Tuscia mistica parte settima

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Tuscia mistica parte settima

Nel post precedente ci siamo soffermati lungamente sulle vestigia di eremi e monasteri sul Monte Soratte, località che non ricade – a essere pignoli – nell’area della Tuscia ma nella confinante Valle del Tevere. Tuttavia il Monte Soratte ha avuto un ruolo molto importante oltre che, come abbiamo visto, nella storia generale della cristianità (sulla sua cima ha vissuto a lungo, da eremita, San Silvestro, divenuto successivamente – nel 314 – Papa Silvestro I, contribuendo al passaggio cruciale dalla Roma pagana alla Roma cristiana), nella stessa storia religiosa della Tuscia. Abate del Monastero di San Silvestro sul Soratte è difatti, nel sesto secolo, San Nonnoso, il cui nome, sappiamo, è anche intimamente legato al Monastero di Sant’Elia – a Castel Sant’Elia – ed alla generale storia del primo monachesimo.

Rimandando coloro che non dovessero averlo letto al post sul Monte Soratte, con questo nuovo post ci occuperemo di alcuni luoghi cruciali nella storia religiosa della Tuscia che è stata per molti secoli, come abbiamo argomentato nei post precedenti, un territorio d’elezione per la realizzazione dell’homo religiosus. Riprendendo liberamente la definizione di Mircea Eliade: l’homo religiosus è colui che, esule volontario, fuoriesce senza rimpianti dalla vicenda umana, per sposare il cielo.

Nei post precedenti abbiamo considerato alcuni luoghi in profondità (soffermandoci soprattutto sul territorio di Castel Sant’Elia, posto quasi di rimpetto a quello del già citato Monte Soratte e dove troviamo le vestigia di uno dei più antichi cenobi d’Europa).

La cosa sorprendente è che quello di Castel Sant’Elia è lungi dall’essere un caso isolato nella Tuscia, dove troviamo molte vestigia di chiese rupestri, cenobi e di antichi monasteri benedettini. Ho fatto ricerche di approfondimento e ci troviamo di fronte ad una discreta messe di dati di cui vogliamo dare conto in questo post.

Dopo aver setacciato il web ed avendo recuperato testi anche datati, proviamo dunque ad offrire una sorta di primo inventario cui potrebbe poi seguire un lavoro di ulteriore approfondimento.

Iniziamo a concentrarci sulle strutture più antiche presenti nella nostra bella sub-regione, sugli ipogei, avvalendoci di diverse risorse reperite on line, in biblioteca ed in libreria.

Condivideremo il materiale reperito on line (ad esempio diversi pdf), soddisfatti anche del fatto che (abbiamo avuto modo di verificare dalle statistiche delle visite al nostro sito) i testi in formato digitale che abbiamo reso disponiibili nei post precedenti sono stati abbondantemente scaricati dai lettori.

Un interessante contributo reperito on line e che rendiamo qui disponibile è: Santuari rupestri in provincia di Viterbo, di Alberta Felici e Giulio Cappa, membri della Società Speleologica Italiana – Speleo Club Roma, dal quale riprendiamo una prima lista. Scarica il pdf da qui: Santuari rupestri.

Nel documento in questione vengono segnalati i seguenti ipogei che presenteremo brevemente avvalendoci di ulteriori contributi, soprattutto la tesi di laurea di Stefano Mecchia, in Scienze dell’Archeologia e Metodologia della Ricerca Storico-Archeologica: Le chiese rupestri del Lazio medievale (VI-XV sec.) che potete scaricare da qui: Le chiese rupestri del Lazio medievale e lo studio di Joselita Raspi Serra, divenuto oramai un classico e che abbiamo citato più volte nel corso del post precedente: Insediamenti rupestri religiosi nella Tuscia per il giornale Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen-Age, Temps modernes che potete scaricare da qui: Raspi Serra.

 

 

La chiesa rupestre di Santa Lucia (Bomarzo -VT-)

Riporto di seguito una sintesi della scheda approfondita ripresa da Le chiese rupestri del Lazio medievale (VI-XV sec.) da cui è stata riportata anche la cartina. Per chi volesse leggere la scheda nella sua versione integrale, ne rendiamo disponibile qui il pdf: Scheda della chiesa di Santa Lucia. A fine presentazione riporto un video della playlist Tuscia mistica del canale You Tube di Viverealtrimenti.

