Srinagar…in quel che resta della “terra dai fiumi di latte e miele”.

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Il guidatore sta parlando al cellulare. Viaggia a circa 60 chilometri all’ora e la strada è quasi del tutto sgombra. Solo di rado baluginano, di passaggio, un paio di fari dietro di noi o, cosa un minimo più preoccupante, nella direzione opposta alla nostra, nell’assenza quasi totale del rispetto delle norme sulla corsia da tenere. Sono le undici passate. È freddo-umido. Accendo il riscaldamento della jeep. Lascio che il guidatore continui la sua conversazione con la fidanzata, credo ne abbia, in qualche modo, il diritto, per quanto anche io avrei diritto di arrivare ad un orario decente, a Srinagar.
Lascio passare ancora qualche minuto poi, in maniera educata ma decisa, lo sollecito e lui aumenta, di poco, la velocità.
Sono ― forse incautamente — tranquillo che, pur arrivando dopo la mezzanotte, possa trovare gli alberghi aperti in città.
Giungiamo ad un posto di blocco. Ai lati della strada due cabinotti occupati da soldati, di fianco fili spinati e sacchi di sabbia. Due militari, fucili alla mano, ci fanno accostare. Richiedono i documenti. Siamo in 4 nella jeep. Io davanti, vicino al romantico guidatore barbuto. Dietro un ragazzo più barbuto, vestito in abito tradizionale kashmiro ed un giovane sikh. Superiamo il posto di blocco ed iniziamo ad inoltrarci nella remota periferia della città. In strada solo cani, solitari o in branchi ululanti, talvolta litigiosi e militari. Molti militari: tute mimetiche, barbe lunghe, espressioni dure, indurite, forgiate. Almeno in coppia o, a loro volta, in piccoli “branchi”. Dividono con i cani la notte di Srinagar.
Chiedo al guidatore di portarmi all’hotel Paradise, sul boulevard, di fronte al Dal Lake, il lago su cui galleggiano le celebri houseboats. Lui acconsente ma non sa bene dove si trovi. Per fortuna intervengono gli altri due ospiti della jeep, dando le opportune spiegazioni. Giungiamo dunque, solleciti, all’hotel. È drammaticamente chiuso. Busso forte ma non c’è niente da fare. «Gli hotel a quest’ora sono chiusi a Srinagar», mi dice il guidatore. Ho imparato a diffidare di quel che dicono gli indiani. È quasi impossibile siano disinteressati. Al momento di pagare il mio viaggio in jeep, a Jammu, circa 300 chilometri a sud di Srinagar, il boss dell’agenzia mi aveva fatto pressione perché prenotassi una stanza in un’houseboat. «Solo 300 rupie», mi diceva, «inclusa la prima colazione». Non avevo, tuttavia, intenzione di stare in un’houseboat. Mi ero documentato ed informato ed avevo concluso fosse il caso di stare in albergo per diverse ragioni. In primo luogo perché nelle houseboats ristagna parecchia umidità. In secondo luogo perché non sono del tutto sicure sul fronte dei furti, ahimè alquanto frequenti in India. In terzo luogo perché non danno autonomia di spostamento. Essendo più o meno distanti dalla riva, infatti, per arrivare in città è necessario essere accompagnati in barca da uno dei membri dell’equipaggio. In ultimo, è notorio che i proprietari delle houseboats siano particolarmente assillanti ed avidi di denaro che cercano di estorcere, con ogni pretesto, ai clienti. Ovvio che ogni generalizzazione sia fallace e che queste considerazioni siano soprattutto valide nelle circostanze più economiche, con un servizio di minore qualità. Esistono difatti anche houseboats “a 5 stelle”, probabilmente perfette per una coppia in viaggio romantico. Sia come sia gli alberghi, ho modo di verificare attraverso diversi tentativi, sono effettivamente chiusi a quest’ora. È passata da poco la mezzanotte, non è dunque un orario impossibile ma nessuno risponde al mio insistente bussare. Non mi resta che accettare l’offerta di stare in un’houseboat “convenzionata” che mi ha fatto il guidatore, almeno per questa prima notte. Ci avviciniamo ad un piccolo molo del Dal Lake, in attesa arrivi il mio ospite, prontamente contattato al cellulare. Arriva in una piccola barca; un’ombra nella notte fiocamente illuminata. Arriva con il suo lavorante che pagaia energicamente. Arriva fumando una sigaretta d’erba. È vestito sommessamente, con un kurta pajami (del tutto simile ad un nostro pigiama; è un tradizionale abito maschile indiano, con varianti regionali) color salmone ed un modesto giubbotto. Mi saluta amichevole, ruffiano. Passa la sigaretta al guidatore che la passerà ad un perditempo sul molo. Il guidatore mi ha accennato che la tariffa è di 500 rupie per quanto a Jammu si parlasse di 300. L’importante è che il mio ospite non voglia approfittare della situazione, raddoppiando ancora la tariffa. Dunque lo anticipo, per avere un minimo di vantaggio nella contrattazione: «a Jammu mi hanno parlato di una sistemazione, in houseboat, per 300 rupie». «No Sir», risponde prontamente, «sarebbero almeno 600».
Lo interrompo subito: «mi hanno detto 300 ma te ne do 500 e non se ne parla più, colazione inclusa!».
«D’accordo, Sir!».
Sono riuscito a bluffare, ad ostentare la sicurezza di chi ha un buon potere negoziale mentre, in realtà, il vantaggio sarebbe tutto suo, di Raj, perché in alternativa alla sua houseboat potrei davvero rischiare di dormire all’addiaccio, nel coprifuoco di Srinagar.
Sono cose che si imparano in India: grande palestra di vita e, talora, vera scuola di sopravvivenza.
La questione economica è quasi marginale in queste situazioni: si lotta per preservare la propria energia vitale, a rischio di essere vampirizzata.
Salgo sulla barca, precarissima, misera; in realtà è più una vecchia canoa.
Jarim pagaia sulla superficie melmosa del Dal Lake, si disimpegna tra le tante houseboats, pseudoaristocratiche e macilente, con verandine di legno intarsiato, qualche lampadario pretenzioso visibile, a spezzoni, dalle poche finestre aperte. Arriviamo alla houseboat di Raj. Dentro è molto calda, molto kashmira, con basse poltrone di legno intarsiato e lucido e cuscini color amaranto, un divano vagamente simile ad un nostro triclinio ed una bella scrivania, ancora in legno lucido ed intarsiato. In terra, un enorme tappeto di cotone e materiale sintetico, dai colori e motivi piacevolmente sobri.
Le pareti, sempre in legno, sono invece nude, eccezion fatta per un piccolo tappeto, di seta, appeso a mo’ di batik.
