Una vecchia intervista per il testo Gesù in India?

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Una vecchia intervista per il testo Gesù in India?

È giunto il momento di riprendere ad aggiornare questo blog! Sono in arrivo diversi post, frutto della collaborazione con il giornale laluce.news. Il giornale, oltre ad avere una versione on line, è un mensile in formato cartaceo. In questo blog pubblicherò gli articoli che offro al mensile e che non vengono pubblicati nella versione on line del giornale. Oggi, tuttavia, facciamo un salto indietro e pubblichiamo un’intervista di qualche anno fa realizzata con Alberto Caspani per il portale altrimenti.net che ha, successivamente, chiuso i battenti.

L’intervista riguarda il testo Gesù in India? che è stato, nel frattempo, tradotto in inglese ed è oggi disponibile, in italiano ed in inglese, in versione cartacea e digitale (qui per la versione italiana e qui per la versione inglese).

Buona lettura!

Manuel Olivares

 

Cominciamo dal titolo: “Gesù in India?”. Il tuo punto interrogativo rappresenta una profonda cesura rispetto alle pubblicazioni sinora apparse sul tema, a loro modo tendenti ad affermare la possibilità che Gesù sia vissuto in India. Si tratta di una scelta dettata dalla prudenza, per via della circospezione con cui in Italia vengono accolti studi su Gesù non in linea con la posizione della Chiesa cattolica, di rifiuto di un certo sensazionalismo pubblicistico, oppure le prove raccolte spingono a mettere in dubbio le tesi eterodosse?

 

Io cerco di mantenermi sempre possibilista e, soprattutto, “laico” nelle diverse questioni di cui mi occupo.

Fermo restando che a circa due millenni di distanza sia difficile dare risposte definitive, la mia posizione personale sugli eventuali anni indiani di Gesù è la seguente: il Cristianesimo nasce, di fatto, a Nicea nel 325, con l’omonimo concilio (da cui non a caso è scaturito il Credo Niceno), in buona parte come grande progetto politico di Costantino I.

L’impero romano stava seriamente scricchiolando, i barbari premevano su molti confini ed era necessario trovare un elemento di coesione per popoli che, pur riconoscendo tutti lo stesso imperatore, erano profondamente diversi e, chi più chi meno, sotto grave minaccia. A mio modesto parere Costantino fu straordinariamente lungimirante, individuò nel Cristianesimo un seme di rinascita dello stesso impero, un software con cui, nel tempo, si sarebbero potuti gestire gli stessi barbari (ingestibili militarmente, malgrado lo straordinario livello della civiltà latina) e la storia gli diede ragione. L’impero romano rinacque come sacro nell’Ottocento, con l’incoronazione di Carlo Magno da parte di Papa Leone III, evento che potrebbe essere considerato come il compimento della prospettiva costantiniana.

In tutto questo, però, Gesù assurgeva al ruolo di protagonista fondamentalmente nella sua espressione simbolica, di uomo-Dio in grado di “sconfiggere la morte” (del resto alle masse eterogenee, in buona parte analfabete, che popolavano i territori dell’impero romano nei primi secoli dell’era cristiana era necessario presentare un uomo-simbolo del tutto fuori dal comune, per essere rapidamente efficaci nelle conversioni) anche a prescindere da quelli che sono stati i reali eventi che hanno coinvolto il cosiddetto Gesù storico.

In altre parole, trovo del tutto verosimile che il Gesù della fede si sia facilmente sovrapposto, nella lunga epopea del Cristianesimo, all’uomo in carne e ossa che rispondeva al nome ebraico Joshua Ben Joseph, il cui stile di vita e del suo sparuto gruppo di seguaci era molto simile a quello di gruppi di śramana ― il significato del termine pali è “ricercatori”, “asceti” ― indiani (che avrebbero anche ispirato, secoli prima, gli itineranti seguaci di Gautama Siddharta, il Buddha).

Ora, senza naturalmente contestare la fede a chi ne è provvisto, credo qualche domanda possa legittimamente sorgere.

Di qui, un provvidenziale fiorire di ipotesi disparate, alla ricerca di una risposta soddisfacente all’intrigante questione: chi è stato veramente Gesù di Nazareth?

