L’Europa ed un altrove di giorno in giorno più prossimo

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L’Europa ed un altrove di giorno in giorno più prossimo

Di seguito, un brano di Manuel Olivares per la raccolta Il gatto di Schrödinger sonnecchia in Europa; Europa e Cultura verso un nuovo Umanesimo, edita da Aracne Editrice. Al solito: buona lettura!

Un’anziana signora, colta, posata e sulla via di un inesorabile rimbambimento. Sentivo così l’Europa nel corso dei miei primi soggiorni indiani, a partire dal 2005. Vista da un’Asia ancora arcaica e, tuttavia, espressione di un “futuro che è già cominciato”, per citare il testo In Asia, di Tiziano Terzani.
Oggi: Calcutta 30 Marzo 2014, gli occhi un po’ pesti per il sonno arretrato, in una guesthouse da circa 6 euro a notte, sotto un ventilatore appeso ad un soffitto troppo basso per non rendere rischioso un gesto innocente come infilarsi la maglietta. Reduce da una traversata della città, nel cuore pieno della notte, dall’aereoporto a qui, in una camera di nemmeno dieci metri quadri. Reduce da 10 mesi di vita in Asia, soprattutto in Thailandia, con soggiorni di una certa consistenza in India. Da recenti scarpinate sulle montagne poco distanti da Chiang Mai, presso villaggi di “neolitico post-moderno” della minoranza etnica dei Lisu.
Non credo riuscirei a vivere lontano dall’Asia più di un paio di mesi all’anno, oramai. L’Asia tragica e immensa degli scritti di Mario Appelius, l’Oriente elusivo, dolcissimo e rivelatore. Un mondo dove molto di più, rispetto all’Europa, è possibile. Ancora, in buona parte, selvaggio, almeno per i parametri europei ― e probabilmente, proprio per questo, irresistibilmente più vero ― sulla via di una crescita che sembra inarrestabile.
Torniamo ad oggi: Calcutta, 30 Marzo 2014, ore 3.30 del mattino.  Il taxi, una vecchia ambassador gialla, un tempo ― solo 4 o 5 anni fa ― avrebbe rantolato su strade piene di immondizia e di corpi stremati sui marciapiedi e di cani a contendersi, feroci, resti di cene grame. Stamattina abbiamo attraversato strade sostanzialmente pulite e in ordine, con poche persone ― si potevano contare sulle dita di una mano ― che dormivano all’addiaccio. In compenso, lavoratori solerti ― con caschi nuovi e forse scarpe anti-infortunio ― erano all’opera in cantieri aperti, to make India great, per recitare uno slogan piuttosto comune sulle strade delle città indiane.
Ricordo, ancora solo pochi anni fa, a Calcutta, l’inquietudine alla vista di carcasse di enormi topi di fogna, con incisivi bene in vista che avrebbero fatto tremare un derattizzatore professionista. Ricordo appena un mese fa, alla stazione di Mughalsarai, poco distante dalla più celebre Benares, in attesa di un treno che sarebbe arrivato con circa 7 ore di ritardo. Il brulicare di topi, pur di dimensioni più modeste, tra i binari. Ci siamo ridotti a partire alle 3 del mattino, con le banchine della stazione oramai semideserte, qualche topo che si avventurava tra i nostri piedi, nell’incuranza di tutti e suscitando in me una modesta inquietudine che sarebbe poi trasmutata, a sua volta, in attitudine noncurante.
L’indomani avrei raggiunto, nuovamente, Calcutta, chiacchierando a lungo, sul treno, con ragazzi bengalesi che conoscevano Dante, Fellini e Rossellini e che, nonostante tutto, manifestavano un orgoglio invidiabile per un paese che, ad esser franchi, deve fare ancora un bel po’ di strada.
E da Calcutta avrei raggiunto di nuovo la patinata Bangkok, di cui tuttavia non mi sarebbero successivamente sfuggiti gli squallidi slums e Chiang Mai: città dove famiglie drammaticamente indebitate mandano le figlie “a lavorare”, a masturbare “farang” (stranieri) in massaggerie equivoche (pur a fronte di diverse massaggerie professionali), ad adescarli, mezze ubriache, nei go go bar o ad esporre le proprie grazie dietro a grandi vetrine, con un numero sul reggiseno.
Una Thailandia dove pochi, molto pochi, a differenza dell’India, soffrono di malnutrizione, dove sannno leggere praticamente tutti, almeno il thailandese (contro il 35% di analfabeti nel subcontinente), dove “un piatto di riso e un sorcio” non mancano a nessuno. Ma dove gli stipendi sono ancora troppo bassi per accedere alle tentazioni di un mercato inarginabile e selvaggio, dove le banche sono troppo rapaci per non concedere mutui per poi riscuotere ipoteche, dove le condizioni politiche sono ancora troppo instabili perché si possa seriamente iniziare a pensare a sanare alcune forme, evidenti, di degrado.