Jarim mi serve tè kashmiro su di un vassoio in modesto legno intarsiato. Raj cerca di vendermi un itinerario in città, per il giorno dopo: appena 500 rupie e cerca di suggestionarmi con l’ipotesi di una gita a Bandipur, un villaggio dove avrebbe vissuto Gesù, un certo periodo di tempo e dove sarebbe possibile visitare, ancora oggi, la grotta dove pregava e meditava.
In verità, l’ipotesi suggestiva del passaggio di Gesù in Kashmir è uno dei motivi che mi ha spinto fino a qui. Ad ogni modo, non amo essere tampinato, finisco il mio tè e mi ritiro in stanza. L’arredamento è modestamente in linea con quello della grande living room. Nel letto non ci sono lenzuola, solo vecchie coperte. Ho modo di svegliarmi un paio di volte di soprassalto, di notte, per il freddo-umido penetrante. Le coperte sono intrise di polvere. Probabilmente nel bagno non c’è acqua calda. Insomma, accanto all’invadenza di Raj, ho più di un motivo per pensare di rimanere appena una notte. L’indomani mattina esco sulla veranda. Nel giro di un quarto d’ora si fermano 4-5 barcaioli che insistono per vendermi fiori, bibite, cianfrusaglia d’artigianato, vestiti. Insopportabili!
Comunico a Raj le mie intenzioni. Lui cerca di ostentare distacco e di dimostrarmi che non ha alcuna obiezione al riguardo. Tuttavia, come può, inizia: «cosa c’è che non va, Sir, dimmi!».
Taglio corto, come sono oramai abituato a fare vivendo da quasi 4 anni in questo paese: «ho bisogno di stare in albergo, per cortesia, non insistere!».
«D’accordo, Sir» e, tuttavia, non si da per vinto: «dunque ora, in mattinata, andiamo a fare un bel giro in città, come si diceva ieri, poi possiamo pranzare qui e, con comodo, nel pomeriggio, ti accompagno in albergo!».
È chiaro dove voglia andare a parare; cerca di tirarla per le lunghe e riuscire ad arrivare, almeno, al principio di serata per poi insinuare: «Sir, sei stanco, dormi qui ancora una notte, in albergo puoi sempre andare domani!».
Volendo essere padrone dei miei programmi, del mio tempo, della mia vita ribatto: «ora andiamo in albergo, mi lavo, mi sistemo, mi sbarbo e poi vediamo!».
«D’accordo Sir, come vuoi, ma prima lascia che ti faccia un’altra proposta ragionevole: puoi darmi appena 400 rupie a notte, ti do una stanza migliore e, oltre alla colazione, possiamo includere la cena».
Io ho avuto l’accortezza di disporre i bagagli nella verandina e ribatto un po’ seccato: «insomma, andiamo o no?!».
«Va bene Sir ma, vedi, è bassa stagione, si guadagna poco, ho bisogno di soldi, non puoi proprio aiutarmi?».
«No, mi dispiace!».
Saliamo, nuovamente, nella scialuppa. Jarim pagaia nelle acque melmose, ora alla luce del sole, del Dal Lake. Le altre houseboats, che dovrebbero rappresentare l’attrazione romantica di Srinagar, sono spesso bagnarole male in arnese dove brulica, sommessa, un’umanità grossomodo diseredata, sconfitta. Il contesto generale è semimarcescente, malgrado il lavoro indolente ed inadeguato di ragazzi ― quasi a mollo su canoe schiacciate dal peso di montagnole di alghe morte — che cercano di ripulire, almeno in parte, la superficie lacustre.
Trovo un buon albergo sul boulevard, a due passi dal Dal Lake. Il pomeriggio sono in un tuk tuk, taxi a tre ruote simili alle nostre ape-car. Vicino a me Fisa, la figlia di quattro anni di Raj e Raj.
La prima tappa è sulla collina di Shankaracharya, celebre filosofo indiano teorico del Vedanta che ha vissuto qui un periodo di profonda ed ispirante ascesi. Sulla collina è stato costruito un tempio hindu, uno dei pochi in questa regione quasi integralmente musulmana.
Andiamo, poi, nei celebri giardini Moghul (invasori musulmani che avevano fatto di Srinagar la loro residenza estiva), con reti di canali aritificiali, simili a quelli del più celebre Forte Rosso di Delhi, con un bel tripudio di grandi fiori colorati, alberi giovani e maturi. Visitiamo un paio di moschee. Nella prima, Hazratbal Mosque, Raj si ferma a pregare. Io ne approfitto per godere del vicino mercato (ho sempre avuto un debole per la vitalità dei marcati di quartiere), assaggiare ed apprezzare prodotti di forno, particolarmente gustosi a Srinagar ed altre specialità locali di strada, ad esempio i gambi di fiori di loto, impanati e fritti.
Mi porto da mangiare nel giardino, sul lago, della moschea. Qualcuno mi guarda sommessamente ostile e scopro presto perché: siamo nel mese di Ramadan, in cui i musulmani digiunano fino alle sette di sera. Recupero Raj e Fisa e, dopo poco, siamo nuovamente sul tuk tuk alla volta dell’austera ed affollata Jama Majid, la moschea principale della città. Fuori ci sono molti mendicanti, alcuni gravemente malati, lebbrosi, mutilati, venditori di intrugli unti e speziati. Il tutto rende l’aria pesante e dunque ripartiamo presto, per la tappa privilegiata: Rozabal.
È un santuario, nella città vecchia di Srinagar; forse l’area più pericolosa per l’alto numero di irredentisti kashmiri che vi si sono asserragliati dando vita ad episodi di guerriglia con i tanti militari di presidio.
Nel modesto santuario riposano due santi: Syed Nasir-Ud-Din (nella tomba più piccola) e Hazrat Yousa Asif, Sant’Issa, Isha. Varianti diverse di un solo nome ebraico ― Joshua — che non è rimasto inalterato nemmeno nelle terre che ne rivendicano l’appartenenza: Jesu, Jésus, Jesus, Gesù.
Gesù sarebbe dunque seppellito a Srinagar, per quanto la cosa non piaccia assolutamente alla chiesa cattolica e non entusiasmi nemmeno le autorità ortodosse musulmane che non vogliono, qui, pellegrinaggi di invasati new-agers, a confondere le idee ad una popolazione sufficientemente piegata da una guerra civile oramai quiescente che, tuttavia, non manca di deflagrare in sporadici, drammatici momenti. Ma che senso avrebbe la tomba di Gesù qui a Srinagar? È una lunga e complessa storia. Ne ho avuto un primo assaggio a Roma, diversi anni or sono. In una libreria un po’ sui generis (La Libreria delle Occasioni di Via Merulana) trovai un libro di Maria Fida Hassnain, musulmano sufi, storico kashmiro, ex direttore del Museo delle Antichità dello Stato di Jammu e Kashmir e degli Archivi Nazionali kashmiri: Sulle tracce di Gesù l’esseno. Ricordo che lo divorai in pochi giorni.

