Varanasi tra mito e realtà
Tra le popolazioni discendenti dagli enigmatici indoeuropei si è creata presto una divisione significativa: quelle che tendevano a ragionare in termini storici (primi fra tutti i romani) e quelle che tendevano a ragionare in termini mitici (gli indiani). Varanasi, nello stato dell’Uttar Pradesh, è ancora oggi un paradigma della cultura indiana tradizionale — in cui il mito si fa storia, geografia e legge — nonché delle contraddizioni dell’India contemporanea.
Trovo che arrivare a Varanasi sia un po’ “incontrare l’India a viso aperto”.
La città (1200000 abitanti circa) sintetizza ed amplifica gran parte degli stereotipi, positivi e negativi, che l’Occidente alimenta riguardo una civiltà così diversa, da cui è da sempre ammaliato ed atterrito.
L’impatto con Varanasi coinvolge tutti i sensi; all’uscita del piccolo aeroporto la vicinanza degli indiani colpisce subito l’olfatto con l’aromatico odore di betel, che viene masticato buona parte del giorno da gran parte della popolazione.
La luce del sole è quasi accecante ed il calore sulla pelle (più o meno intenso a seconda del periodo) può essere confortante o insopportabile.
Nel momento in cui si sale su un taxi per raggiungere la città ha inizio un’avventura che nessuno potrebbe definire banale.
Protagonisti ancora gli odori: di letame, date le tante mucche, di spazzatura e di combustibili di bassa qualità ma anche di incenso, che fuoriesce furtivo da qualche bottega — o, più facilmente, da piccoli o grandi templi — e di fiori per le offerte religiose.
Protagonisti anche i suoni, primi tra tutti i clacson — usati senza risparmio per segnalare sorpassi al di là di ogni norma del codice della strada — i campanelli delle tante biciclette e dei rickshaw a pedali ma anche le campane delle puja, ancora all’uscita dei templi che punteggiano la città ed il vociare di un popolo che vive per buona parte della giornata in strada.
Altri protagonisti i colori, da quelli della frutta esposta sui carretti, ai tanti che vivacizzano i cumuli di spazzatura o a quelli delle montagnole di polveri sacre — rosse, gialle o arancione — usate per segnare il tilak sulla fronte (all’altezza del terzo occhio), fino ai colori sommessi dei sari delle donne o allo stesso colore della strada — con le sfumature gialle e rossastre di una terra che non risparmia la città —, acceso dai forti raggi del sole.
Nell’insieme, la sensazione è di caos e congestione e umanità addensata e sporcizia e di un modo di vivere a proprio agio tipicamente orientale.
Varanasi oltre il tempo profano
In termini storiografici le origini di Varanasi sono alquanto fumose. L’archeologia le colloca intorno all’ottavo o sesto secolo avanti Cristo, facendone, accanto a Gerusalemme, Atene e Pechino, una delle città “viventi” più antiche del mondo. Nell’ambito della cultura tradizionale indiana, tuttavia — e qui si fa strada la divisione significativa di cui si parlava in apertura —, Varanasi ha una “reale” origine mitica. Stando ad un testo della letteratura puranica, lo Skanda Purana, c’era un tempo in cui la sola terra ferma, nell’universo, era Kashi (nome antico di Varanasi).
La città viene dunque presentata come il punto da cui avrebbe avuto origine l’intera creazione, quindi le coordinate dello spazio — avendo avuto inizio in essa le otto direzioni — e che contiene le tante variabili astrologiche del tempo, nel momento in cui i giorni ed i mesi del calendario, lunare e solare, sono presidiati da divinità che hanno tutte, qui, una propria collocazione.
In altre parole, nella lettura mitica, Varanasi è stato il centro propulsivo da cui ha preso forma l’universo, la matrice prima e di conseguenza, stando a quanto si trova scritto sullo Skanda Purana e sul Brahmavaivarta Purana, “tutto ciò che sulla terra è potente ed auspicabile è anche qui”, nel microcosmo di Varanasi; un “ologramma del mondo”.
Allo stesso tempo la città, nella visione hindu, non è di questa terra, pur costituendone il centro.
In realtà la città autentica è sulla punta del tridente del suo signore e protettore: Shiva e quella che possiamo visitare e vivere noi mortali ne è semplicemente la proiezione terrena.
Varanasi non può dunque essere coinvolta nei cicli universali di creazione e distruzione della tradizione hindu e quando le mitiche acque della pralaya, della distruzione ciclica del cosmo, sommergono tutto ciò che vive sotto il sole, non ne possono toccare i confini.
Allo stesso tempo Varanasi — almeno la sua zona sacra compresa tra i fiumi Varana, Asi (affluenti del Gange) ed il Gange stesso — è concepita come un enorme linga (simbolo fallico) di luce, costituendo un punto focale nel santuario dell’intero universo.
Ancora una volta, dunque, la natura autentica della città sfugge ad occhi profani.
Non solo, ancora da un punto di vista mitico è piuttosto diffusa la credenza che essa sia il reale corpo di Shiva ed i fiumi Varana ed Asi ne costituiscano i due canali energetici principali: Ida e Pingala.
Varanasi ad occhi profani
Ad occhi profani Varanasi si presenta come una delle città più sporche dell’India.
Le sue strade sono particolarmente disagevoli ed intasate, il più delle volte, da un traffico caotico — in tutta la città non c’è nemmeno un semaforo — e spaventosamente inquinante.
I conducenti di rickshaw sono una delle categorie più sfortunate, dovendo pedalare tutto il giorno tra il frastuono dei clacson, odori di scanalature di fogna a cielo aperto, orinatoi e immondizia e, soprattutto, riempiendo i polmoni di un’aria quasi irrespirabile.
Un po’ più sane possono essere le passeggiate sui camminatoi a margine del Gange (i famosi Ganga ghats).
All’alba ed al tramonto lo spettacolo è di una rara suggestione, sospeso fuori del tempo ordinario. La realtà dei ghats, difatti, non è oggi particolarmente diversa da come poteva essere 200 o 2000 anni fa. Ancora si bruciano i defunti con la stessa conoscenza e gli stessi gesti sapienti, antichi di millenni, gestendo le pire guizzanti con lunghe canne di bambù.
Centinaia, migliaia di devoti ancora prendono un bagno sacro, alle prime ore del giorno, nella “madre Ganga”, compiendo un atto che la maggior parte degli occidentali tende a considerare temerario dato il colore delle acque.
Allo stesso tempo, Varanasi ha avuto una storica rilevanza, in India, per essere la città del “buon vivere”, della cultura oltre che della soteriologia (morire a Varanasi, difatti, è considerata da sempre una somma benedizione; libererebbe dal samsara, dal ciclo delle nascite, morti e rinascite e per questo è stata da sempre meta di pellegrinaggi).
A Varanasi ha dunque sede una delle più prestigiose università indiane: la BHU (Benares Hindu University) — che conta tra i suoi studenti anche diversi occidentali —, hanno luogo concerti di “musica classica” indiana e non manca una buona offerta di corsi di yoga, massaggio ayurvedico, canto e, naturalmente, di buone librerie.
Insomma, accettando di viverla a cavallo tra mito e realtà, sono tante le ragioni per concedersi alcuni giorni a Varanasi, una città che conserva ancora riverberi del suo passato florido — in cui ospitò a lungo personaggi del calibro di Buddha, Kabir e Shankara — pur nell’inevitabile “corruzione del Kali-Yuga”.