«I primi studi sulla grotta vengono realizzati ad opera dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD), sotto la direzione di Fulvio Ricci, nel corso di tre sopralluoghi tra il 1979 e il 1988; in seguito questa documentazione viene in parte pubblicata sulla rivista dell’I.C.C.D.; nel corso di questa campagna molti degli affreschi del complesso vengono asportati illegalmente o distrutti.
Nel 1990 la grotta è stata inserita nel Catasto delle Cavità Naturali della Società Speleologica Italiana, con la parziale pubblicazione dei dati della scheda catastale e di una descrizione della chiesa.
Attualmente il sito, non facilmente raggiungibile perché invaso dalla vegetazione, è abbandonato a sé stesso, anche se fortunatamente non sembra ci siano stati altri atti vandalici.

La chiesa rupestre di S. Lucia si trova nella località omonima, sul versante E del pianoro di Piammiano (o Pianmiano), con l’imbocco che si apre a circa 145 m s.l.m. lungo un versante molto ripido che digrada verso il Tevere. Il colle, che è parte della scogliera travertinosa che fiancheggia la riva destra del Tevere al confine del Lazio, si trova a circa 2 chilometri ad Est di Bomarzo.
Sul colle di Piammiano (o Pianmiano), frequentato già in età preistorica, sono state rinvenute anche tracce di frequentazione in età etrusca (tombe a camera) e romana; secondo una recente ipotesi questo abitato, che andrebbe identificato con la Statonia citata nelle fonti, nasce nel VII sec. a.C., ed assume caratteristiche urbane già nel VI sec. a.C.; fortificato nel IV sec. a.C., questo centro sopravvive alla romanizzazione, ed è ancora attivo in età imperiale (sebbene con una forte contrazione dell’abitato); le ultime tracce di frequentazione (monete e bolli doliari di Alarico e Atalarico) risalgono alla prima metà del VI secolo, quando il territorio viene inglobato nelle proprietà dei sovrani goti, ed è probabile che il sito, troppo esposto dal punto di vista strategico, sia stato abbandonato nel corso della Guerra Greco-Gotica (535-553).
Da allora in poi questo colle non viene più rioccupato, a parte qualche casale di epoca moderna.
Ai piedi del colle si snoda l’attuale tracciato dell’A1, che in questo punto ricalca in parte l’antica Via Tiberina, e questo tratto sopravvive nel Medioevo come variante del percorso principale della Via Francigena, in direzione di Orte.

Il complesso di S. Lucia si articola in due nuclei: un avancorpo in muratura e un’ampia grotta naturale con diverse diramazioni.
Non è da escludere che la grotta sia stata frequentata già in età preistorica, come del resto è stato riscontrato per altre cavità naturali nelle vicinanze, ma mancano indizi di una eventuale frequentazione a scopo di culto.
L’intitolazione a S. Lucia, molto diffusa tra i luoghi di culto rupestri, sia nel Lazio che fuori, è spesso legata alla sfera del parto e delle acque guaritrici; in particolare è stato osservato che nell’area in questione, in corrispondenza di un percorso secondario della Via Francigena sulla riva destra del Tevere, i luoghi di culto dedicati a questa santa si trovano spesso all’interno di grotte naturali con acque sorgive, o in prossimità di esse. Gli interventi costruttivi e decorativi all’interno e all’esterno della grotta possono essere collocati in due fasi ben distinte, la prima in età tardomedievale, la seconda in età moderna.
Incerta la cronologia delle strutture all’interno della grotta, purtroppo quasi illeggibili per lo stato di conservazione precario e la calcinazione delle superfici. La sistemazione dell’area presbiteriale e della scala possono essere fatti risalire all’età medievale: l’altare a mensa è genericamente databile al medioevo su base tipologica, mentre l’affresco al disopra del blocco stalagmitico all’imbocco della scala potrebbe essere genericamente datato al XIII-XV da un preciso particolare tecnico, un nimbo radiato inciso sullo stucco e completato in pittura, una prassi pittorica tipica di questo periodo; purtroppo non c’è altro modo di precisare questa datazione. Purtroppo non si può proporre una datazione per l’affresco al disopra dell’altare, mentre di recente i pannelli a finto marmo sulle murature dell’area presbiteriale e sul blocco stalagmitico sono stati datati a un momento più tardo (XVII sec.).
I sopralluoghi dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione hanno fortunatamente documentato lo stato della chiesa prima di una serie di atti vandalici avvenuti proprio in quegli anni; in particolare, l’edicola settecentesca dell’ambiente A1 è stata demolita da ignoti tra il 1979 e il 1985, riportando alla luce le pitture quattrocentesche, che a loro volta sono state asportate illegalmente prima del 1988.
Nel XVII-XVIII secolo l’avancorpo viene restaurato (è possibile che gli ambienti A2 e A3 siano stati aggiunti in questa fase), e viene costruita l’edicola votiva nell’atrio; forse anche la costruzione di una porta sull’accesso secondario della grotta (C) rientra tra questi interventi.
Sono questi gli ultimi interventi edilizi nella grotta, che in seguito viene probabilmente custodita da eremiti (come fanno pensare le denominazioni delle mappe catastali), per essere definitivamente abbandonata in un momento non precisabile, ma probabilmente nel corso degli ultimi due secoli.
Con l’abbandono si perde anche la memoria della chiesa rupestre, riscoperta quasi per caso negli anni ’80».