 

Gesù in India

Esponendo in breve l’affascinante ricostruzione del libro di Hassnain, questi sostiene di aver scoperto, dopo una decennale ricerca partita dallo stato indiano del Ladakh, alcune prove sugli “anni perduti” di Gesù (quelli di cui non si fa menzione nei vangeli) che ne ridefiniscono la figura nei termini di un viaggiatore e profeta universale.
Hassnain cita il giornalista-scrittore Nicolas Notovitch, nato in Crimea nel 1858 e giunto in India nel 1887 e, di lì, in Ladakh, regione conosciuta come “il piccolo Tibet” e costellata di monasteri buddhisti (gompa). Visitando alcuni di questi raccolse testimonianze particolarmente interessanti riguardo il nesso che i lama identificavano tra la figura di Gesù ed il buddismo. Gesù, conosciuto come Issa, veniva comunemente considerato, nei monasteri ladakhi, un’incarnazione di Buddha. In virtù di alcune testimonianze testuali ed iconografiche, inoltre, si poteva legittimamente pensare che avesse vissuto parecchi anni in India.
La più importante scoperta di Notovitch, infatti, fu che, riguardo a “Buddha Issa”, vi era una ricca documentazione in manoscritti.
Questi erano stati redatti in varie copie, alcune delle quali traduzioni in tibetano dalla versione originale in pali, custoditi in diversi monasteri buddhisti in Tibet e nello stesso Ladakh.
Forzato a rimanere a lungo nel monastero ladakho di Hemis per una frattura ad una gamba, Notovitch riuscì ad avere accesso a diversi manoscritti, che gli furono direttamente tradotti dal lama di cui era, in quel momento, ospite.
La pubblicazione del suo libro ― La vita sconosciuta di Sant Issa (traduzione mia; il libro venne pubblicato prima in francese, con il titolo La vie inconnue de Saint Issa, nel 1890 poi in inglese –The Unknown Life of Christ-, nel 1895) — non fu, naturalmente, priva di conseguenze e da diversi ambienti cattolici giunse una pubblica accusa di contraffazione e di frode.
Hassnain riporta però che già prima di Notovitch un funzionario della Compagnia delle Indie Orientali, il persiano Meer Izzut-Oolah, dopo aver visitato, nel 1812, il Ladakh, parlò di raffigurazioni di Gesù nei monasteri buddhisti e alluse ai manoscritti.
Riporta inoltre che nel 1922 Swami Abhedananda, discepolo di Ramakrishna, avrebbe visitato il monastero di Hemis, consultato i rotoli e confermato quanto aveva scritto Notovitch più di vent’anni addietro.
Le testimonianze di Notovitch, Abhedananda e di altre due persone (un professore ed una ricercatrice) che si misero sulle tracce dei manoscritti su sant Issa, sono state raccolte da Elizabeth Clare Prophet in The lost years of Jesus (Malibu, USA, 1984).
Da queste ricerche incrociate emergerebbe in dettaglio che Gesù, partito dalla Palestina appena dodicenne, compì un pellegrinaggio di 17 anni in India, nel corso dei quali si aprì, da discepolo, agli insegnamenti del Buddha e, allo stesso tempo, predicò come un maestro.
Consideriamo ora, brevemente, i diversi momenti della ricostruzione di Hassnain ― realizzata sulla base dei testi citati e di rari documenti — a partire dal concepimento. Al riguardo il professore cita la “versione essena”, ricavata dalla traduzione di un manoscritto latino di proprietà della massoneria tedesca, pubblicato inizialmente nel 1873, poi boicottato al punto che ne rimase una sola copia. Da questa venne ricavata una nuova edizione nel 1907 con il titolo The Crucifixion by An Eye-Witness (Indo-American Book Co., Chicago, 1907).
Il testimone oculare cui si fa cenno nel titolo era un esseno. Questi, scrivendo ad un fratello alessandrino dopo appena 7 anni dalla crocifissione, afferma che Gesù venne cresciuto dalla sua confraternita. Scrive inoltre che la confraternita si fece carico della “sacra famiglia” durante la fuga in Egitto a seguito della persecuzione erodiana.
Della permanenza di Gesù con i propri genitori in terra egiziana parlano il Vangelo secondo Matteo ed alcuni testi apocrifi che, più circostanziati, menzionano diversi monasteri ― gestiti, sostiene Hassnain, da esseni — in cui i 3 vennero ospitati.
Date alcune caratteristiche della setta presentate da Giuseppe Flavio, tra le quali la non-violenza ― che tuttavia stride con l’immagine che si ha dai rotoli di Qumran, in particolare dalla Regola della guerra dei figli della luce contro i figli delle tenebre (al riguardo può essere illuminante quanto scrive il grande storico delle religioni Mircea Eliade: “i membri della comunità si astenevano dal matrimonio perché si consideravano tutti come dei soldati nella guerra santa”) — Hassnain ritiene sia lecito pensare che la matrice prima dell’essenismo, nell’Egitto in cui giunsero i missionari del celebre imperatore indiano, buddista, Aśoka (304 BC – 232 BC), fosse il buddhismo.
Diversi autori sostengono siano esistite confraternite essene in Egitto ma nei settori più accreditati della storia delle religioni l’essenismo si circoscrive generalmente alla Palestina mentre in Egitto si accetterebbe l’esistenza, nello stesso periodo storico, dei terapeuti, simili agli esseni ma con una propria, autonoma, identità.