In piena secolarizzazione questa fioritura trova, naturalmente, “spazio per spandere la propria fragranza” e questo credo possa avere ripercussioni di vario ordine e grado (ne parleremo più avanti).

Dunque, per rispondere con più precisione alla tua domanda, evidenzierei due elementi a mio parere inoppugnabili:

  1. Dobbiamo concedere tranquillamente che il Cristianesimo, nei secoli, si sia strutturato su una versione ufficiale della vita di Gesù di Nazareth (facilmente non coincidente con quella storica, effettiva) e che non poteva essere altrimenti. Di conseguenza, dobbiamo concedere alle diverse espressioni del Cristianesimo ufficiale la difesa strenua di quella stessa versione e dunque che l’appassionante dibattito sulla versione storica possa soprattutto articolarsi in un ambito laico, secolare che, tuttavia, nei paesi cosiddetti cristiani è, oggi, preponderante;
  2. A fronte del molto tempo passato e dei vivaci flussi e riflussi storici che si sono susseguiti, della grave scarsità di prove documentarie e di altra sorta e degli sforzi fatti e ancora in atto affinché la versione ufficiale non venga contraddetta, credo sia abbastanza difficile dare scientificità alle diverse ipotesi su cosa abbia fatto realmente Gesù di Nazareth. A fronte di questo, lo stesso filone di ricerca che ho seguito io, dei cosiddetti anni indiani di Gesù, non può, a mio parere, non essere affrontato con possibilismo e laicismo. Di qui il punto interrogativo nel titolo. Credo, come ho scritto nell’introduzione al testo, sia doveroso.

 

Sposare o meno la tesi di un Gesù vissuto in India è solo questione di prove “scientifiche” e accettazione di metodologie riconosciute, o sono piuttosto in gioco altri fattori determinanti?

 

Ti ringrazio per questa domanda perché ci permette di entrare meglio nello spirito del testo. Fermo restando che da un punto di vista scientifico, al momento, non si possa essere perentori, credo che a partire da una rilettura di alcuni aspetti della storia degli ultimi duemila anni, possibilmente scevra da pregiudizi e utilizzando la logica e la verosimiglianza, la tesi che Gesù sia stato in una o più occasioni in India meriti di non essere liquidata come puramente stravagante. Partiamo da un importante dato generale: è storicamente dimostrato che, ai tempi di Gesù, i contatti tra mondo mediterraneo, Medio Oriente e Oriente fossero, possiamo dire, quotidiani. Noi tendiamo naturalmente a pensare (e qui ci sono i primi pregiudizi da eliminare) che Oriente e Occidente siano e, soprattutto, siano sempre stati, due compartimenti a tenuta stagna mentre invece, pur tra alterne vicende storiche, comunicano e si fecondano reciprocamente da millenni.

Ai tempi di Gesù la complessa rete di vie carovaniere (parte delle quali sarebbero successivamente ricadute sotto la definizione di Via della seta) consentivano il transito costante di immense quantità di merci,  di eserciti e, come scrive l’economista indiano Premio Nobel Amartya Sen, di ricercatori del vero, di filosofi.

L’imperatore indiano del terzo secolo avanti Cristo, Ashoka, convertitosi al Buddhismo, mandò un numero difficilmente quantificabile di missionari in buona parte del mondo allora raggiungibile ― soprattutto attraverso la rete di vie carovaniere ― dall’India. Mandò i figli, Mahinda e Sangamitta, in Sri Lanka e monaci buddhisti nei territori dell’attuale Persia, della Mesopotamia, della Grecia, dell’Egitto. Quelle di Ashoka sono state, probabilmente, le prime missioni della storia ma questo noi, a scuola, non lo studiamo. E Ashoka conosceva abbastanza bene il mondo ellenistico perché nel quarto secolo avanti Cristo Alessandro Magno era giunto nella Terra dei cinque fiumi, il Punjab e a partire dal 303 avanti Cristo, per oltre dieci anni, il diplomatico ellenistico Megastene frequentò la corte di Chandragupta Maurya a Pataliputra (odierna Patna, nello stato indiano del Bihar) e Chandragupta era il padre di Ashoka. L’arte del Gandhara, sviluppatasi tra il primo secolo avanti Cristo e il quarto dopo Cristo, con il suo ricco repertorio di statuaria buddhista realizzata con criteri estetici greci, esprime forse meglio della documentazione scritta l’incontro profondo, fino alla fusione, di cultura greca e indiana proprio a cavallo dell’era cristiana