 

 

 

Grotta del San Salvatore (Vallerano -VT-)

Anche in questo caso, riporto di seguito una sintesi della scheda approfondita ripresa da Le chiese rupestri del Lazio medievale (VI-XV sec.) da cui è stata riportata anche la cartina. Per chi volesse leggere la scheda nella sua versione integrale, ne rendiamo disponibile qui il pdf: Scheda Grotta del San Salvatore. A fine presentazione riporto un video della playlist Tuscia mistica del canale You Tube di Viverealtrimenti. Nel video vengono presentate altre due realtà, ugualmente nei dintorni di Vallerano, di cui parleremo nel prossimo post.

«La Grotta del Salvatore e le cavità vicine sono concordemente interpretate come resti di un cenobio benedettino del IX-X secolo, anche se Joselita Raspi Serra ha posto l’accento sull’assenza di precisi riscontri nelle fonti documentarie, a parte la “generica presenza in zona di proprietà dell’Ordine”.

La stessa studiosa, inoltre, ha proposto una revisione delle cronologie degli affreschi (a suo parere troppo deteriorati per poterli riesaminare) in base a un passo della bolla di Leone IV dell’852 in cui si accenna esplicitamente alla presenza nell’area di Vilianellum monachorum (va chiarito che Vilianellum si riferisce al comune limitrofo di Vignanello nel cui entroterra era attivo il cenobio di San Lorenzo, presentato nel video riportato più avanti e di cui, come si accennava, tratteremo nel prossimo post. Il termine monachorum è evidentemente generale e si può dunque riferire a realtà monastiche tra Vallerano e Vignanello).

L’intitolazione della chiesa rupestre e del cenobio non è nota; il nome Grotta del Salvatore probabilmente deriva dagli affreschi della chiesa rupestre, come avviene in molti altri casi in cui la denominazione originaria si è persa. Secondo un’altra ipotesi, recentemente ripresa, questo nucleo rupestre andrebbe identificato con il cenobio di S. Salvatore de Coriliano, appartenente al monastero romano di S. Silvestro in Capite.
In effetti il monastero romano possedeva delle proprietà nell’area già a metà IX sec., ma l’esistenza di un cenobio è attestata solo in un documento del 1112. Dai pochi documenti superstiti risulta che questo cenobio, spesso coinvolto in contese territoriali con le comunità di Vallerano e Vasanello, viene citato per l’ultima volta nel 1299.
La struttura architettonica dell’ipogeo, ricostruibile con una certa precisione nonostante i crolli, sembra realizzata in un’unica fase.
Gli affreschi, sicuramente eseguiti in un’unica fase, sono stati variamente datati tra il IX e l’XI secolo; in questo lavoro viene accettata la cronologia proposta da Simone Piazza che colloca l’esecuzione delle pitture tra la seconda metà del IX secolo e l’avanzato XI secolo, con maggiori probabilità per il periodo più recente. Questo importante intervento decorativo non coincide necessariamente con la data di fondazione della chiesa, per quanto sembri pensato proprio in funzione della struttura architettonica dell’ambiente.
Purtroppo non c’è modo di sapere, nella totale assenza di fonti documentarie sicure, quando venga fondata la chiesa rupestre, né quando sia stata abbandonata, anche se la bolla di Leone IV, posto che veramente si riferisca a questo cenobio, permetterebbe forse di alzare alla metà del IX secolo la datazione del complesso.
Di certo la chiesa era già quasi completamente interrata nel XVIII secolo e nel 1888 un crollo della falesia aveva distrutto buona parte degli ambienti che si aprivano sulla parete. Dopo gli scavi e i restauri eseguiti da Achille Bertini Calosso la Grotta del Salvatore è stata lasciata a sé stessa. Una recente relazione dell’ENEA ha evidenziato le precarie condizioni di stabilità della parete, con il forte rischio di ulteriori crolli.
La cronologia che viene così a delinearsi è piuttosto chiara, anche se molto schematica: la chiesa viene costruita e decorata tra la seconda metà del IX secolo e il pieno XI secolo, ed è forse identificabile con il monastero di S. Salvatore de Coriliano, dipendente dal monastero romano di S. Silvestro in Capite; se questa ipotesi venisse dimostrata, l’abbandono del complesso si potrebbe collocare nel tardo XIII secolo».