L’Egitto del periodo in cui visse Gesù, del resto, è una terra che si presta particolarmente bene a molte ipotesi di sincretismo religioso.
L’antica Alessandria, difatti, era un centro di confluenza delle più importanti correnti di pensiero dell’epoca, come testimoniava del resto la sua ricchissima biblioteca, distrutta nel 270 o nel 400 d.C.
Venendo ad un nucleo fondamentale della ricostruzione dell’autore kashmiro, sia il libro di Notovitch sia un Sutra intitolato Natha Namavali affermerebbero che Gesù, appena tredicenne, partì per l’India. Del resto, sembra che vie che collegavano il Medio-Oriente all’India fossero percorse già prima di Alessandro Magno e che, comunque, questi percorse sicuramente piste comunemente battute nel 326 a.C. circa.
Stando alla ricostruzione di Hassnain, in India Gesù venne in contatto con i jainisti, fu iniziato alla lettura dei Veda e visse con monaci buddhisti in Nepal. Dopo pochi anni venne considerato, nel mondo buddhista nepalese, un bodhisattva.
Sulla via del ritorno si fermò per un certo periodo in Persia.
Continuando a seguire Hassnain, di ritorno dai suoi viaggi in Oriente Gesù avrebbe anche visitato la Gran Bretagna, come attesterebbe nientemeno che una missiva di S. Agostino a Papa Gregorio Magno. Da questa emergerebbe che Gesù avrebbe fondato un tempio a Glastonbury, località il cui nome ricorre nei filoni di studio legati alla tradizione ed al mistero del sacro Graal, cui avrebbe attinto il nostro contemporaneo Dan Brown per il suo best-seller Il codice da Vinci.
Hassnain sostiene che Gesù ebbe come meta la Gran Bretagna (probabilmente intorno al 26-27 d.C.) per accostarsi ad alcuni segreti del druidismo, particolarmente fiorente in quel periodo storico.
Venendo ora a considerare non più “gli anni perduti di Gesù” ma il mistero della morte e della resurrezione, Hassnain cita l’accesa quérelle sulla sindone, oggetto di numerose indagini scientifiche spesse volte oscurate e denigrate dalla chiesa cattolica. Del resto, ci troveremmo sicuramente di fronte ad una rivoluzione nella storia della cristianità se venisse dimostrato che il lenzuolo conservato a Torino avvolse un corpo vivo e non uno morto.
Senza voler entrare troppo in argomento mi limito a riportare, sulla scorta di Hassnain, che dall’analisi delle macchie di sangue sindonico sarebbe risultata l’esistenza di bordi di siero, dunque di fibrina attiva nel liquido defluito, impossibile a trovarsi in quello post-mortem.
Naturalmente Hassnain caldeggia l’ipotesi che si può evincere da questo genere di considerazioni, aprendo nuovi scenari sulla storia di Gesù.
Esiste difatti una vasta letteratura sugli anni successivi all’esperienza ― non letale — della crocifissione, in cui rientra la versione essena dell’esito del supplizio presente sul già citato The crucifixion by an eye witness.
Stando a quanto si legge su questo documento, Gesù, deposto dalla croce con le funzioni vitali quasi impercettibili e tuttavia ancora attive, venne affidato ― come confermato dal Vangelo di Giovanni — a Giuseppe di Arimatea e a Nicodemo, entrambi membri ― e qui siamo già in presenza di una “deviazione eretica” — della confraternita del “testimone oculare”. Giuseppe e Nicodemo, in possesso di fondamentali cognizioni mediche, utilizzarono aromi e balsami con grandi poteri di guarigione, per poi affidare il corpo al sepolcro. Dopo tre giorni lo ritrovarono in condizioni migliori e lo condussero in una casa dell’ordine.
Hassnain cita il Vangelo di Giovanni ― in cui si dice che i due erano sul Golgota avendo con sé del lino fine, mirra ed Aloe — ed il Vangelo di Luca ― dove si accenna ugualmente ad aromi e unguenti nelle loro sacche — come ipotetiche conferme della versione essena.
Del resto, ipotesi o certezze della sopravvivenza di Gesù alla croce si possono anche ritrovare in ambito islamico (oltre che gnostico e manicheo). Seguendo ancora il discorso di Hassnain, lo storico Abu Huraira, in una raccolta di detti ed insegnamenti del Santo Profeta pubblicata nel 1836 con il titolo Kanz-ul-Aimal, scrive che, dopo essere stato salvato, Gesù avrebbe vissuto una particolare odissea sotto la guida e la tutela di Allah.
Volendo ora citare la fonte islamica più autorevole ― Il Corano — alla sura 4, versetti 157-158, recita come segue:

E quando dicono: “Abbiamo ucciso il Messia, Gesù, figlio di Maria, messaggero di Allah” e non lo hanno ucciso, né causarono la sua morte sulla croce, ma fu fatto in modo che così apparisse loro. E certamente coloro che discordano su questo e nutrono dei dubbi. Non hanno una [esatta] conoscenza di ciò, si limitano a seguire una congettura; e per certo essi non lo uccisero: anzi, Allah lo ha esaltato in sua presenza. E Allah è onnipotente e saggio!