Dunque iniziamo a mettere un primo punto fermo: è del tutto verosimile che Gesù, ai suoi tempi, se lo avesse voluto, avrebbe potuto giungere fino in India. Si sarebbe potuto aggregare a carovane di mercanti, non avrebbe avuto bisogno di soldi ma solo di buona salute e forza fisica, avrebbe dovuto essere disposto a collaborare nelle incombenze quotidiane e a difendere le merci dagli attacchi dei predoni, dividendo doveri e pasti quotidiani con i compagni di viaggio. Questa ipotesi diventa a maggior ragione verosimile a fronte dei famosi anni mancanti ― dai quattordici ai trenta ― di cui non parlano i Vangeli.

Manoscritti che descrivano gli anni “giovanili”, della formazione di Gesù in India, sembra proprio abbiano fatto capolino da biblioteche monastiche himalayane. C’è chi li ha tradotti e divulgati, inizialmente in francese, alla fine dell’Ottocento, in Occidente: Nicholas Notovitch che, ovviamente, è stato messo al bando da un’articolata propaganda schierata strenuamente a difesa della versione ufficiale. Del resto, cosa ci si poteva aspettare, che dopo la pubblicazione del testo di Notovitch La vie inconnue de Jésus-Christ, il Vaticano, magari a mezzo enciclica, dichiarasse: ops, ci siamo sbagliati, il Cristianesimo è in buona parte debitore nei confronti dell’Induismo e del Buddhismo perché Gesù, ci era sfuggito, si è formato in India. Dunque si è fatto di tutto per dimostrare che Notovitch fosse un megalomane e che il suo libro fosse una frode bella e buona. Nello stesso monastero, però, giunse molti anni dopo Swami Abhedananda, grande intelettuale indiano, pochissimo conosciuto in Italia, mentre ha vissuto oltre un ventennio negli Stati Uniti. Nel 1922 Swami Abhedananda trova i manoscritti che tanto scalpore avevano fatto in Europa dopo la pubblicazione del testo di Notovitch e ne traduce alcuni frammenti, sentendosi di confermare quanto scritto ne La vie inconnue de Jésus-Christ. Di Abhedananda in genere si parla molto poco. Il suo testo: Journey into Kashmir and Tibet è quasi irreperibile fuori dall’India e non l’ha letto quasi nessuno. Io ho deciso di fare eccezione, vivendo in India da circa 10 anni ho reperito il testo e l’ho citato abbondantemente nel mio. Il grave errore che, a mio parere, fece Abhedananda, tuttavia, fu di non creare i presupposti perché altri potessero continuare la sua ricerca. I manoscritti avrebbero dovuto quantomeno essere fotografati pagina per pagina o, essendo disponibili in più copie (pur in diversi monasteri), avrebbero dovuto essere affidati a istituzioni universitarie e a studiosi specializzati. Tutto questo, invece, non è accaduto, dunque oggi non si può parlare di prove. Va anche detto che raggiungere il Ladakh, come fece Abhedananda, negli anni venti era di per sé un’impresa a rischio di vita, dunque non è difficile immaginare che anche se avesse voluto forse non avrebbe potuto fare di più. Abhedananda è stato l’ultimo a visionare i manoscritti da cui è stata ricavata La vie inconnue de Jésus-Christ. Non che altri, dopo di lui, non li abbiano cercati ma, comprensibilmente, sono spariti.

Tra coloro che si sono spinti sul tetto del mondo troviamo Nicholas Roerich, pittore, scenografo, antropologo russo della prima metà del Novecento.

Non trovò ― comprensibilmente, ripeto ― i manoscritti ma raccolse una ricca mole di leggende, storie, quella che io ho chiamato, nel mio testo, “la tradizione orale himalayana”, in merito alla permanenza di Gesù in India. La cosa curiosa è che tale tradizione non è solo indiana, Roerich, viaggiando ininterrottamente nelle montagne dell’Asia per oltre quattro anni, ne ha trovate tracce significative fino in Calmucchia.

