Dalla Psicosintesi ad un “vangelo psicosintetico”; intervista a Fabio Guidi.
Una pregnante chiacchierata con Fabio Guidi: psicanalista, ricercatore psicosintesista, autore di Iniziazione alla Psicosintesi , de I miei anni con Gesù (con Viverealtrimenti), Gurdjieff e la Psicosintesi e Livelli di guarigione.
Nella semplice pulizia di una stanza di cui ricordo, con affetto, una madia in legno ed un grande camino. Alcuni spunti di riflessione affinché la ricerca profonda (Stanislav Grof scriveva “tempestosa”) di noi stessi, pur nel fisiologico affanno, non abbandoni mai i meandri, talora angusti, delle nostre volontà.
Iniziamo nel modo più banale: cos’è la psicosintesi?
La psicosintesi non è una corrente particolare di pensiero, piuttosto un modo di vedere la crescita umana. Non può essere messa accanto ad altre correnti come la gestalt o lo psicodramma, per fare appena due esempi. La psicologia del profondo, che ha preso avvio dalla psicanalisi, è solo un primo passo nella crescita umana. Infatti, il motto della psicosintesi, coniato da Roberto Assagioli, è conosci, possiedi, trasforma te stesso. Cosa vuol dire, che il primo passo della psicosintesi è senz’altro un passo analitico; non puoi non partire dalla psicanalisi per quanto ci siano esponenti della psicosintesi che iniziano questo percorso senza curarsi della base preliminare indispensabile per cominciare a fare il lavoro psicosintetico vero e proprio. Questo te lo dico perchè vengo da una lunga formazione negli ambienti formali prima di diventare, nel ’97, un ricercatore psicosintesista autonomo. Dunque, la psicosintesi prevede un lavoro preliminare per conoscere se stessi. Devi sapere da dove vieni, chi sei, devi conoscere le varie subpersonalità, come vengono chiamate in psicosintesi. Ognuno di noi ha tanti io, tante parti, molto spesso in contraddizione, in conflitto tra di loro, dunque si tratta di fare un lavoro di integrazione sino a raggiungere un centro, perché fin tanto che tu non hai costituito questo centro sei sballottato dagli impulsi più strani, più diversi, pensi di volere una cosa invece, in realtà, vuoi l’opposto, pensi di andare in una direzione ma una parte di te, inconscia, rema per andare da un’altra parte. Io ho una formazione anche in psicoanalisi, a Pisa, ho fatto 4 anni di analisi didattica, individuale perché mi sono reso conto dell’importanza di un lavoro psicoanalitico. Comunque la psicosintesi, come si diceva, è un lavoro di integrazioni progressive, a livello interiore, interpersonale, sociale (a quest’ultimo riguardo, Roberto Assagioli dice “di gruppo”, poi “di nazione”, fino ad un livello planetario). Essendo una grande visione della vita e della crescita umana, non vorrei fosse etichettata come un metodo psicologico. Nella prima pagina del mio sito e nel mio libro Iniziazione alla Psicosintesi, ho messo una citazione di Assagioli dove dice come deve essere intesa la psicosintesi. È una lettera che invia nel ’67 a tutti i centri di psicosintesi sparsi nel mondo ed in cui sostiene che non può esserci nessuna persona che possa definirsi il garante della psicosintesi, “nemmeno io stesso”, diceva: “anche il metodo che io utilizzo nella psicosintesi è il metodo mio, altri possono usare altri metodi; la ricerca nell’ambito della psicosintesi deve andare avanti nella massima libertà!”.