Esistono inoltre diverse leggende musulmane che identificano una sorta di sosia crocifisso al posto del Messia, il quale venne piuttosto assunto, sostengono, con tutto il corpo, in cielo.
Nella tradizione islamica, tuttavia, tali leggende non sono confermate da “fonti autorevoli”.
Ad ogni modo, i musulmani rifiutano decisamente di credere ― ancora oggi — che un profeta di Dio abbia potuto subire l’infamia della crocifissione che, per gli stessi ebrei, era una morte crudele meritata solo da criminali consumati.
Ancora in ambito musulmano esiste un’opera, pubblicata nel 1908 (abbiamo visto che i primi del ‘900 furono un periodo abbastanza fecondo per opere “eretiche” sulla figura di Gesù) e presentata ancora una volta da Hassnain, il cui titolo non potrebbe essere più esplicito: Gesù in India (Masih Hindustan Mein) di Mizra Ghulam Ahmad, fondatore della celebre comunità Ahmadiyya.
Ahmad sostiene che, dopo essere scampato alla crocifissione, Gesù si mise sulle tracce delle tribù perdute di Israele e che questo lo condusse sino in Kashmir. A riprova di quest’ultima affermazione pone il fatto che a Srinagar sarebbe ubicata la tomba del profeta Yuzu Asaph, ovvero ― secondo una nutrita scuola di pensiero ― Gesù stesso.
La tesi di Gesù in Kashmir avrebbe avuto un particolare successo, nella misura in cui è sulla bocca di molti occidentali che hanno intrapreso il viaggio in India ed un maestro indiano contemporaneo, i cui libri stanno avendo un esorbitante numero di lettori nel mondo, Osho Rajneesh, l’ha fedelmente riproposta ai discepoli in un discorso che è oggi possibile trovare trascritto in un testo particolarmente provocatorio: La Bibbia di Rajneesh.
Ahmad avrebbe anche considerato le affinità tra le figure di Gesù e Buddha e tra i rispettivi sentieri spirituali. Come abbiamo già avuto modo di vedere, è questo un motivo ricorrente. Entrambi, enfatizza Ahmad, vengono tentati dal “diavolo” e insegnano per parabole, alcune delle quali sono sorprendentemente simili nelle tradizioni cristiana e buddhista.
Un esempio è la parabola del figliol prodigo, presente, pur con sfumature diverse, nel Vangelo di Luca e nel Sutra del loto.
Ahmad si sofferma anche sul fatto che tanto la tradizione monacale cristiana quanto quella buddhista si imperniano sui tre voti di povertà, castità ed obbedienza.
Tornando a considerare Hassnain, questi non perse l’opportunità di effettuare più di una visita alla tomba di Yuzu Asaph, anche perché, da kashmiro, l’aveva praticamente in casa. Nella tomba trovò una croce lignea innanzi al sarcofago ma, soprattutto, una lastra in pietra che, ripulita dalla melma, rivelò in bassorilievo le impronte di 2 piedi.
Commissionò dunque al conservatore del Museo di Stato un calco di gesso della lastra. La cosa sorprendente, ad un esame approfondito su entrambi gli oggetti, furono i segni incisi delle ferite ed il rimando ad una presenza di due cuscinetti sotto le piante dei piedi (utilizzati, evidentemente, per evitare che le cicatrici sporgenti, durante le lunghe ore di cammino, potessero infiammarsi).
Per non peccare di superficialità, Hassnain contattò Kurt Berna, medico e studioso tedesco che molto tempo dedicò alla sindone di Torino e sostenitore — su basi scientifiche ― della tesi secondo cui Gesù venne “sepolto ancora vivo”. Questi elaborò un rapporto in cui evidenziava che, dall’analisi delle riproduzioni delle ferite, si poteva desumere che l’uomo aveva il piede sinistro poggiato sul destro al momento della crocifissione. Scrive Berna nel suo rapporto:

Non [si] […] può dedurre necessariamente che queste siano le vere impronte dei piedi dell’uomo che si trova nella tomba, tuttavia l’artista, realizzandole, ha dato grande importanza ai segni secondo i quali l’uomo sotto la lastra tombale sarebbe stato crocifisso, e al fatto che essi si trovavano proprio in quei punti delle piante dei piedi, che ne facevano dei segni distintivi!
Fatto: un uomo crocifisso si trova nella tomba, ma se guardiamo la Sacra Sindone di Torino, scopriamo che il piede sinistro è stato incrociato sopra il destro, sulla croce, perché il ginocchio sinistro, avvolto nel lenzuolo, era più piegato e più rigido della gamba destra. Un’ulteriore indicazione che l’uomo della Sindone di Torino e l’uomo sepolto a Srinagar sono la stessa persona (Maria Fida Hassnain, Sulle tracce di Gesù l’esseno, Amrita Edizioni, Torino, 1997, p. 175).

Ancora riguardo alla permanenza di Gesù in Kashmir, Hassnain cita un manoscritto sanscrito, il Bhavishya Maha Purana che, dopo essere stato analizzato a fondo all’Oriental Research Institute di Poona, venne pubblicato, nel 1910, a Bombay (la versione originale è del 115 d.C.).
Contiene, tra l’altro, il resoconto di un incontro in terra kashmira — avvenuto probabilmente prima del 78 d.C. ― tra il re di una popolazione conosciuta come Saka ed un sant’uomo che si presenta come “Figlio di Dio nato da una vergine”.
Dalle parole del sant’uomo al re emergerà un messaggio di natura monoteista ma con una netta eco pagana.
Cito:

O re, io vengo da una terra lontanissima, dove non c’è verità e dove il male non conosce limiti.
[…]
Sono apparso come Isha Masih o Gesù Messia. Ho ricevuto la Messianicità o Cristicità.
Ho detto loro, “Eliminate tutte le impurità della mente e del corpo. Recitate la preghiera rivelata. Pregate autenticamente nel modo giusto, obbedite alla legge. Ricordate il nome del nostro Signore Dio. Meditate su colui la cui dimora è nel centro del sole”.
[…]
Ho chiesto agli esseri umani di servire il Signore. Ma ho sofferto per mano dei malvagi e dei colpevoli. In verità, o Re, tutto il potere è nel Signore, il quale è nel centro del sole. E gli elementi, e il cosmo, e il sole, e Dio sono per sempre. Perfetto, puro e in beatitudine, Dio è sempre nel mio cuore. Per questo mi è stato dato il nome di Isha Masih (Ivi, p. 182).