Qui si pone, effettivamente, un problema metodologico, ovvero la domanda: quanta dignità scientifica vogliamo dare all’oralità? A questo punto sociologi, antropologi dovrebbero avere voglia di coinvolgersi nel filone di ricerca.

È affascinante il fatto che si trovino tasselli del puzzle dell’eventuale vita indiana di Gesù in molte parti dell’Asia e che, alla fine, considerando diverse testimonianze e diversi dati, il quadro d’insieme che ne risulta è tutto sommato coerente.

Ti faccio un ultimo esempio: è stata documentata, in Afghanistan, una comunità di Followers of Jesus, Seguaci di Gesù che pur essendo del tutto autonomi da chi ― in principio in India, in Punjab per la precisione ― sosteneva che Gesù sia sopravvissuto alla crocifissione e sia morto in tarda età in Kashmir, hanno la stessa versione dei fatti.

Dunque non siamo nelle condizioni di poter dire: è assolutamente vero che il Gesù storico non godeva di conoscenza infusa perché “generato, non creato della stessa sostanza del padre” ma buona parte di quello che ha dimostrato di saper fare, lo ha imparato in India. Oppure di dire: è assolutamente vero che il Gesù storico non è morto e poi risorto ma è sopravvissuto alla crocifissione e poi è morto ed è stato sepolto in Kashmir.

Tuttavia, mi sento di poter affermare che, dati di vario ordine e grado alla mano (e qui non ho potuto non fare solo qualche accenno in ordine sparso), cercando di essere lucidi e di farci assistere dal buon senso, l’ipotesi, anzi le ipotesi (perché sono più di una) degli anni indiani di Gesù non sembrano, ancora una volta, del tutto peregrine. Dunque ti risponderei in sintesi così: ricchezza di dati (pur non inoppugnabili), buon senso, logica e verosimiglianza sono altri fattori determinanti che entrano in gioco nella considerazione della questione in oggetto, pur, giova ripeterlo, a fronte di un necessario laicismo e possibilismo di fondo.

 

Ritieni che la ricerca di una soluzione debba essere compito di qualunque persona si rapporti a Gesù, al fine di svilupparne la problematicità senza condizionamenti, oppure occorre che questo tema resti competenza di specialisti, evitando in tal modo il proliferare di tesi mal argomentate?

 

Io ritengo che se alcuni specialisti si prendessero la briga di contribuire a far luce sulla questione, non farebbero un soldo di danno. Certo, i più grandi nemici della conoscenza sono il semplicismo, il pressapochismo cui io per primo devo stare molto attento e dunque lo specialista può dare alcune garanzie in più rispetto, ad esempio, al fomentato new ager. Io auspico che in questa ricerca si coinvolgano anche istituzioni accademiche, non so quanto sarà possibile. Ricercatori free lance allo sbaraglio credo possano essere anche i benvenuti, certo, il rischio di tesi mal argomentate c’è. Vorrà dire che ci si faranno i conti.

 

La ricerca su Gesù ti ha spinto in Paesi differenti non solo per ordinamento politico, ma anche per tradizioni religiose. Come sei stato accolto, di volta in volta, dalle persone cui hai manifestato i tuoi propositi? Potere e religione possono ancor oggi ostacolare, o addirittura mettere a rischio, la libertà di ricerca? 

 

Cominciamo dall’ultima domanda: potere e religione possono ancora oggi ostacolare o addirittura mettere a rischio la libertà di ricerca? Fin troppo facile rispondere: sì. È nella natura stessa del potere, di cui la religione non può non essere un’importante espressione, tessere i fili della storia, attraverso versioni ufficiali di come siano andati i fatti che variano, facilmente, da paese a paese. Ho potuto constatarlo facilmente leggendo testi, occidentali, di storia e filosofia e omologhi indiani. Come accenno nel mio Gesù in India? le tesi che vi sono riportate tanto sono spesso considerate peregrine in Occidente quanto vengono prese con la dovuta, pur spesso pacata, serietà nella stessa India, la cui intelligentsia (a partire da Pandit Nehru) si è di volta in volta dimostrata possibilista quando non apertamente favorevole alla prospettiva di uno o più soggiorni indiani di Gesù.

