Una breve storia del Popolo degli Elfi
Di seguito un contributo di Cristina Salvadori, antropologa, che ha discusso una tesi sul Popolo degli Elfi; un estratto del capitolo in cui ne presenta succintamente ed efficacemente la storia, filtrato di qualche sociologismo che potrebbe non interessare i non addetti ai lavori.
Cristina:
I folti boschi dell’Appennino Pistoiese che fanno da cornice alla vecchia strada che da Pistoia conduce a Bologna, nascondono al loro interno una moltitudine di case sparse e villaggi che nel loro insieme costituiscono la realtà del Popolo degli Elfi.
La comune nasce nell’estate del 1980 per volontà di un francese e di un italiano i quali, oltre a rimanere impigliati nell’affascinante “trappola” del panorama offerto da tali luoghi, cercano mediante la creazione di uno stile di vita alternativo di curare la loro intolleranza nei confronti della società dominante corrosa dal capitale e dalle imposizioni borghesi, combattendo il germe dell’industrializzazione con il suo esatto contrario: la pre-industrializzazione, tornando così ad uno stile di vita strettamente rurale.
L’ispirazione di fondo dei comunardi non si ferma alla sola contestazione dello stato di cose vigenti ma si fa portatrice della volontà di creare un sistema di convivenza basato sulla completa assenza di pregiudizi, sul rispetto reciproco e di conseguenza su ideali di fratellanza, solidarietà e cooperazione tra i membri, concetti chiave per la costruzione di un’esperienza collettiva fin dalle prime comuni ottocentesche.
L’insediamento nei primi ruderi abbandonati avviene in un momento della storia delle comunità che possiamo definire a cavallo tra il fenomeno comunitario italiano dei primi anni Settanta, strettamente legato al Sessantotto ed ai successivi anni della contestazione e per questo abbastanza politicizzato, e la nascita dei primi ecovillaggi all’inizio degli anni Novanta, esperimenti di vita comunitaria particolarmente dediti al problema ambientale e alla salvaguardia del pianeta, il tutto contornato dall’alone del movimento hippy che dall’America degli anni Sessanta continuava ad affascinare e a catturare quei giovani alla ricerca di una diversa strada da percorrere nel cammino della vita.
Il primo casolare occupato è stato quello di Gran Burrone, situato sul versante ovest della catena montuosa, dal quale si apre una meravigliosa vista sul rilievo opposto che lascia intravedere altre case a quel tempo abbandonante.
Infatti il primo insediamento è stato accompagnato poco dopo dalla presa di Piccolo Burrone, Casa Sarti e Pastoraio, quest’ultimo frutto di una scissione interna alla comunità ma reinserito, dopo un paio di anni nell’unità della Valle.
Il fascino di questi luoghi rapiva non solo per la bellezza offerta spontaneamente dalla natura, ma attraeva anche per la possibilità di instaurarvi uno stile di vita diverso, lontano dal fragore e dalla frenesia della società capitalista ormai onnipresente, lontano dalle imposizioni, dalle regole, dalle etichette borghesi. E questa vita rigenerativa non rimaneva solo sul piano ideale ma si materializzava e prendeva forma davanti a quei ruderi che a loro tempo avevano ospitato i contadini e i boscaioli di inizio secolo, considerati dai comunardi testimoni di una vita fatta di semplici valori, di contatto con la natura e dimensione comunitaria, abbandonata non appena il progresso industriale si è avvicinato alle loro porte e la città li ha attirati a sé, utilizzando il richiamo del denaro e dei comforts, potenziali strumenti ai fini di un migliore stile di vita.
Secondo il metro di giudizio elfico tuttavia questo nuovo modo di vivere non si è rivelato così appagante ma è risultato repressivo e soffocante sia per l’uomo che per l’ambiente, tanto da spingere alcuni individui alla ricerca di un’ideale “oasi felice” trovata in questo caso tra i boschi del pistoiese. Coloro che decidono di rinascere in questa nuova esperienza di vita si insediano nei ruderi abbandonati che diventano la loro nuova casa, intesa sia nel significato domestico delle sue funzioni primarie (mangiare e dormire) sia nel valore simbolico di rifugio dal mondo esterno, identificato con la società capitalista. E proprio queste due accezioni hanno dato la forza di rimettere in sesto quelle abitazioni fortemente segnate dal tempo in modo da renderle sicure e funzionali.