Trasferitomi a vivere la maggior parte del mio tempo a Varanasi, nell’India nord-occidentale, a partire dal 2005, un altro libro suscitò un mio grande interesse: Jesus lived in India, dello storico delle religioni Holger Kersten che riprende, in buona parte, il filone aperto da Hassnain. Kersten ottenne dalle autorità kashmire, nel 1984, di aprire il sarcofago di Rozabal. Tuttavia, la sera prima del giorno concordato per l’apertura, ci fu un episodio di guerriglia nell’area del santuario, nel corso del quale morirono 7 persone. L’apertura del sarcofago venne dunque rimandata nel tempo e, alla fine, non se ne fece più nulla. Kersten, a conclusione del suo libro, sconsiglia a chiunque di avventurarsi nella città vecchia di Srinagar per rintracciare Rozabal. Io stesso, dunque, avevo, in principio, qualche remora pur essendo determinato a visitare il santuario.

 

Ancora Srinagar e brevi incursioni nella “terra di latte e miele”

Naturalmente Raj non si fa sfuggire l’occasione per rendersi “indispensabile”. Mentre ci dirigiamo verso Rozabal mi dice che l’ultima volta che c’era stato, per accompagnare un piccolo gruppo di europei, alcuni militari li avevano cacciati sgarbatamente. Mi dice poi che il santuario, da qualche anno, è chiuso. Questo, naturalmente, non manca di deludermi. Raj mi conferma, inoltre, che la città vecchia è l’area più pericolosa di Srinagar e che dunque non è consigliabile avventurarcisi da soli.
Io sono partito con lo spirito di chi sta intraprendendo un pellegrinaggio e dunque sa che i pericoli sono inclusi nel pacchetto.
Arriviamo a Rozabal. È severamente vietato fotografare. Una targa, sulla porta, cita le sure 157-158 del Corano. È inoltre riportato, sulla stessa targa, un brano del Vangelo di Matteo.
Il tutto ha un’aria in qualche modo sibillina. Non viene detto, esplicitamente, che il santuario contiene il corpo di Gesù. Si parla di due santi: Syed Nasîr-Ud-Dîn e Hazrat Yousa Asif al Hisa, senza dire nulla riguardo l’identificazione di quest’ultimo con il fondatore del cristianesimo. Lo stesso nome, del resto, non è chiarificatore in quanto Gesù, in arabo, viene chiamato Issa, in persiano Yuz/Yuzu mentre gli hindu parlano, in genere, di Isha.
Le due sure coraniche sembrerebbero quasi messe lì a caso, senza una chiara attinenza con il corpo che, si favoleggia, sia contenuto nel sepolcro del santuario.
Da una finestra si intravedono le due tombe, la più grande delle quali conterrebbe il corpo di Gesù.
L’indomani sono nuovamente lì. Arrivo a piedi dall’hotel Malik, sul Boulevard, dove alloggio. Attraverso, longitudinalmente, buona parte della vecchia Srinagar. Mi fermo in una bakery, assaporando un paio di speciali sfoglie fresche e friabili. Non sento una particolare tensione nell’aria, per quanto sia cospicua la presenza di militari e fili spinati. Di nuovo a Rozabal, riesco ad avere accesso ad un stanzetta da cui si potrebbe accedere al santuario vero e proprio se la porta, ahimè, non fosse chiusa con lucchetto. Mi siedo e sprofondo in una sana meditazione. Rozabal non mi sembra particolarmente frequentato e, tuttavia, mi trovo a condividere la stanzetta con un paio di devoti. Persone molto semplici, del popolo. Un uomo ed una donna. Questa non si trattiene a lungo. Si inginocchia davanti alla porta da cui si potrebbe avere accesso alle due tombe. Si prostra più volte. Bacia la soglia. Piange di devozione. Anche l’uomo, sulla sessantina, più vicino all’angolo in cui mi sono seduto io, si prostra e bacia la base di una finestrella da cui si vedono i due sarcofaghi. Anche lui piange di devozione. Poi si gira verso di me, mi fissa con due occhi languidi, un po’ persi, un po’ folli, mi offre un dattero. Gli chiedo chi sia sepolto nel santuario. Lui non parla inglese ma apre le mani, mimando la posizione in cui stava Gesù sulla croce. Poi indica i suoi piedi ed indica nella direzione del sarcofago più grande. Vicino ci sarebbe l’impronta dei piedi di Gesù. Esco e la curiosità mi sta, semplicemente, divorando. Prima di partire per Srinagar avevo recuperato, su internet, l’e-mail ed il numero telefonico di Maria Fida Hassnain. Lo chiamo, disperando di trovarlo. Invece risponde appena dopo un paio di squilli. «Pronto», inizio, «il professor Maria Fida Hassnain?».
«Sì, sono io, chi parla?».
Mi presento, gli dico di aver letto il suo libro, tradotto in italiano, di essere interessato al passaggio, alla vita ed alla morte di Gesù in Kashmir e che, al momento, mi trovo a due passi da Rozabal. Senza farla troppo lunga mi invita a casa sua. Mi chiede di prendere un tuk tuk e di farlo parlare con il guidatore per potergli spiegare la strada. Inutile dire che la cosa non manca di emozionarmi.