 

 

 

Complesso di S. Selmo (Civita Castella -VT-)

Nuovamente segue una sintesi della scheda approfondita ripresa da Le chiese rupestri del Lazio medievale (VI-XV sec.) da cui è stata riportata anche la cartina. Per chi volesse leggere la scheda nella sua versione integrale, ne rendiamo disponibile qui il pdf: Scheda San Selmo. Anche in questo caso condividiamo un video sull’ipogeo in oggetto dalla playlist Tuscia mistica del Canale Youtube di Viverealtrimenti.

«L’insediamento di S. Selmo viene identificato e studiato per la prima volta da Joselita Raspi Serra, che pubblica una descrizione globale dell’ipogeo e dei suoi affreschi, corredata da un rilievo molto dettagliato.

In seguito la chiesa è stata citata in molti lavori, preziosi soprattutto per la documentazione delle condizioni degli ambienti e delle decorazioni pittoriche prima dei numerosi atti di vandalismo commessi a partire dagli anni ’70.

L’accesso all’ipogeo è piuttosto difficile, dal momento che la scalinata di accesso è quasi totalmente interrata, e nell’ultimo tratto si apre direttamente sulla rupe, senza protezioni di alcun tipo. Il sentiero di accesso originario, che correva lungo il fianco della rupe, è impercorribile perché quasi totalmente crollato, e dovrebbe anche esistere un sentiero che sale dalla base del colle verso la chiesa, che però non è stato possibile rintracciare. Gli ambienti della chiesa rupestre, nonostante i crolli e gli atti di vandalismo, sono in condizioni relativamente buone, e possono essere esplorati con facilità.

L’insediamento rupestre di S. Anselmo (oggi noto come Grotte di S. Selmo) si trova a metà altezza della parete rocciosa di un colle in località Celle che sovrasta l’antico santuario di Giunone Curite, a 1,5 km circa a S dell’attuale abitato di Civita Castellana. La dedicazione della grotta ha influenzato anche la toponomastica locale: la valle su cui si affaccia il complesso rupestre è tuttora nota come Fosso di S. Anselmo.

Lungo le pareti del colle si aprono diversi nuclei di cavità artificiali, per la maggior parte tombe di età falisca o romana, alcune delle quali sono state reimpiegate in epoche più recenti come abitazioni rupestri.

Il santuario di Giunone Curite, ai piedi del colle, viene costruito nel VI secolo a.C. sul sito di una necropoli protovillanoviana, e continua ad essere frequentato anche dopo la conquista di Falerii Veteres da parte dei Romani (241 a.C.), quando il culto viene trasferito a Roma; la testimonianza più tarda della vita del santuario, infatti, è un’epigrafe di II-III secolo che documenta il restauro della Via Sacra che da Falerii Novi conduce al bosco sacro della dea.

Il culto di Giunone Curite era strettamente legato a delle sorgenti salutifere, ricordate anche da Plinio, canalizzate e raccolte in una vasca all’interno del santuario tramite un’imponente rete di cunicoli idrici.

Nell’VIII-IX secolo, quando sul sito di Falerii Veteres nasce l’abitato di Civita Castellana, vengono recuperati anche i tracciati viari dell’antico centro falisco; è in questo contesto che, secondo Joselita Raspi Serra, nascono gli insediamenti rupestri nei dintorni di Civita Castellana, tra cui anche S. Selmo.

In effetti lungo il fosso di S. Anselmo sono stati segnalati resti di età medievale non meglio inquadrabili dal punto di vista cronologico, tra i quali un ponticello a schiena d’asino che scavalca il fosso e i ruderi di una struttura addossata all’angolo W del tempio di Giunone Curite, probabilmente una piccola chiesa.

Non è chiaro quale sia la situazione in epoca moderna: oggi la valle del fosso di S. Anselmo e il colle di Celle sono praticamente disabitati, con l’eccezione di qualche abitazione rurale; tuttavia, la chiesa rupestre viene risistemata in epoca moderna (probabilmente intorno al XVII secolo) con interventi di una certa portata, il che fa pensare che nell’area vi sia stata almeno qualche forma di insediamento rurale sparso fino a tempi relativamente recenti.

Il S. Anselmo cui è dedicata la chiesa è stato identificato con il fondatore di Nonantola (+808), il che ha portato a interpretare il complesso rupestre come cenobio benedettino, ma è più probabile che si tratti dell’omonimo (e semileggendario) vescovo di Polimartium (attuale Bomarzo), vissuto nel VI secolo e martirizzato all’epoca della Guerra Greco-Gotica.

Ad ogni modo, sembra di poter ricostruire un ambiente principale (B1) adibito ad aula di culto, con due ambienti annessi di incerta funzione (B2, B3), e una serie di altri ambienti forse utilizzati come abitazioni (C1, C2) e sepolcreto (C3).