Nel momento in cui l’individuo raggiunge il suo centro, c’è una personalità sufficientemente integrata, in grado cioè di prendere una direzione unica, coerente rispetto ad uno scopo preciso. A questo punto inizia la psicosintesi vera e propria, cioè il lavoro di disciplina. Anche questa non può iniziare subito. È il controllo di sé ma è teso all’armonizzazione della personalità che, come si accennava, deve essere sempre più coerente con la linea che si è prefissa; non deve essere, dunque, fine a se stessa. Per esempio, non la puoi proporre ad una persona che non si conosce sufficientemente per cui, con la volontà ferrea, vittoriana, decide di andare in una direzione e non sa che dentro di sé c’è una forza potentissima che ostacola ogni suo proposito. Più è forte questa volontà, più si rafforza questa forza contraria che cerca di boicottare in tutti modi ciò che la volontà cerca di perseguire. Ne viene fuori una figura estremamente irrigidita perché maggiore è la lotta, maggiore è l’irrigidimento, nel momento in cui la volontà deve combattere questo impulso interiore (che possiamo identificare con l’archetipo del diavolo della tradizione cristiana) che cerca di imporsi sempre di più. Questo senz’altro non è il modo psicosintetico di lavorare con la volontà. Quando viene una persona in analisi non puoi iniziare a dare consigli, iniziare a dire: ma perché non fai questo, perché non provi a fare quest’altro? Ecco, questo lo fanno i baluba, tutti gli analisti seri sanno che non funziona minimamente. All’inizio la persona deve essere aiutata ad accettare tutte le parti di sé, questo è il punto iniziale della crescita umana; accettare ogni parte di sé, anche quelle che appaiono diaboliche all’individuo stesso. Tra parentesi, il diavolo, come archetipo umano, appare spesso nei sogni delle persone in analisi, come simbolo delle loro parti negative e cattive che non riescono ad accettare, fino a vere e proprie allucinazioni. Ultimamente una donna, dopo poco che aveva iniziato l’analisi — l’analisi allenta certe resistenze ― è stata terrorizzata da un sogno in cui c’era il diavolo, seduto sul letto, che la guardava. Abbiamo dovuto fare un lavoro per arrivare a comprendere che era una sua proiezione e che questo suo sentirsi cattiva era dovuto a determinate esperienze ed anche comprendere chi era quel diavolo, recuperando la figura materna negativa, eccetera. Insomma, c’è un lavoro di analisi del profondo all’inizio della psicosintesi. E’ inutile parlare di volontà quando sei a questo stadio della crescita umana.
Dunque, la psicosintesi, oggi, è un metodo riconosciuto di terapia psicologica accanto ai metodi di matrice freudiana o junghiana, eccetera. Ho capito bene?
C’è anche una scuola, in Italia, la Società Italiana di Psicosintesi Terapeutica che forma i terapeuti in base alla teoria psicosintetica. Può vantare il riconoscimento anche del MIUR — il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ― che accanto ad altre scuole di psicoterapia riconosce anche la scuola psicosintetica.
In che rapporti siete con le altre scuole?
Direi in un dialogo abbastanza sereno però consentimi di separare la psicosintesi terapeutica dalla psicosintesi in sé. Esiste difatti anche un livello prettamente terapeutico, precedente a quello analitico, in cui la persona non è in grado di affrontare un’analisi del profondo perché potrebbe essere troppo sconvolgente andare a scandagliare alcune cose relegate nell’oscurità dell’inconscio. Potrebbe essere pericoloso, devastante incontrarle e le resistenze sarebbero talmente elevate da rendere quasi impossibile l’accesso a materiale inconscio. Questo livello prevede una terapia di sostegno psicologico di natura farmacologica o una psicoterapia di sostegno. La persona trova finalmente qualcuno che riesce ad ascoltarla, a sostenerla, abbracciarla, sarebbe il buon