I Hassnain5 [320x200]Dopo circa un’ora sono a casa del professore, nella periferia di Srinagar. Una casa accogliente e, tuttavia, modesta. Ho con me anche il libro di Kersten. Lui mi porta in un suo simil-studio. Ha il materiale delle sue ricerche ammucchiato su di un tavolino basso; sono diversi cartelloni su cui ha incollato ritagli di giornale, fotocopie di lettere, il passaggio, in sanscrito, del Bhavishya Maha Purana ed altro. Mi dice che oramai la ricerca è giunta ad un punto morto, che Kersten, dopo averlo contattato ed aver fatto un breve percorso comune, non si è fatto più sentire, che lui oramai è anziano (ha 85 anni) e ci vorrebbero studiosi giovani, in grado di raccogliere il testimone, cui lui sarebbe disposto a dare tutto il suo supporto. «Le religioni sono cieche», mi dice, «le persone debbono credere, i seguaci, i credenti debbono credere, non possono avere domande!». «Allo stesso tempo», continua, «aspettano tutti qualcuno, un nuovo messia, un Buddha Maitreya, qualcuno che ci porti fuori dal guado in cui ci siamo cacciati. Nessuno, tuttavia, è disposto ad ammettere la verità in merito a Rozabal né le istituzioni cristiane né quelle musulmane, il santuario è, oramai, chiuso e nessuno vuole venga fatta pubblicità al riguardo».
Mi mostra un suo libro, stampato in proprio: The Rozabal, beyond the da Vinci code. Riesco a farmene regalare una copia, con dedica.

