali si muovevano gli appetiti coloniali britannici e francesi e, conseguentemente, perché gli occidentali presero a studiarli, a corteggiarli, a strumentalizzarli; la politica centralistica cinese si accentuò in senso assimilazionista (anche favorendo i matrimoni misti Miao/Han) e ad essa corrispose una accentuazione della strumentalizzazione coloniale francobritannica dei Miao a fini di destabilizzazione della Cina e della sua frontiera sud-occidentale. Scoppiò così una grande rivolta Miao (1735-1738) nel Guizhou ed un’altra avvenne dal 1795 al 1806 ed infine una ancora maggiore dal 1854 al 1873. I risultati delle sconfitte di queste rivolte furono terribili su vari piani: le esperienze comunitarie vennero annichilite e sussistettero solo nelle aree montuose più remote, guarnigioni militari cinesi e colonie di militari-contadini che si radicarono anche attraverso matrimoni forzati con le donne Han vennero poste nelle regioni Miao per controllarle, il processo di assimilazione agli Han dei Miao non residenti nelle zone più isolate si accelerò, oltre la metà della popolazione fu eliminata o costretta a migrare verso Thailandia, Birmania, Laos e Vietnam. Intanto in Vietnam Settentrionale si sviluppava un’alleanza fra nazionalisti vietnamiti e Miao/Hmong contro i Francesi, che durò anche durante la lotta del Vietnam guidata da Ho Chi Minh, ma nel contempo i Francesi arruolavano Meo/Miao laotiani e Hmong/Miao vietnamiti nelle loto truppe coloniali, cosicché essi si trovarono a combattere in entrambi gli schieramenti e quando il conflitto divenne quello fra gli USA (e i loro fantocci) e le forze egemonizzate dai Partiti Comunisti vietnamita e laotiano, la maggior parte dei Meo/Miao negli Altipiani del Vietnam e soprattutto in Laos furono usati come strumenti militari dagli USA.

Il risultato dell’utilizzazione da parte degli USA dei “Meo” laotiani e vietnamiti contro le forze viet cong è stato che decina di migliaia di loro sono fuggiti in Occidente (o in Thailandia) quando il Vietnam si è liberato e riunificato e, come il Laos, ha visto salire al potere coloro contro cui i “Meo” erano stati usati dagli USA.

 

Comunità Miao oggi

Oggi le parti dei “Miao” (riconosciuti come “minoranza etnica” dal Governo Cinese) che non sono emigrate in Occidente o si sono urbanizzate e che mantengono almeno in parte le proprie tradizioni etnolinguistiche vivono essenzialmente nelle regioni montuose del Sud-Ovest della Cina (soprattutto le province di Guizhou, Yunnan, Guangxi, Hubei), ed in quelle di Laos, Myanmar, Vietnam e Thailandia. In Cina vivono oltre 10 milioni di “Miao”, di cui oltre la metà nel Guizhou.

Il riconoscimento come “minoranza etnica” ha dato ai Miao della Cina gradualmente la possibilità di veder promossa la propria lingua, sebbene il Cinese resti indispensabile e sia studiato a scuola, ed elementi sopravvissuti delle proprie tradizioni culturali, oltre che consentire loro un incremento demografico dovuto all’esenzione dalla regola del “figlio unico” da cui sono escluse appunto le minoranze. Con l’apertura della Cina negli anni ’90-2000, si è avviata anche una “valorizzazione” della cultura Miao in termini turistici e commerciali, a partire da quella dei loro tradizionali bijoux in argento, dei loro prodotti al telaio, dell’architettura vernacola. Poco conosciuti in Italia (nonostante il Museo Nazionale di Arte Orientale di Roma possegga una splendida e semi-ignota collezione di acquarelli con scene di vita dei villaggi Miao del XVIII secolo), i prodotti Miao sono apprezzatissimi in Francia, ove sono utilizzati anche dall’alta moda. Questa “valorizzazione” ha rapidamente assunto i connotati contraddittori che segnano tali operazioni nell’epoca della globalizzazione; elementi della cultura Miao rivivono e danno autonomia economica a villaggi prima poverissimi, ma in compenso si assiste a banalizzazioni, calo di qualità di prodotti per la loro massificazione, etnicità ricostruite in forme spurie, folklorizzazioni ad uso turistico, speculazioni che vanno a vantaggio degli intermediari, delle agenzie, dei mercanti occidentali più che delle genti Miao. Soprattutto, esattamente come avviene in ogni altro caso consimile di ciò che una volta erano comunità intenzionali, si mescolano, più di quanto sia già avvenuto nel corso dei secoli, influssi significativi delle loro culture (in genere del tutto decontestualizzati) su quelle egemoni centralistiche e negazione definitiva del loro carattere di alterità.

 

I libri di Silvio Marconi

 

Uno studio che, lungi dall’avere un obiettivo “enciclopedico” o di minuziosa analisi storica, vuole evidenziare quelle connessioni e correlazioni – tradizionalmente taciute e rimosse – tra i fenomeni ed i processi che portarono alla crisi ed al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e quelli operanti in un’Asia la cui complessa storia viene, tuttora, sottovalutata.
Quando una farfalla batte le ali in Cina si sofferma sul ruolo che, nella crisi e nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ebbero tanto la Persia quanto, indirettamente, la Cina, dimostrando come il pregiudizio etnocentrico che ancora permea la formazione, la divulgazione e la costruzione dell’immaginario occidentale sia un pernicioso ostacolo a una comprensione di ben più ampio respiro e alla lezione metodologica che ne se ne può trarre.
In questa prospettiva, il riconoscimento di una molteplicità di poli e fattori transculturali è la precondizione per affrontare qualsiasi problematica: storica, politica, economica o strategica.
Una precondizione troppo spesso, volutamente, ignorata da una cultura occidentale che, a differenza di quelle orientali, ha rifiutato la logica olistica privilegiando un approccio molto settoriale.

 

Silvio Marconi – ingegnere, antropologo, operatore di Cooperazione allo sviluppo, Educazione allo Sviluppo e Intercultura – fa ricerca, da anni, nell’ambito dell’antropologia storica e dei sincretismi culturali. Ha pubblicato, al riguardo: Congo Lucumì (EuRoma, Roma, 1996), Parole e versi tra zagare e rais (ArciSicilia, Palermo, 1997), Il Giardino Paradiso (I Versanti, Roma, 2000), Banditi e banditori (Manni, Lecce, 2000), Fichi e frutti del sicomoro (Edizioni Croce, Roma, 2001), Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma, 2002), Dietro la tammurriata nera (Aramiré, Lecce, 2003), Il nemico che non c’è (Dell’Albero/COME, Milano, 2006), Francesco sufi (Edizioni Croce, Roma, 2008), Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016).

 

Prezzo di copertina: 18 euro Prezzo effettivo: 15.5 euro