I luoghi di insediamento sono stati di ispirazione anche nella scelta del nome: l’estetica della valle, la maestosità dei boschi che avvolgono la montagna e chi la vive, la natura che regna nella sua fisicità e spiritualità, nei colori, negli odori, nel tempo, nella vita, sono elementi di contatto con il mondo narrato da Tolkien nelle sue opere tanto da utilizzare la sua fervida immaginazione per nominare se stessi e i luoghi prescelti. I primi insediamenti presero così il nome di Gran Burrone e Piccolo Burrone e gli abitanti divennero di diritto gli Elfi della Valle dei Burroni.
L’esplicito richiamo alla letteratura tolkieniana da parte dei comunardi espatria dalla concezione italiana costruita attorno all’autore, focalizzata principalmente sui valori guerrieri di onore, coraggio e lealtà, eletti simboli dei movimenti giovanili di destra, per approdare alle interpretazioni anglosassoni e statunitensi interessate soprattutto al legame esoterico tra uomo e natura attraverso l’esaltazione della spiritualità e del contatto diretto tra le due entità, diventando infatti un’icona del movimento hippy. Senza considerare i nomi di derivazione leggendaria, gli altri villaggi hanno conservato la denominazione originale (vedi Casa Sarti, Casetta Bruciata, Cerchiaia), quasi a volere mantenere un legame con i predecessori e con lo stile di vita strettamente legato alla tradizione contadina che questi abitanti dei boschi hanno deciso di far rifiorire in pieno spirito comunitario ed ecologico.
La serenità suscitata dal nome assunto e dalla cornice idilliaca scelta per questo quadro non ha coinciso affatto con l’occupazione di questi luoghi. Il battesimo della comune fu segnato infatti da episodi di repressione da parte delle forze dell’ordine che hanno costretto reiterate volte gli occupanti a lasciare le case; ma loro ogni volta vi sono ritornati con una vivace determinazione che li ha portati ad avere la meglio e ad essere tutelati sul piano giuridico mediante contratti di affitto o di comodato gratuito. Nel corso degli anni, ai quattro villaggi fondanti, se ne sono aggiunti molti altri quali Cerchiaia, Casetta Bruciata, Avalon, oltre alle numerose case sparse abitate da uno o due nuclei familiari, segno di una comunità in crescita anche da un punto di vista generazionale.
Oggi gli Elfi contano circa duecento abitanti, tra adulti e bambini, e costituiscono una comunità legalizzata distinta in quattro associazioni, suddivise per aree geografiche e territoriali, ciascuna affittuaria del demanio e responsabile dell’area circostante in cui si trova, tutte riunite sotto la bandiera della Confederazione dei Villaggi Elfici.
La storia della comune può essere suddivisa in due età principali che hanno scandito il fondamentale passaggio “dalla communitas esistenziale e spontanea alla communitas normativa”.
L’andamento iniziale della vita comunitaria si è contraddistinto per la sua genuina e semplice disorganizzazione: la sensazione di leggerezza provata con l’affrancamento dal macigno della società, la voglia di stare insieme instaurando rapporti di fraterna intimità, l’immergersi con il corpo e con i sensi nell’avvolgente natura ospitante, avevano un valore primario rispetto addirittura ad attività necessarie tra le quali rimettere le case e mangiare.
L’organizzazione quotidiana della comune, in questa prima fase, era governata dall’istinto e procedeva sulla base degli impulsi del momento. La componente libertaria del “fai ciò che vuoi” era l’unica regola da rispettare e apriva ai partecipanti la via verso la massima espressione personale, insieme alle porte verso tutti coloro che si avvicinavano alla vita comunitaria, anche quelli che si attaccavano ad essa succhiandone la linfa vitale dall’interno. La mentalità fraterna e solidale verso qualsiasi soggetto incrementava ingenuamente il parassitismo di un certo numero di ospiti e visitatori che per svariate volte ha portato la comune sull’orlo di un’ implosione, evitata solo grazie alla rudezza del luogo, specie nei mesi invernali.