padre o la buona madre che non ha mai avuto e qui si crea un transfert, eccetera. Una volta che l’io inizia ad avere una certa forza e si raggiunge un minimo livello di integrazione, allora si può iniziare un lavoro analitico, il secondo livello di lavoro su di sé. Lì si apre un campo di lavoro immenso: tutto il lavoro di incontro profondo, fondamentalmente con i nostri genitori. Una volta giunto a buon punto questo lavoro, inizia la psicosintesi vera e propria ed è lì che la volontà, la disciplina può essere utilizzata per prendere una direzione. A questo punto entrano in gioco vari metodi della psicosintesi che sono, del resto, i metodi di qualsiasi maestro spirituale, riconducibili a tradizioni diverse, da quelle di matrice orientale al sufismo, cui io sono molto vicino, eccetera. In ogni caso, non si può proporre una ricetta valida per tutti. Ogni persona ha bisogno di un intervento diverso. Ad esempio, se una persona è molto responsabile, deve abituarsi ad allentare un po’, una persona troppo nella testa deve essere aiutata a stare un po’ più nel corpo, nel caso opposto lo studio ha un effetto positivo. In una parola, Assagioli parla del “modello ideale”, ovverosia, la domanda interiore: quale modello ti sei prefisso? Qual’è lo scopo, il senso della tua esistenza? A fronte di questo la psicosintesi ti aiuta a trovare gli strumenti per realizzare questo tuo percorso. Poi, se l’individuo comincia a nutrire delle aspirazioni riguardo la ricerca dell’essenza, della vera natura sul piano spirituale, della “ricerca di Dio”, allora la psicosintesi diventa psicosintesi transpersonale e si occupa anche di quest’ultimo livello della crescita umana. Quindi, come vedi, la psicosintesi è un processo a vari livelli. In fondo la psicologia transpersonale, di cui la psicosintesi fa parte, contempla una serie di livelli umani, di livelli di coscienza. Wilber è il maggior esponente di questa visione. Soprattutto con i suoi primi scritti, ad esempio il suo testo Oltre i confini che dà una visione della psicologia transpersonale nei termini di un ampliamento progressivo dei confini dell’io, perché la crescita umana è questa. Quando vai a vedere in profondità e non ti fermi ad una chiesa, quello che dice Gesù, che dice il Buddha, che dice la psicologia transpersonale ed i maestri sufi, è la stessa identica cosa. Quello che intendo mostrare è come sia possibile affrontare un processo di crescita non partendo da un linguaggio religioso tradizionale ma da un linguaggio che sia comprensibile dalla cultura dell’uomo contemporaneo, imbevuta di psicologia del profondo. È una cultura scientifica. Ecco: un’opera di traduzione di verità millenarie in un linguaggio della psicologia transpersonale…
Era giunto ad una conclusione simile anche il grande storico delle religioni Mircea Eliade: l’ermeneutica dei fenomeni religiosi come elementi basilari per la mappatura della psiche umana. Il percorso che indicava era grossomodo lo stesso: partire dalla religione per giungere alla psicologia del profondo ed alla psicologia transpersonale. Tu cosa pensi al riguardo?
Io credo sia necessario parlare un linguaggio che rappresenti in qualche modo il superamento, la maturazione del linguaggio religioso tradizionale che pur, come sosteneva Eliade, mappava la psiche umana, per evitare che l’uomo moderno viva, come sta chiaramente vivendo, una sorta di rifiuto. Ad esempio, nel cristianesimo si parla di “cristiani anonimi”. Tante persone con una crescita morale, interiore che sono, in realtà, cristiani pur avendo, superficialmente, un rifiuto del cristianesimo, per cui sono, appunto, cristiani ma “anonimi”. Questo detto, io sono d’accordo con la teoria per cui l’uomo è costituzionalmente religioso.
La tesi di Eliade: l’homo religiosus…
Sono d’accordo, l’uomo è costituzionalmente religioso ma questo non tutti lo accettano.