E noi? L’Europa evoluta e un po’ tronfia, atomizzata e disincantata da secoli di secolarizzazione?
Noi abbiamo Renzi ed il suo nuovo, possibile “rinascimento italiano”, i diktats di Christine Lagarde, la Merkel e la BCE. Molti, troppi di noi snobbano, oramai, le stelle cadenti, come in un celebre film di Carlo Verdone dove Claudia Gerini, sollecitata ad esprimere un desiderio vedendone una, esclamava al colmo della disillusione: e che voi desiderà?!
Una cosa che vista da qui, circondato da un’umanità che ha ancora, praticamente, tutto da chiedere al mondo, mi fa quasi rabbrividire! Mi viene in mente il titolo di un testo ― sembra proprio sia profetico ― di un filosofo tedesco dei primi del Novecento, Oswald Spengler: Il tramonto dell’Occidente.
Forse il nostro Occidente sta inesorabilmente tramontando perché ha fatto la sua grande storia sulla scena di questo pianeta esausto. Forse è giusto che ceda il passo a “nuovi padroni” (perché di questo, ahimè, si tratterà, di un cambio di cocchieri, totalmente fuor di utopia).
O forse riuscirà, giostrando la finanza come un tempo gli eserciti su terre vergini da assoggetare, a contenere l’onda anomala ― demografica ed economica ― dei popoli emergenti di cui, spero, sopravviverà un briciolo di amata innocenza.
L’Europa, si discuteva un po’ “etnocentricamente” con amici a Goa, è stata “l’intelligenza del mondo”; le sue radici cristiane hanno sedimentato, nei secoli, una pur lontana parvenza del comandamento: ama il prossimo tuo come te stesso.
In Asia, purtroppo, sembra manchi anche quella!
Parliamo di un’Europa in cui sono, pur faticosamente, riusciti ad affermarsi i diritti umani, il rispetto dei diritti primari per il fatto stesso di essere dei “cittadini”, con tutta la dignità che questa parola meriterebbe.
Di un’Europa dove ci si può ancora permettere un tumore o di far studiare un figlio, senza ricorrere a forme grossomodo istituzionalizzate di strozzinaggio.
Purtroppo in Asia, almeno in quella che sto conoscendo io, non è esattamente così; se ci si ammala è più una preoccupazione per le tasche che per il corpo, finendo spesso preda di medici avvoltoi in ospedali succhiasoldi. Far studiare un figlio può essere talmente oneroso da legittimare, in seguito, cospicue richieste, da parte dei genitori, di colmare le lacune di un sistema previdenziale praticamente colabrodo.
Mi sembra giusto chiederci cosa possa e debba portare oggi l’Europa nel prossimo villaggio globale e, ponendomi la questione qui, cosa possa e debba portare l’Asia.
Auspicabilmente, in estrema sintesi: scuole, ospedali e case per tutti, l’Europa (cui dovremmo riuscire ad aggiungere: accesso universale al lavoro con stipendi adeguati); bandoli di senso, reincanto, valore di alcuni aspetti della tradizione e della religione, l’Asia.
Sappiamo che l’incontro tra i due mondi non sta esattamente producendo questi frutti, che noi stiamo quasi solo esportando “appetito d’infinito”, perdendo gradualmente le conquiste sociali degli ultimi tre secoli e che le migliori tradizioni orientali stanno soffrendo di un quasi fatale annacquamento, in un Occidente vieppiù disincantato e, al contempo, bulimico di miraggi di salvezza.
Qui, il ventilatore continua a vorticare maldestro sul soffitto, nel villaggio Lisu di Chiang Dao avranno probabilmente terminato di inchiodare listelle di bambù alle travi portanti, per dotare di pareti l’ultima capanna.
L’Europa e l’Oriente stanno avvicinando le proprie dita come l’uomo e Dio nella Cappella Sistina di Michelangelo. Non sappiamo cosa ci riserverà il compimento del contatto (se mai abbia senso parlare di compimento, nel momento in cui l’essere umano non fa altro che dare mostra di sé ― da sempre ― di essere una “grande opera incompiuta”).
Quello che spero è che ci siano ancora tante stelle cadenti per altrettanti, sani desideri di una crescita comune. Quando l’intelligenza del mondo incontrerà la saggezza del Buddha e del Dharma, pur nelle inevitabili incompiutezze,  credo sarà legittimo ritornare, pienamente, a sperare.