Il momento iniziale è anche quello di un contatto molto più mistico con la natura. L’elemento ecologico, pietra fondante della comune, veniva vissuto attraverso una sacralità pagana che nel corso degli anni si è affievolita anche a causa del continuo lavoro della terra. I primi abitanti si perdevano tra i folti boschi del luogo in “viaggi psichedelici” provocati dall’estasi della natura circostante.
La riverenza sacrale verso la “Grande Madre” era maggiormente contemplativa e più visibile e si concretizzava in pratiche rituali esplicite di stampo esclusivamente laico e non esoterico. La divinazione degli elementi naturali veniva fuori solo dal grande rispetto che i comunardi avevano, e hanno tuttora, per l’ambiente che li avvolge, ma è ben lontana dai tratti magico-religiosi tipici di certi movimenti ecologisti come l’ecofemminismo Wicca o l’esoterismo di Damanhur. Un esempio di questa venerazione laica è inserito in un particolare aneddoto che ha come protagonista un vecchio castagno:
Nel mezzo al bosco che conduce a Casa Sarti fu individuato un enorme castagno col ventre squarciato, probabilmente da un fulmine, che creava una specie di entrata dentro il tronco dell’albero. Il fatto di poterci entrare dentro divenne una sorta di rifugio per chi aveva bisogno di staccare un attimo la spina e rimanere solo con se stesso, la valvola di sfogo e il confessionale per i soliloqui di chi doveva scaricarsi. Con il passare del tempo, questo vecchio castagno, assunse una valenza sacrale e divenne un vero e proprio altare naturale, chiamato col nome di “Grande Padre” e adorato come fosse una divinità: c’era chi lasciava doni, chi vi accendeva una candela, chi lo omaggiava con dei fiori, chi lo pregava e chi gli rendeva grazie. Poi fu abbattuto, credo dalla forestale, e piano piano è andato nel dimenticatoio…ma per chi se lo ricorda, il “Grande Padre” non era niente di magico o di trascendente…era piuttosto un buon amico! (testimonianza diretta di un membro del Popolo degli Elfi)
Il “Grande Padre” è un esempio di laico ossequio che caratterizza il rapporto tra Elfi e natura, specie nella parte iniziale della storia comunitaria, quella più spontanea e “selvaggia” che per la sua estrema frugalità ci rimanda la mente alle comuni hippy degli anni Sessanta americani, specie quelle rurali, basate su un “primitivismo volontario” fautore della completa armonia e fusione dell’uomo con la natura e del rifiuto di tutti i comfort della società moderna, anche i più elementari.
E si può riscontrare che era così anche presso gli Elfi: le case fatiscenti in mezzo al bosco, la mancanza di elettricità e di acqua corrente, l’assenza di qualsiasi oggetto tecnologico o meccanico rendeva estremo e compiuto il rifiuto della società dominante ma anche molto dura la vita quotidiana.
La seconda età si apre con la nascita dei primi bambini, verso la metà degli anni Ottanta, principale motivo di svolta verso una strutturazione implicita dell’andamento comunitario. Pur mantenendo l’essenza libertaria e l’impronta anarchica per la mancanza di regolamentazioni e gerarchie, si è sentito il bisogno di dar luogo ad una semplice organizzazione della vita quotidiana, priva di leggi formali e di istituzioni cadute dall’alto ma governata da biologiche norme di convivenza, rigorosamente tacite, promotrici di un ordine anarcoide che si va a sostituire alla disordinata spensieratezza iniziale. Si è cominciato quindi a regolare il flusso degli ospiti accettando chiunque, senza alcun pregiudizio culturale, sociale o religioso, ma fissando un periodo di prova (in genere un anno) per individuare chi era in grado di gettarsi nell’esperienza comunitaria a lungo termine, senza esitazioni nell’allontanamento di parassiti dannosi all’equilibrio comunitario, criterio utilizzato tutt’oggi.