A me piace infatti pensare a una categoria parallela a quella di storia; la sub-storia: tutto ciò che avviene, più o meno sotterraneamente (non perché occulto ma perché volutamente non ben documentato), tra le righe o le note a pié pagina del clamore dei media del mainstream. Quante volte la verità andrebbe cercata nella substoria piuttosto che nella storia? Per fare, molto rapidamente un esempio, avendo recentemente visto il film Piazza delle cinque lune: il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. In ogni telegiornale, su ogni o quasi testata giornalistica e su testi che non si focalizzino su una lettura diversa della vicenda, i fatti hanno come protagoniste le Brigate Rosse. Dunque, nella storia d’Italia il rapimento e l’uccisione di Moro vanno ricondotti alle BR. Lo sanno anche i bambini dell’asilo. Io stesso, ricordo, ne venni a conoscenza alle elementari, parallelamente allo svolgersi degli eventi. Se però si considera la cosa più a fondo, sembra proprio che le Brigate Rosse siano state eterodirette perché l’eliminazione di Moro rientrava in una strategia complessiva di ambienti completamente diversi. Qui siamo nella substoria ma chi volesse sapere come sono andate veramente le cose forse dovrebbe continuare a ricercare in ambito substorico più che accontentarsi di una versione ufficiale, semplificata in cui i cattivi sono outsiders, terroristi e nessun ambiente ― deviato o meno ― della struttura statuale o interstatuale vi sia coinvolto. Ma sui libri di storia, sappiamo, si trovano le versioni ufficiali, funzionali a determinate esigenze del potere. Del resto, non può che essere così. Fabrizio de André cantava che bisogna essere veramente “coglioni” per “non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni”. La sua è una frase iperbolica, da vecchio anarchico ma credo sia, in buona parte, veritiera. Questo non significa sia possibile realizzare una società scevra da qualunque forma di potere ma che nella lettura di tutto ciò che ci circonda bisogna sempre considerare le diverse espressioni del potere che solo un ingenuo può pensare non abbiano un effetto fortemente condizionante. Le espressioni del potere sono molte, diversificate, utilizzano diversi software e questo tanto più ci è chiaro quanto più si vive in paesi diversi, con diverse strutture di potere. Vedendole comparativamente le si può comprendere meglio.

Veniamo ora alla prima domanda: la mia esperienza sul campo è stata molto piacevole, sono stato accolto sempre degnamente (del resto mi sono mosso in India dove, ripeto, le ipotesi inerenti agli eventuali anni indiani di Gesù sono, pur discretamente, incoraggiate; il paese ne avrebbe molto da guadagnare se se ne potesse dimostrare la veridicità).

Ad essere proprio franco (così facciamo subito un po’ di substoria) credo sia giusto spezzare una lancia in favore del mondo musulmano.

Il Professor Hassnain ― sufi, storico kashmiro, ex direttore del Museo della Antichità dello Stato di Jammu e Kashmir e degli Archivi Nazionali Kashmiri e uno dei pionieri del filone di studi degli anni indiani di Gesù ― mi ha dato, sin dall’inizio, tutto l’appoggio possible per la mia ricerca. Ho poi collaborato molto bene con la Comunità Islamica Ahmadiyya, presso la cui sede principale, a Qadian (in Punjab) sono stato ospitato egregiamente. Con membri della Comunità, soprattutto della sua sezione kashmira di Srinagar, abbiamo avuto un fruttuosissimo scambio di libri, alcuni dei quali di difficile reperibilità e abbiamo approntato, insieme, un buon centro di documentazione. Devo dire con altrettanta franchezza che in ambito buddhista (nel monastero di Hemis in Ladakh e nella Nunnery della Druk Amitabha Mountain in Nepal) non ho trovato lo stesso calore, oltre a un sostanziale disinteresse alla creazione di una fruttuosa collaborazione. Le ragioni di questa asetticità possono essere comprensibili ma mi piace smontare qui alcuni luoghi comuni che vedano, stereotipicamente, i musulmani come “aggressivi” e i buddhisti come placidi e cooperativi.