Le testimonianze pittoriche permettono di datare la chiesa rupestre almeno al XIII secolo, e sebbene lo stato degli affreschi non permetta di precisare questa datazione, sembra di trovarsi di fronte a una serie di interventi pittorici eseguiti in momenti diversi, ma piuttosto ravvicinati. Gli affreschi più tardi, purtroppo perduti, sono stati datati al XV secolo, il che farebbe pensare a una frequentazione continua della chiesa rupestre per tutti gli ultimi secoli del medioevo.

L’ipotesi che si sia trattato di un piccolo insediamento monastico o eremitico, già proposta in passato, sembra piuttosto plausibile: apparentemente la chiesa rupestre è piuttosto isolata, e non sembra essere collegata a nessun insediamento nei dintorni.

Per riassumere, il complesso di S. Selmo si sviluppa su due nuclei rupestri di origine falisca, una serie di tombe a camera con dromos e sepolture a loculo (A1-A3) databili almeno al VII secolo a.C., e un secondo nucleo, apparentemente composto da tombe a camera semplici su due ordini e cunicoli di incerta funzione (B1-B3, C1-C3), molto manomesso per il crollo di parte della parete e per i riadattamenti successivi.

La chiesa cristiana, che riutilizza parte degli ambienti del secondo nucleo (B1-B3), potrebbe nascere già intorno all’VIII-IX secolo, come sembrerebbe suggerire il contesto topografico, ma non è un dato certo. Dato sicuro è invece la frequentazione degli ambienti nel XIII-XV secolo, epoca in cui si collocano le testimonianze pittoriche, il cui pessimo stato di conservazione purtroppo non permette di precisare meglio questa datazione. Gli altri ambienti del complesso (C1-C3), che chiaramente non sono pertinenti alla chiesa rupestre, vengono riadattati probabilmente come abitazioni, e considerata la posizione del complesso (non facilmente accessibile e piuttosto isolato) non è improbabile che si sia trattato di un piccolo romitorio.

L’abbandono del complesso deve essere avvenuto negli ultimi tre secoli».

 

 

 

Chiesa rupestre Madonna del Parto (Sutri -VT-)

Nuovamente segue una sintesi della scheda approfondita ripresa da Le chiese rupestri del Lazio medievale (VI-XV sec.) da cui è stata riportata anche la cartina. Per chi volesse leggere la scheda nella sua versione integrale, ne rendiamo disponibile qui il pdf: Scheda Santa Maria del parto. Anche in questo caso condividiamo un video sull’ipogeo in oggetto dalla playlist Tuscia mistica del Canale Youtube di Viverealtrimenti.

«La bibliografia sulla chiesa della Madonna del Parto, che forse è la chiesa rupestre più nota del Lazio, è piuttosto vasta, ed estremamente dispersiva; per contro, le fonti letterarie e documentarie sono praticamente inesistenti. Dopo un lungo periodo di oblio, forse dovuto ad abbandono, forse al fatto che si trovava all’interno di una proprietà privata, la chiesa viene restaurata e riconsacrata nel 1738, ma le prime menzioni risalgono comunque al secolo successivo.

Nel 1836 viene pubblicato il Saggio storico sull’antichissima città di Sutri di Paolo Bondi, in cui l’ipogeo viene descritto per la prima volta; Bondi considera la Madonna del Parto una testimonianza della prima comunità cristiana di Sutri, che secondo la tradizione nasce già nel I-II secolo, e a sostegno della sua ipotesi menziona degli affreschi paleocristiani (ma in realtà medievali) all’interno dell’ipogeo. Le affermazioni di Bondi, generalmente imprecise e inattendibili, verranno poi riprese più o meno acriticamente in tutta la bibliografia successiva. Pochi anni dopo, nel 1848, George Dennis pubblica la prima edizione del suo The Cities and Cemeteries of Etruria (ho trovato il testo anche in versione pdf dunque per chi conosce l’inglese può scaricare il primo volume qui: The cities and cemeteries of Etruria, Vol. I ed il secondo qui: The Cities and Cemeteries of Etruria Vol. II , in cui viene per la prima volta formulata l’ipotesi che l’ipogeo si sviluppi a partire da una tomba etrusca.

Verso la metà del secolo l’ipogeo attira l’attenzione degli storici di architettura paleocristiana, ma più che altro come curiosità, senza affrontare uno studio completo del monumento.

Nel 1882 viene pubblicata per la prima volta una parte dello studio di Giuseppe Tomassetti sulla topografia storica della Campagna Romana (io ho trovato, on line, un’edizione del 1885 e considerato che parliamo di un grande classico per lo studio dei dintorni di Roma vi consiglio di scaricare il pdf da qui: Giuseppe Tomassetti Della campagna romana), in cui lo studioso ipotizza che la chiesa rupestre sia stata costruita dai Longobardi prima dell’XI secolo, teoria che avrà un certo successo in seguito.