Già Ernesto De Martino non era d’accordo. Ricordo conoscevo un professore di psicologia del profondo, Sergio Bernardi, che in occasione di un importante convegno di storia delle religioni a Roma, se non ricordo male nel corso degli anni ’60, si ritrovò più di una volta in trattoria, durante le pause per i pasti, con Mircea Eliade ed Ernesto de Martino. In trattoria venivano fuori delle discussioni straordinarie. Eliade parlava 8 lingue, tra cui l’italiano e dunque c’era un confronto serratissimo tra questi due giganti che però avevano due visioni opposte. Di conseguenza, la visione dell’homo religiosus di Eliade era rigettata da Ernesto de Martino, di formazione marxista, che considerava la religione, l’afflato religioso come espressione di marginalità, di alienazione, eccetera…
Per esempio, consideriamo il credo della comunità di Hodos (fondata nel 2002, è stato un esperimento comunitario attivo per diversi anni per essere, poi, superato): tre articoletti snelli snelli: credo nell’unità della coscienza, credo nella via, credo nella comunione fraterna. Dunque: credo nell’unità della coscienza ed in una serie di strumenti che ci consentono di realizzare la comunità di pratica.
Cosa vuol dire, in pratica, “credo nell’unità della coscienza”? Che l’uomo, lavorando su di sé, integra progressivamente le varie parti di sé, allargando i confini dell’io fino a raggiungere l’esperienza “mistica” dell’unità. Questa non è una fede, anche se la metti come credo, è qualcosa di molto esperienziale. Ovviamente, l’intellettuale che passa la sua vita sui libri e non conosce una virgola di sé stesso, non può capirla una cosa del genere. Dunque quello che proponiamo noi è semplicemente il lavorare su se stessi per renderci gradualmente conto che, raggiunto un obiettivo, si pone un obiettivo successivo e poi uno successivo…ma ogni volta che raggiungi un obiettivo il senso dell’io, l’identità personale, si amplia. In questo modo si arriva ad integrare, progressivamente, sempre più parti prima vissute come esterne a se stessi. Alla fine di questo processo, si può arrivare a quella che è la coscienza mistica di tutti i tempi e di tutte le culture: la coscienza dell’unità. Questa è la nostra ottica e quello che è stato alla base, per anni, della nostra esperienza comunitaria.
In questa direzione la meditazione, da quello che ho capito, si integra bene…
Certamente, è uno strumento fondamentale, a livello psicosintetico per quanto io, all’inizio, a livello di analisi, non la consigli a nessuno. Inizialmente, ripeto e quando non vedo una certa integrazione. Ti faccio un esempio: una persona borderline, che ha una fragilità dell’io accentuata ed è ad un passo dalla scissione psicotica, se inizia a praticare, ad esempio, la meditazione buddista — in cui si porta l’individuo ad abbandonare i confini dell’ego per arrivare al Nirvana ― è a grave rischio di andare incontro a momenti di pesante psicosi. Questi si possono manifestare come: depersonalizzazione, alienazione, senso dell’irrealtà, paranoie, smarrimento in un mondo completamente allucinatorio. In casi borderline c’è bisogno di rafforzare l’io più che di “superarlo”. La tendenza schizoide, in una parola, tende ad allontanare dalla realtà, portando l’individuo a rifugiarsi nel proprio mondo. Tu capisci bene che in questa situazione praticare la meditazione non è la cosa più indicata; agevolerà l’allontanamento dalla realtà. Capisci com’è delicata la questione?
Sì, è delicata. Io ho frequentato, a suo tempo, l’ambiente di Osho in cui la meditazione è vista come quella cosa che risolve tutti i problemi. Io ho amato molto Osho ed ora che vivo in India, un paese dove la repressione sessuale ha creato una sorta di psicosi collettiva, mi sto rendendo conto di quanto sia stato importante il suo lavoro di liberazione. Mi sto anche rendendo conto quanto fosse attuale il suo discorso di integrazione delle due culture, orientale ed occidentale, entrambe viste come parziali. Tuttavia, volendo parlarne in termini anche critici, credo vada detto che, in primo luogo, aveva probabilmente una pesante inflazione dell’ego…
Bravo, è quello che ho sempre sostenuto anch’io…
…che sfociava in un rapporto con i discepoli di tipo guristico deteriore…
Sì, lui aveva una struttura caratteriale narcisistica, eccessiva per un maestro spirituale.