I Impronte6 [320x200]Mi accompagna su di una piccola terrazza, immediatamente accessibile dallo studio. In terra ci sono i calchi di gesso con l’ipotetica riproduzione delle impronte dei piedi di Gesù. Non avendo potuto fotografare l’originale, nel santuario, mi sbizzarrisco a fotografare sulla terrazza del professore.
Tolgo presto il disturbo da casa Hassnain, vado al Mughal Darbar, buon ristorante di Srinagar, a gustarmi un piatto tradizionalmente kashmiro: il Rogan Josh, l’agnello speziato al curry.
In strada mi colpisce la cospicua presenza di mendicanti donne, molte delle quali integralmente ricoperte dal Burka. Mi colpiscono altri piccoli/grandi particolari della città, alquanto anomala per essere indiana. Mi sembra, difatti, una dimensione complessivamente più strutturata. In molte città indiane, ad esempio, è cronicamente presente il problema del resto. Pochi, tra i guidatori di rickshaw o tuk tuk, i negozianti, i facchini nelle stazioni e via dicendo, hanno il resto. La cosa può diventare un autentico calvario nel momento in cui, quasi ogni volta che si deve pagare un importo di 20-40 rupie e si ha una banconota da 100, ci si trova davanti alla stessa disarmante espressione: no change?
Ed allora bisogna impegnarsi nella ricerca di un’anima pia disposta a “spicciare i soldi” e questo può capitare 7,8,10 volte in un giorno. Ricordo di aver incontrato questo problema persino nella metropolitana di Delhi, al momento di pagare il biglietto.
A Srinagar non ho quasi mai dovuto patire, in questo senso. Ho trovato anche una minore inclinazione verso atteggiamenti truffaldini, una minore confusione e propensione a forme spicciole e tuttavia ineludibili ed onnipresenti di prevaricazione. Una maggiore pulizia.
Mi è sembrata anche una comunità più integrata, meno slabbrata per quanto più marcatamente maschile. La donna, difatti, è il soggetto che più di tutti paga le spese di questa integrazione.
Mi dicevano a Srinagar che un uomo, se è in grado di garantire a tutte gli stessi diritti, può avere fino a sette mogli. Quelle degli altri può avere grandi difficoltà a desiderarle in virtù del fatto che, semplicemente, non le può vedere. L’erotismo è dunque quasi bandito dalle strade di questa città, eccezion fatta per alcuni sguardi vibranti e carichi, furtivi sotto i veli. Questo bilancia un altro fattore di disordine nella società hindu: la forte repressione sessuale abbinata a quella che viene quasi unanimemente riconosciuta come una forte desiderabilità delle donne indiane. Belle, intense, accoglienti e soavi e, tuttavia, in molti casi, fiere, quasi indomite. Con lunghi, curati capelli neri, sguardi morbidi, a volte irresistibili che hanno quasi il potere di “inghiottire” chi ci si imbatte.
L’India, del resto, è ancestralmente femmina e, tuttavia, la forte carica erotica non ha modo di esprimersi liberamente, a fronte di istituzioni difficilmente disarcionabili come il matrimonio combinato, il divieto (non sempre rispettato) di una sessualità “pre” ed extra-matrimoniale.
I musulmani, attraverso la poligamia e la negazione, alle donne, di una vita pubblica “svelata” (oltre, forse, alla tradizionale maggiore indulgenza verso l’omosessualità, inevitabile, credo, in una società così marcatamente “al maschile”) mi sembra siano riusciti a contenere meglio le conseguenze di alcune “scariche ormonali”. Questo, certo, a discapito della “grande ammaliatrice”, la donna che integralmente ― o quasi — coperta, negata, suscita la compassione della maggior parte delle donne hindu.
Il 9 settembre, il giorno del mio compleanno, ho bisogno di lasciare Srinagar. Mi avventuro, a bordo della corriera governativa, sulle montagne della vicina Gulmarg, toccando con mano la proverbiale bellezza di questo “paradiso himalayano”. Le montagne sono verdi, boscosissime, lussureggianti, roride di acqua cristallina.
In una mia seconda sortita fuori città, a Pahalgam, “il villaggio del pastore”, dove Gesù avrebbe vissuto un buon periodo di tempo, scopro anche perché il Kashmir si presti alla definizione di “terra (promessa) dove scorrono fiumi di latte e miele”. Osservando il corso impetuoso del fiume di Pahalgam, difatti, mi soffermo sul colore lattiginoso delle acque. Potrebbe sembrare davvero un fiume di latte, probabilmente per il gioco cromatico delle pietre, sul fondo, con probabili peculiarità geologiche e mineralogiche che danno all’acqua quel colore singolare.
Pahalgam mi nutre di silenzio e di ricordi sopiti. Di desiderio di ritornare in quest’angolo di India, di trovarci un Gesù inedito, viaggiatore, meditatore, maestro. Un carismatico giunto qui, dalla Palestina, raccogliendo aneddoti ed informazioni nell’esperanto dei caravanserragli, davanti a fuochi di bivacco, sedendo assieme a mercanti di provenienze diverse con cui condivideva, assieme al suo fagotto, il viaggio. Non credo sia molto importante venire a capo, scientificamente, di chi sia stato veramente Gesù. È passato troppo tempo, troppi interessi, troppi equilibri, troppe istanze, pur legittime, di controllo sociale si sono stratificati sulla sua figura. Non più di uomo ma di simbolo. Di simbolo di una grande cultura, di una caleidoscopica civiltà che ha camminato, tra alterne vicende, crimini efferati ed importanti meriti storici, nel tempo. Nel lungo tempo!
Per questo, forse, è buono che il santuario di Rozabal resti chiuso, lasciato all’innocenza di sguardi persi, un po’ folli, all’offerta genuina di un dattero. Lasciamolo alle lacrime di devozione, ai baci sulle soglie di questa brava gente. Io mi accontento di una versione letteraria della vita del grande maestro palestinese, che la renda, in certa misura, più vicina alla mia sensibilità, alla mia inquietudine, alla mia ricerca. Per il resto, quando sarà tempo di rivelazioni, queste arriveranno, come sono arrivate a Qumran ed a Nag Hammadi.
E Raj? Sono stato ospite, a cena, nella sua houseboat, di ritorno da Gulmarg. Ho mangiato un po’ miseramente ed ho visto, passando su di un semi-ponteggio a dir poco precario (ancora non mi capacito come non sia finito in acqua) dove vive, realmente, con la famiglia. Con la figlia Fisa, la moglie bella e discreta ed un paio di altre creature. Vivono in un cabinotto annesso all’houseboat. È una cucina di 4-5 metri quadri. La moglie è spesso ai fornelli, per sfamare gli ospiti dell’houseboat. In terra: due, tre materassini ravvicinati, le coperte amorevolmente rimboccate. Ne spuntano i visi teneri dei suoi tre figli. «Noi viviamo qui», mi dice e vedo che non c’è neanche spazio per il frigorifero che, difatti, sta, del tutto decontestualizzato, nella living-room.
«Sono nel panico», mi dice Raj quando torniamo nello spazio di rappresentanza dell’houseboat. «Non ho un soldo, non ho di che vestire i miei bambini!».
Fuma compulsiavamente. Jarim porta, stampata in faccia, la stessa disperazione. Ho intenzione di lasciare qualche soldo, naturalmente. Lui cerca di vendermi il tappeto di seta appeso, a mo’ di batik. «Vale 12000 rupie», mi dice. È chiaramente segnato dal tempo. Gli dico che ho intenzione di comprare un tappeto, esattamente di quella misura. Che posso comprarlo da lui, così da portarmi a casa qualcosa che abbia una storia, susciti dei ricordi, pur struggenti e sia stato veicolo di aiuto, diciamolo, cristiano!
Ci accordiamo per 4000 rupie. Raj mi dice che, in realtà, ha pagato quel tappeto l’equivalente di 5000 rupie, in Turchia, 9 anni fa. Non faccio, dunque, un grande affare ma va bene lo stesso. Faccio per prenderlo da terra ma lui mi ferma: «no Sir, lascialo qui, è tuo il tappeto ma te lo porto domani in hotel».
L’indomani aspetterò invano il tappeto. Raj, sollecitato al cellulare, mi dà ripetuti appuntamenti, per fortuna poco condizionanti, senza rispettarne nessuno. Decido dunque di comprare altrove un tappeto. Ricevo una telefonata dalla moglie poco prima di andare in un negozio che avevo individuato da giorni. Rivuole la tesserina telefonica che mi aveva prestato per poter usare il cellulare (in Kashmir non funzionano le comuni tessere telefoniche indiane). Le chiedo, naturalmente, di Raj e del tappeto. «E’ molto caro quel tappeto», mi risponde.
Raj ci ha dunque ripensato, senza dirmelo esplicitamente, semplicemente disertando ripetuti appuntamenti. Mi domando che fine abbia fatto il suo panico; avrà trovato dei soldi altrove.
Raj; lo rivedo nel suo profondo affanno, il ballare continuo delle sue gambe, le sue sigarette fumate con compulsione. L’odore di erba che lo pervadeva al momento della nostra conoscenza. La sua houseboat con fughe quasi aristocratiche e la profonda miseria in cui vive con la sua famiglia. La sua petulanza, la sua incoerenza, eppure sentivo che qualcosa ci legava, vedevo in lui quasi un’ombra lontana del grande maestro palestinese di cui lui, già sulla canoa, nella notte di Srinagar, mi aveva parlato.
Lascio Srinagar con la sensazione netta di aver intravisto quello che il grande pittore e viaggiatore russo Nicholas Roerich chiamava the hearth of Asia, il cuore dell’Asia. Un Oriente crocevia di tante influenze: hindustana, buddista, cinese, persiana…tutto sotto il segno inequivocabile della mezza luna, nell’echeggiare del Muezzin.
Un Oriente favoleggiato ed elusivo, infido e tragico. L’Oriente che, in fondo, ho sempre cercato ed ho trovato, quasi in sogno, nella pericolosa e ben integrata città vecchia di Srinagar. Nelle sfoglie fragranti, in una mattina un po’ uggiosa, di un formaio leale che non mi ha trattato da straniero, tentando di applicare sovrapprezzi o con un retrosguardo di astio, di diffidenza, di rifiuto e che, vivaddio, quando dovevo pagare 8 rupie ed ho tirato fuori una banconota da 500, non ha avuto la consueta espressione disarmante: no change?