Intorno al 1883 Angiolo Pasqui, nelle sue relazioni per la redazione della Carta Archeologica d’Italia, dà una breve descrizione della “chiesa di catacomba internata lungo la rupe del giardino Savorelli” (che data al VI sec. sulla base dei presunti affreschi paleocristiani) denominata Madonna del Pianto, e segnala anche tracce di abitazioni rupestri lungo la stessa rupe.

Nella monumentale Storia dell’antichissima città di Sutri di Ciro Nispi-Landi (altro testo fondamentale che, al pari degli altri citati abbiamo in versione tanto cartacea quanto digitale, per scaricare il pdf cliccare qui: Storia dell’antichissima città di Sutri), pubblicata qualche anno dopo, vengono riprese le teorie di Bondi, anche se corrette sulla base delle osservazioni di Antonio Nibby, contribuendo a diffondere l’idea di un’origine paleocristiana dell’ipogeo.

Ad Arthur Lincoln Frothingham dobbiamo il primo studio d’insieme dell’ipogeo, da lui visitato nel giugno del 1889. Frothingham considera la Madonna del Parto un esempio pressoché inalterato di chiesa paleocristiana, “a link between the oratories of the catacombs and the basilicas above ground”, e la data al IV-V secolo, anche sulla base di paralleli architettonici che oggi non possono più essere considerati validi.

Negli anni ’30 due studiosi, Pellegrino Claudio Sestieri e Franz Cumont, arrivano indipendentemente alla conclusione che l’aula cultuale in origine sia stata mitreo. Sestieri, che aveva trattato l’argomento nella sua tesi di laurea, pubblica le sue osservazioni in un brevissimo articolo del 1934, che qualche anno dopo viene segnalato a Cumont. Questo studioso, che già aveva formulato un’ipotesi simile e l’aveva comunicata alla Regia Soprintendenza, nel 1919 aveva anche scavato una sepoltura all’interno della chiesa, nell’ipotesi che potesse trattarsi della fossa sanguinis del mitreo originario. Solo qualche anno più tardi Cumont pubblica le sue osservazioni sulla struttura architettonica del Mitreo, riprendendo in buona parte le osservazioni di Sestieri e ipotizzando che un rilievo mitraico scoperto a Sutri nel 1896 provenga da questo complesso.

Nella seconda metà del secolo non vengono compiuti nuovi studi, e in generale vengono accettate le ipotesi esposte in passato: lo sviluppo di un mitreo del III secolo a partire da un sepolcro etrusco preesistente e la trasformazione in chiesa in età paleocristiana, oppure altomedievale, ad opera dei Longobardi.

Vanno però segnalati due importanti interventi quasi mai citati. Nel primo, un brevissimo studio di Henry Leclercq, viene tentata una prima lettura delle fasi di scavo dell’ipogeo, che qui viene considerato una chiesa paleocristiana di età precostantiniana. Il secondo è il corpus di monumenti mitraici di Vermaseren, in cui compare una breve scheda sull’ipogeo, oltre che sui rilievi mitraici rinvenuti a Sutri e nei dintorni. Solo nei resoconti delle ricognizioni della British School of Rome in Etruria Meridionale, condotte negli anni ’50, viene sottolineata l’incertezza delle interpretazioni proposte in passato, in particolare l’identificazione dell’ipogeo con uno specus mitraico.

Gli studi della Raspi Serra non aggiungono nuovi dati, sebbene qui venga riportata l’attenzione sui resti di strutture abitative all’esterno dell’ipogeo, già a suo tempo notate da Pasqui. Una breve rassegna delle ipotesi, dei problemi e della bibliografia inerenti la chiesa rupestre compare anche nell’opera di Fiocchi Nicolai sui cimiteri paleocristiani della Tuscia.

L’ultimo studio globale sull’ipogeo è l’analisi architettonica di Bruno Maria Apollonj Ghetti, le cui conclusioni però non possono essere del tutto accettate, in particolare gli argomenti da lui addotti per demolire l’ipotesi che la Madonna del Parto in origine sia stata un mitreo. In generale negli ultimi anni del ‘900 vengono pubblicati una serie di contributi minori, incentrati perlopiù sulla lettura e l’interpretazione globale delle pitture nell’ipogeo, oppure studi di carattere generale sul culto micaelico, in cui la Madonna del Parto viene citata come esempio, spesso con interessanti spunti interpretativi.