Io ora sto valorizzando molto Krishnamurti proprio perché, secondo me, il fenomeno del gurismo è estremamente delicato. Il guru, quando non è veramente illuminato — e di guru veramente illuminati non so quanti ce ne siano ― può manipolare i discepoli in ogni modo. Comunque, tornando alla meditazione, oggi trovo sia forse un po’ semplicistica l’attitudine di molti discepoli di Osho a non preoccuparsi di nulla perchè, nel momento in cui si medita, si arriva in un modo o nell’altro dove si deve arrivare. Insomma, io ho visto gente senza un minimo di terra sotto i piedi perché non hanno costruito nulla né sul fronte della realizzazione professionale, né sul fronte affettivo, continuano a meditare ma poi, magari, presentano chiari segni di disagio riconducibili, a mio modo di vedere, alla profonda precarietà esistenziale che stanno vivendo, non riescono a regolarsi con l’alcool, usano droghe in maniera sconsiderata…
Sì, ci sarebbe poi tutto un discorso da fare sulla promiscuità sessuale di quegli ambienti. Li conosco i sannyasin (discepoli di Osho), sono venuti anche qui. Molti vengono dal mondo cattolico, dunque Osho ha dato loro modo di liberarsi però, certo, il fatalismo del mondo oshano è qualcosa di stucchevole; questo fatalismo per cui: doveva andare così, se ti è successo questo, vuol dire che doveva essere così, dovevi passare di lì. Insomma: vuoi prendere in mano la tua vita o…
Ricordo, una volta, dovevo intervistare un sannyasin importante di passaggio a Roma. Quando gli chiesi per telefono quanto sarebbe rimasto ebbi una risposta del tipo: chi lo sa, due giorni, una settimana, tre mesi. Mi ricordo anche quando, nel ’98, tornai da Poona, in India, dove ero stato nell’ashram di Osho, per scrivere la mia tesi di laurea. Avevo fatto tanta meditazione e diversi gruppi terapeutici, nell’ashram, calandomi totalmente in quell’ottica. Dunque iniziai ad andare completamente a ruota libera: ripresi a fumare, iniziai a mangiare in maniera sconsiderata. Avevo perso tutti i freni inibitori perchè tanto, se stava andando in quel modo, doveva essere giusto così. Nello stesso periodo frequentavo anche un terapeuta che mi parlò della progettualità e questo mi aiutò a rientrare nei ranghi. Con il senno di poi, mi sono reso conto che non è che fosse, necessariamente, una fase iniziale. Successivamente ho visto discepoli di Osho da venti, trent’anni, in India, a mio parere completamente rovinati: nevrotici, promiscui, alcoolisti, manipolatori, con degenerazioni guristiche, nei rapporti interpersonali, orrende. Hanno dunque iniziato a suonare dentro di me alcuni campanellini di allarmi, ho iniziato a pensare: siamo sicuri che la meditazione risolva davvero tutti i problemi? Non si può andare completamente a ruota libera pensando non ci si debba preoccupare di nulla fuorché di meditare.