In realtà una bella rivelazione di questa ricerca è stata proprio la nobiltà che ho trovato nella piccola sezione di mondo musulmano con cui sono entrato in contatto. Non parlo solo degli ahmadiyya che sono i più tenaci sostenitori di un’ipotesi in particolare degli anni indiani di Gesù e dunque si sono posti ragionevolmente bene nei miei confronti. Aneddoti ce ne sarebbero diversi, voglio raccontarne solo uno.

Sono a Srinagar (aprile 2015) e ho bisogno di una biblioteca. Mi suggeriscono di andare a Hazrat Bal, luogo di un celebre santuario dove si trova anche il campus della University of Kashmir. Ho speso nel campus tre ore in cui ho preso quattro numeri di telefono, di persone ― giovani musulmani di vario orientamento ― con cui mi sono trovato casualmente a chiacchierare. Uno di loro, Aijaz, mi si è voluto mettere pienamente a disposizione, mi ha accompagnato nei giri che dovevo fare nel campus, poi in un piccolo punto-ristoro interno. Aveva una lezione da seguire e dunque mi ha lasciato, per un’ora, in compagnia di un suo amico (un ragazzo sciita con cui abbiamo avuto una memorabile, appassionata conversazione). Quando è tornato mi ha chiesto se il pasto che lui mi aveva ordinato (il personale del punto-ristoro parlava solo kashmiro e ho avuto bisogno della sua mediazione) era stato di mio gradimento e quando ho dovuto pagare lui ha preteso di fare gli onori di casa. Io, quel giorno, avevo fatto un prelevamento a un bancomat e avevo 20 biglietti da 500 rupie nel portafoglio che avevo preso dalla tasca per pagare (e le banconote erano ben visibili perché ne sporgevano). Aijaz mi ha fermato dicendomi che assolutamente dovevo consentirgli di pagarmi il pasto e lui non aveva nemmeno il portafoglio. Aveva tre banconote spiegazzate da venti rupie ciascuna e mi emoziona ricordarlo, un po’ in imbarazzo, a stirare due delle tre banconote da dare al cassiere (l’importo era, difatti, di quarana rupie). Un’immagine che credo mi porterò per tutta la vita; una vera lezione di nobiltà. Una tra tante di cui potrei raccontare, come della dolcezza dell’Imam, un po’ obeso, della Comunità Islamica Ahmadiyya di Srinagar, Farooq. L’immagine stessa della mitezza. Ci siamo trovati, ogni tanto, soli il pomeriggio nello spazio sociale della Comunità, dove andavo a consultare testi e a navigare in internet. Non mi faceva andare via se prima non mi aveva offerto il té con i biscotti. Quando lo salutavo e gli dicevo: allora ci vediamo domani, grazie di tutto, lui sorrideva dicendo semplicemente: inshaAllah, inshaQllah.

Quanto persone come Farooq o Aijaz siano lontane anni luce dallo stereotipo del musulmano aggressivo e intollerante lo lascio giudicare a chi legge.

 

Nel tuo studio non sono stati deliberatamente riportati alcuni temi più delicati, quali l’esistenza odierna, per linea di sangue, di possibili discendenti di Gesù. Perché questa scelta? Esistono realmente persone che si rifanno alla sua figura in termini di eredità familiare e, nel caso, come vivono questo status?

 

La discendenza di Gesù è un argomento piuttosto sfruttato in molti altri libri. A Srinagar esiste una famiglia identificata nel folklore locale come discendente in linea diretta da Gesù.

Di un importante esponente si è occupato Andreas Faiber Kaiser nel suo testo tradotto in italiano con il titolo Gesù visse e morì in Kashmir. Si chiamava S. Basharat Saleem ed è mancato qualche anno fa. Era conosciuto, a Srinagar, come guaritore e sosteneva di essere in possesso di un cruciale albero genealogico che si trova sinteticamente riprodotto in alcuni libri, ad esempio di Maria Fida Hassnain.

Ho avuto modo di conoscere e trascorrere un pomeriggio con suo figlio, personaggio a mio parere del tutto fuori dal comune e dotato di particolare carisma.