Nei primi anni ’90 l’ipogeo viene inserito nel Catasto delle Cavità Artificiali della Società Speleologica Italiana, e più volte citato in pubblicazioni a carattere speleologico, tutti lavori che comunque si limitano a riprendere i dati riportati nella bibliografia precedente.

Negli ultimi anni sono usciti due importanti volumi sulla storia e sulla topografia di Sutri in età paleocristiana e medievale, in cui la Madonna del Parto viene semplicemente citata, accennando appena ai problemi di interpretazione del complesso. Altre pubblicazioni recenti sugli apparati pittorici sono l’opera di Simone Piazza e un opuscolo pubblicato in occasione del restauro del 2009, in cui la ripulitura degli intonaci ha portato alla luce nuovi frammenti prima illeggibili.

Attualmente l’ipogeo, che si trova in un’area adibita a parco pubblico, è in ottime condizioni di conservazione, ed è visitabile su richiesta».

 

 

 

Santa Fortunata (Sutri -VT-)

Nuovamente segue una sintesi della scheda approfondita ripresa da Le chiese rupestri del Lazio medievale (VI-XV secolo) da cui è stata riportata anche la cartina. Per chi volesse leggere la scheda nella sua versione integrale, ne rendiamo disponibile qui il pdf: Scheda chiesa rupestre di Santa Fortunata. Anche in questo caso condividiamo un video sull’ipogeo in oggetto dalla playlist Tuscia mistica del Canale Youtube di Viverealtrimenti.

«La chiesa di S. Fortunata è tutto ciò che rimane di un complesso monastico molto più ampio, che comprendeva almeno altre due chiese e occupava parte del percorso dell’antica via Cassia. Gli ambienti ipogei si aprono alla base di un piccolo colle tufaceo (il mons Sanctae Fortunatae menzionato nelle fonti medievali), in località Pian Porciano.

La presenza del monastero ha pesantemente influenzato anche la toponomastica locale: oltre al mons Sancte Fortunate su cui sorge la chiesa rupestre, anche la valle antistante al colle è denominata vallis Sancte Fortunate, e così una strata, un ponte sul tracciato della Cassia e un mulino di proprietà dell’abbazia; alcuni di questi toponimi si ritrovano ancora nel Catasto Gregoriano del 1830.

L’esistenza di una ecclesia S. Fortunatae è ricordata da due documenti del 1023 dell’archivio del monastero dei Ss. Andrea e Gregorio in Clivus Scauri, ma la fondazione del monastero potrebbe rimontare tra la fine del X secolo e l’inizio di quello successivo. Gli archivi del monastero del Celio hanno conservato una documentazione molto abbondante sul monastero di S. Fortunata, che sopravvive fino alla metà del XV secolo aumentando gradualmente i suoi possedimenti nell’area, che per tutta l’età medievale è occupata prevalentemente da mulini e industrie tessili.

Ma il monastero è anche parte di una rete di monasteri nel suburbio di Sutri, strutture di assistenza ai pellegrini che si sviluppa in relazione alla Via Francigena, e si dissolve con il XVI secolo, quando Sutri rimane tagliata fuori dalle vie di transito principali dell’alto Lazio. Il suburbio di Sutri si spopola gradualmente, diviene un’area a popolamento rurale sparso, situazione che perdura fino ad oggi.

Il complesso di S. Fortunata consta di una serie di ambienti di diversa origine: ipogei funerari di età etrusca, o più probabilmente romana, murature e escavazioni pertinenti alla chiesa medievale (sulle quali in parte insistono le strutture di una chiesetta in muratura moderna) e altri interventi minori molto recenti. Sia la chiesa rupestre che la chiesa moderna sono orientati a NE-SO.

La chiesetta moderna è un semplice edificio mononave a pianta quadrangolare, con facciata a capanna e copertura a capriate. Al centro della facciata si apre l’unico ingresso, e sui lati si trovano due finestre quadrate protette da inferriate. L’interno è completamente spoglio, a eccezione dell’altare sulla parete di fondo.

Davanti alla chiesa moderna, e a destra del muro E della stessa, rimangono tracce di un basso muretto composto di due filari di blocchetti di tufo sbozzati, forse i resti del perimetro esterno della chiesa medievale.

La grande abbondanza di fonti documentarie permette di datare in modo abbastanza preciso le fasi di frequentazione e di abbandono della chiesa medievale, mentre non si riescono agevolmente a distinguere le diverse fasi di escavazione, né a collegarle a fasi ben precise.

L’insieme degli ambienti ipogei si sviluppa a partire da un piccolo sepolcreto, di cui però rimangono tracce molto scarse.

L’unico elemento che forse permetterebbe di datare questo primo impianto è un’epigrafe sepolcrale romana che fino al XVI secolo era conservata nella chiesa, ma non c’è certezza che provenga proprio dalla chiesa.