Io penso che Osho, con i limiti del suo grosso narcisismo ― criticava tutto e tutti, criticava Gesù, criticava Krishnamurti, a volte criticava anche il Buddha, non è possibile; un po’ di rispetto per certi personaggi — abbia capito molte cose. Tuttavia, le persone della chiesa oshana, perchè poi è una chiesa, non hanno capito altrettanto, almeno secondo me. Ad esempio, Osho parla della disciplina, ne parla anche bene. Gli oshani non ne parlano mai, non ne vogliono proprio sentir parlare. Io ho lavorato con loro. Finché si tratta di analisi va tutto bene perché l’analisi non responsabilizza. Vengono accettate tutte le proprie parti ma l’analisi non si può fermare all’accettazione pura e semplice. Cosa vogliamo fare con quel che è emerso dal lavoro analitico? Ed ecco che torniamo alla psicosintesi: conosci, possiedi, trasforma, cioè assumi una nuova forma nella direzione della progettualità. Questo è un percorso di lavoro serio su di sé, come qualsiasi maestro, anche maestro spirituale, propone. Gli oshani, finché si tratta di lavorare su di sé, a livello analitico, sono adatti. Questo, probabilmente, per liberarsi dai condizionamenti che frenano i loro comportamenti e quindi la loro libertà di esprimersi, soprattutto su un piano degli impulsi fondamentali dell’uomo: aggressivo e sessuale. Non si riesce a far capire loro che devono fare un altro salto ed entrare nell’ottica della disciplina perché tutte le grandi tradizioni spirituali parlano di disciplina. Gli Yoga Sutra di Patanjali, presentano prima di tutto yama e niyama (“prescrizioni” ed “astensioni”, ndr). I sufi hanno una disciplina rigorosa. L’obiettivo primario del discepolo sufi è diventare un essere adulto e responsabile. Loro invece, gli oshani, si comportano come dei bambini che hanno perso qualunque freno inibitorio. Mi raccontava un’amica che ha accompagnato una persona in un importante centro di Osho in Italia, dove facevano un corso di tiro con l’arco. Il tiro con l’arco è un’arte, una disciplina, impari a conoscere te stesso, impari a sviluppare certe qualità, è una via. Loro invece tiravano del tutto a caso e ridevano: oh, che bello…
…Però, immagino, erano cento euro a tiro…
Credono di fare un cammino spirituale queste persone…
Trovo il lavoro di Osho sia stato fondamentale per “allentare”. Bertrand Russel diceva: la storia si divide tra coloro che vogliono stringere i vincoli sociali e coloro che li vogliono allentare. Lui è stato un grande allentatore. Un rivoluzionario! Il passaggio di Osho, secondo me, sul finire del Novecento, era necessario. Il problema, a mio modo di vedere, resta il gurismo. Molte persone si sono completamente consegnate ed è questo che il guru orientale spesso chiede e che io considero molto pericoloso. Tu sai che il termine prono ha un’affinità etimologica non casuale con il sanscrito pranam, il saluto che si fa di fronte ai maestri spirituali che prevede che il discepolo si distenda integralmente ai piedi del maestro. In India hanno questa visione, pericolosissima da un certo punto di vista, di annullamento della personalità individuale, ai piedi del guru, che si presta alle manipolazioni più bieche. Osho, al di là di quello che diceva, permetteva ai suoi discepoli di avere un rapporto di assoluta subordinazione e sudditanza. Basta vedere i video dellaWhite Robe Brotherood, la meditazione serale nell’ashram di Poona, che rappresentava l’incontro con il maestro. Si vede tanta gente, di tutto il mondo, completamente in estasi ai suoi piedi. Lui che ogni tanto citava un discepolo per nome, presente in sala e lo denigrava o derideva, pubblicamente, nell’assoluta accondiscendenza di tutti. Cose che, in virtù di quell’inflazione dell’ego di cui si parlava, gli hanno fatto muovere delle critiche di culto della personalità eccetera. Se un discorso del genere lo fai con i sannyasin, rischi di essere aggredito, di passare per quello che è “troppo nella mente”. Non ho mai sentito un sannyasin essere critico con Osho, non riescono ad avere una visione obiettiva per cui ha fatto delle grandi cose ma aveva anche i suoi lati oscuri. Non è certo l’unico caso. Prendiamo, ad esempio, Mircea Eliade. È stato un genio indiscusso