L’arrivo dei figli degli Elfi ha creato anche una nuova esigenza, quella del focolare domestico, sia per motivi di spazio che per l’intimità biologica e sentimentale ricercata dal nucleo familiare; questo ha comportato il loro allontanamento dai villaggi o dai casolari comunitari e la ristrutturazione di numerose case aperte, ospitanti una o due famiglie. E sempre in funzione dei figli, le abitazioni sono state rese più accoglienti e funzionali: sono state riparate le strutture cadenti, posti i vetri alle finestre, acquistati tutti gli oggetti per l’uso quotidiano, sistemate le camere da notte. Negli ultimi anni quasi tutte le case della Confederazione hanno goduto anche di due innovazioni importanti dal punto di vista delle comodità: l’acqua corrente e l’elettricità. Il principio guida di queste introduzioni rimane sempre il rispetto ambientale e il consumo controllato e consapevole: l’acqua che arriva alle case mediante un rustico sistema idraulico è divisa in quella piovana raccolta nella cisterna comune e usata per lavare (piatti, vestiti e persone) e in quella derivante direttamente dalla sorgente montana usata per bere e cucinare, entrambe adoperate con attenta parsimonia. La corrente elettrica giunge nelle case grazie all’installazione dei pannelli solari e viene sfruttata in primis per illuminare le stanze comuni al posto delle candele, rimaste solo per le camere.
Tra le intromissioni tecnologiche e meccaniche all’interno della comune è importante ricordare anche l’arrivo del trattore a Casa Sarti, temperato aiuto in determinati lavori nei campi divenuti troppo pesanti con il passare del tempo, mentre tutto il resto continua ad essere svolto rigorosamente con la sola forza delle braccia umane. L’arrivo di queste innovazioni è avvenuto in un momento abbastanza avanzato della storia comunitaria, quando ormai il lavoro e le mansioni primarie da svolgere erano ben chiare e ben assimilate e costituivano la routine giornaliera da diversi anni. Ma la loro accettazione non è stata affatto scontata dato che ha provocato due schieramenti opposti in materia: i consenzienti all’aiuto della tecnologia, purchè non invasiva e rispettosa dell’ambiente e i più radicali, contrari a qualsiasi contatto con essa.
Alla fine ha prevalso la linea più moderata e questi cambiamenti sono stati accettati da tutta la comunità.
La necessità di creare un adeguato regime alimentare per i piccoli Elfi ha determinato un certo ordine anche nella cura dei campi, degli orti e degli animali che sono diventate mansioni regolatrici del vivere giornaliero. Mantenendo un venerabile rispetto per la Madre Terra, la sua lavorazione ha provocato un cambiamento nei rapporti tra natura ed Elfi, basati non più sulla pura contemplazione di questa ma su una sua trasformazione . Il contatto e la fusione con essa si cominciano ad ottenere anche con la fatica ed il sudore, modificando le mistiche attenzioni nei riguardi della natura tipiche della prima età, incorporandole piuttosto nell’essenza nascosta della comune. Oggi non troviamo segni tangibili del laico culto della natura, non assistiamo a elaborati riti di adorazione ma percepiamo la sacralità dell’ambiente nelle parole e nei movimenti degli Elfi, nei loro gesti quotidiani dal cucinare al lavare i piatti, dalla raccolta differenziata dei rifiuti al riciclaggio, dalla cura degli animali alla sistemazione degli orti. Il loro impegno nel rispettare al massimo l’ecosistema in cui si trovano trasforma ogni singola azione in un celato omaggio alla bontà della “Grande Madre” diffondendo una sottile aurea sacra in ogni momento della vita comunitaria tra i boschi, regolata ormai da quella “communitas normativa” che ha dato vita all’organizzazione economica, politica, sociale e culturale che si è consolidata in questi trent’anni di storia della Valle.
Chi volesse contattare Cristina può scrivere a cristina@viverealtrimenti.com