In passato la chiesa di S. Fortunata è stata datata al periodo paleocristiano, senza però addurre motivazioni valide: così Nispi-Landi riteneva che fosse stata costruita nel I-II secolo dalla prima comunità cristiana di Sutri, mentre Pacifico Chiricozzi, autore de Le chiese delle diocesi di Sutri e Nepi nella Tuscia meridionale, ne riporta la fondazione al V secolo e la attribuisce ad una comunità di anacoreti siro-palestinesi. Una al V-VI sec., è stata avanzata anche da Giuseppe Finocchio, autore di vari contributi sulla Tuscia.

I primi redattori della Carta Archeologica d’Italia avevano datato la chiesa al IX o al X secolo, senza però specificare su quali basi. Anche la Raspi Serra ha proposto una datazione all’VIII-IX secolo sulla base di un capitello conservato all’interno della chiesa moderna, ma, trattandosi di un reperto erratico, neanche questa ipotesi non può essere accettata.

La prima menzione di una ecclesia Sanctae Fortunatae e di una cella annessa si trova in due documenti dell’archivio del monastero romano dei Ss. Andrea e Gregorio al Celio, entrambi datati al 1023, ma è possibile che il monastero di S. Fortunata sia stato fondato anche prima, poiché già nel 983 lo stesso monastero celimontano aveva acquisito ampi territori nella zona. Questo permette di collocare la fondazione del cenobio tra la fine del X secolo e l’inizio del secolo successivo.

Rimane problematica anche l’intitolazione a S. Fortunata, una martire della Campania venerata a Liternum, oppure, che una più tarda tradizione agiografica confonde con una martire palestinese.

In realtà nella Passio Gratiliani et Felicissimae, martiri venerati a Falerii Veteres, compare un altro personaggio con questo nome, il che porterebbe ad ipotizzare che al culto di una martire della Tuscia si sia sovrapposto quello della martire campana, legato in particolar modo alla protezione delle partorienti. Quello che è certo è che il culto della santa è legato a una sorgente d’acqua miracolosa più volte citata nelle fonti. In particolare la visita apostolica del 1574 ricorda l’usanza di raccogliere l’acqua, mescolarla al vino e farla bere alle partorienti, usanza che in quella occasione viene formalmente vietata, ma che è ancora attestata a fine XIX secolo.

Le fonti documentarie e le cronologie degli affreschi confermano che il cenobio, che fino alla sua fine rimarrà legato al monastero celimontano, è frequentato ininterrottamente dall’XI al XIV secolo, mentre nel secolo successivo risulta in rovina. La maggioranza dei documenti che si riferiscono al cenobio (poco meno di una ventina) non accenna minimamente alle vicende edilizie della chiesa; fanno eccezione un documento del 1152, che ricorda la presenza di un campanile, e di un altro del 1223, in cui viene specificato che il murus claustri si trova in corrispondenza della Via Nepesina.

Purtroppo di queste strutture non rimane traccia alcuna, né può essere chiarito il loro rapporto con le strutture ancora esistenti della chiesa rupestre, la cui ricostruzione pone numerosi problemi. Anche se tutte le ipotesi concordano sul fatto che doveva trattarsi di un edificio semirupestre completato in muratura, la complessità degli ambienti, la disomogeneità delle strutture murarie e la totale assenza di tracce di copertura impedisce al momento una ricostruzione sicura».

 

 

Santa Maria ad Rupes (Castel Sant’Elia-VT-)

 

Abbiamo presentato il Santuario e la grotta di Santa Maria ad Rupes in due post precedenti di questa serie, cui rimandiamo per evitare ripetizioni:

Tuscia mistica, terza parte

Tuscia mistica, quarta parte

 

 

Con questo post abbiamo offerto un primo inventario presentando questi primi sei ipogei nella maniera il più possibile esaustiva ed offrendo al lettore alcuni opportuni strumenti di approfondimento (anche in vista di sopralluoghi e visite di persona).

Per dirla con un’espressione-slogan del maggio francese: ce n’est qu’un début! Siamo solo agli inizi! La Tuscia infatti è molto ricca di vestigia simili a quelle che abbiamo appena presentato. Continueremo ad inventariarle nei due post successivi per poi lasciare spazio, nell’ultimo post della serie (che ne vorrebbe includere dieci), ad alcune considerazioni di natura interpretativa.

Spero che avrete la pazienza di seguirci fino in fondo!

 

 

Indice dei post precedenti

 

Tuscia mistica

Tuscia mistica, seconda parte

Tuscia mistica, terza parte

Tuscia mistica, quarta parte

Tuscia mistica, quinta parte

Tuscia mistica, sesta parte

 

 

Manuel Olivares