ma molti che lo amano, soprattutto a sinistra, negano sia un teorico molto apprezzato negli ambienti dell’estrema destra. Cosa semplicemente innegabile: lui aderì al movimento della Guardia di Ferro, in Romania, di cui, come diceva, mi ricordo, un docente di antropologia all’università di Urbino, le stesse SS avevano orrore. Credo sia saggio riconoscere i due aspetti di Eliade: la genialità, da un lato ed i suoi lati oscuri dall’altro. Stessa lucidità, fatte le dovute proporzioni, bisognerebbe averla nel momento in cui si parla di tanti altri, grandi personaggi. Tornando ad Osho, personalmente mi ha dato tantissimo. La promiscuità di cui parlavamo prima, libera, può senz’altro andare bene, in una certa misura, poi a seconda dei vissuti personali…
…dei momenti della tua vita. In analisi avviene continuamente. Per esempio: una persona rigida e ossessiva, legata al perfezionismo, alla precisione, alla puntualità, all’affidabilità, può capitare che durante l’analisi, lavorando su certe caratteristiche e sulle motivazioni che ci stanno dietro, questa arrivi e dica: la mia vita è diventata un casino, ho perso le chiavi, dovevo chiamare una persona e non l’ho chiamata. Diventa l’opposto di quello che era fino a poco tempo prima. In quei casi io dico: c’è questa voglia in te, ora, di ribellarti a tutto quello che è accaduto, sino ad oggi, nella tua vita, al tuo Super-ego materno o paterno. Prendilo ora come un momento di de-stress. Sappi che è un momento che piano piano va a terminare perché queste due parti si integrano ed acquisirai un nuovo modo di essere. Non dico: bene, fai così, passa la vita così, sentiti completamente libero di essere te stesso, la prima cosa che ti viene in mente falla, eccetera. In una parola, per tornare alla psicosintesi, è giusto “non essere nella mente”. Questo, però, non significa “essere nell’impulso” ma essere nel “centro”, nel centro profondo di te stesso, che ha una direzione dove andare, il famoso centro di gravità permanente di cui parla Battiato e che, poi, è un concetto gurdjieffiano. Essere consapevole di sé sul piano cognitivo, affettivo, volitivo, consapevole di sé a 360 gradi. Non vuol dire, semplicemente, “seguire la pancia”. La pancia, come simbolo dell’emotività e degli istinti, aggressivi e sessuali, è la “mente inferiore”.
Interessante questo discorso, si riverbera sul concetto stesso di “libertà” riscontrabile, ad esempio, in alcuni anziani sessantottini. La casa editrice Malatempora ha fatto dei testi interessanti che io, a suo tempo, ho venduto sul mio sito come storia della cultura alternativa, una storia da leggere, naturalmente, in maniera critica. Uno di questi libri, Underground italiana, è composto con diverse interviste fatte ai protagonisti degli anni immediatamente precedenti al ’68 politico. Si trattava piuttosto del ’68 esistenziale di cui parlava Majid Valcarenghi, fondatore e direttore della rivista Re Nudo. Erano gli anni, appunto, dell’underground. Da queste interviste emergono personaggi che, a mio vedere, confondevano talvolta la libertà con un lasciare spazio a quella che hai chiamato “mente inferiore”. Andavano completamente a ruota libera, magari in un convegno si mettevano ad insultare i relatori o saltavano addosso alla prima donna che capitava loro vicino.
A fronte di questo, il problema principale che si pone è: dove vado? C’è tuttora una grossa confusione. Se la meta del nostro lavoro, usando il linguaggio della psicosintesi che tuttavia è solo una forma che non ci deve distrarre dall’obiettivo di ogni ricercatore della verità, è trovare se stessi, la nostra natura più profonda, non possiamo vivere di spontaneismo. Con lo spontaneismo diamo nutrimento ai nostri impulsi più bassi, spesso più nevrotici, più infantili. No, c’è bisogno di una lavoro serio su di sé. La psicosintesi vuole accompagnare il ricercatore in questo cammino, attraverso una serie di strumenti che sono i più diversi, in base anche alla singola persona, al suo temperamento, al carattere, al momento che sta vivendo.
Abbiamo recentemente ripubblicato il libro, di Fabio Guidi, I miei anni con Gesù; un vangelo psicosintetico. In versione cartacea e in versione digitale.