Lui (nella foto accanto a me che ho la maglietta arancione; non ne divulgo il nome per rispetto) sostiene di non sapere molto di questa inusuale discendenza anche se ci è “cresciuto dentro” e ha chiare nella memoria le immagini del gran via vai di gente che andava a trovare e “riverire” suo padre, costantemente costretto, mi diceva, a trascurare i suoi problemi per aiutare il prossimo. Allo stesso tempo, mi ha confessato di non avere alcun interesse a implementare questa storia di famiglia, che si deve occupare di tutt’altro e che pensa, in ultima analisi, che la questione degli anni indiani (kashmiri per la precisione) di Gesù, nel corso dei quali avrebbe anche avuto una moglie e dei figli, non può che essere oggetto di “fede”. Ci si può credere o meno ma non si può certo pensare diventi parte della versione ufficiale della vita di Gesù.

Non ho inserito questo incontro nel mio libro e non ho accennato alla discendenza per due motivi: per rispetto del “discendente”, con cui ho sentito una bella, forte sintonia umana (forse dettata anche dalla suggestione, mi ha emozionato incontrare l’eventuale discendente di colui che rappresenta l’asse portante del nostro mondo, della nostra cultura, di tutto quello di cui io stesso sono figlio) e, forse più banalmente, per una questione di buon gusto. Fermo restando che anche il filone della discendenza potrebbe essere suggestivamente approfondito…qui ci vuole Farooq: inshaAllah!

 

Hai parlato di un Gesù “transculturale” come di un’opportunità rivelatasi in questi anni di globalizzazione. Cosa intendi esattamente e quali conseguenze dobbiamo aspettarci?

 

In chiusura una domanda molto impegnativa. In generale l’essere umano ha dovuto adeguare la sua coscienza al crescere di livello di complessità della propria organizzazione sociale. Dal paganesimo (termine riconducibile a pagus che significa villaggio) c’è stato un passaggio ai credo universali, in concomitanza con l’affermarsi degli imperi e delle loro relative esigenze. Ashoka e Costantino possono rappresentare due esempi validi di imperatori che hanno identificato in due credo universali ― il Buddhismo e il Cristianesimo ― altrettanti software per la migliore gestione dei loro imperi non senza l’ambizione che questi potessero un giorno divenire, a loro volta, universali.

Oggi? Siamo in un’epoca di grandi ibridazioni, contaminazioni, meticciamenti di ogni sorta. La globalizzazione delle informazioni può rappresentare una buona opportunità per far uscire, dall’ombra, la substoria.

Gesù è stato forse la più pregnante personalità di tutti i tempi ed è giusto pensarlo come trasversale a diverse culture (a proporlo, passami la battuta, con la dizione no copyright). È giusto valorizzarne lo spazio onorevole che ha in alcuni settori del Buddhismo (dove è effettivamente considerato un bodhisattva), in India (dove, tra l’altro, si sviluppò nel primo secolo dopo Cristo l’interessantissimo Cristianesimo Malabarita che merita senz’altro di essere approfondito) e, soprattutto, nell’Islam dove Gesù non solo è considerato un Profeta ma svolge addirittura la funzione di Messia. La storia che studiamo, in Occidente, sui banchi di scuola, in buona parte trascura tutto ciò ed è anche comprensibile sia così. Non rientra nel software da approntare per il buon cittadino occidentale ma oggi i confini tra stati, continenti, culture stanno divenendo progressivamente più porosi dunque trovo giusto che una provvidenziale transculturalità, che ha da sempre caratterizzato le vicende della substoria, irrompa nella storia con, si spera, effetti benefici.

Enfatizzare che a livello transculturale abbiamo una figura fondante come Gesù in comune credo possa aiutare l’incontro più che lo scontro tra civiltà. Un incontro di cui, mi sembra, ci sia sempre più bisogno anche perché oggi civiltà diverse (e non penso solo all’Islam, anche cinesi e indiani hanno un’identità forte con cui dobbiamo essere pronti a fare, pur nei migliori auspici non conflittualmente, i conti) sono sempre meno “al di là del muro”.

Grazie!