Indonesia: un gigante in corsa per l’eco-sostenibilità

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Indonesia: un gigante in corsa per l’eco-sostenibilità

Pubblicato nel numero di Dicembre 2022 de La Luce 30, una voce che illumina con il titolo: Indonesia: dove gli Imam sono capofila della svolta eco-sostenibile.

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Indonesia: l’Economist del 19 novembre lo definisce, già in copertina: “il gigante trascurato dell’Asia”, dedicando al più popoloso paese islamico al mondo — che ha ospitato gli incontri dei G20 il 15 e 16 novembre di quest’anno — un generoso servizio. La magnanimità divulgativa del prestigioso settimanale inglese sembra quasi una pubblica ammenda nei confronti di un paese che non è stato probabilmente considerato a sufficienza dai media mainstreamdopo la caduta di Suharto, nell’ambito della grave crisi economica che colpì l’Asia negli anni ‘90, si intende.

“Con 276 milioni di abitanti (il 26% dei quali hanno meno di quindici anni) distribuiti in circa seimila isole che si allungano dall’Oceano Indiano all’Oceano Pacifico, l’Indonesia si trova in uno spazio strategico tra Stati Uniti e Cina e, al pari dell’India e di altri mercati emergenti, si sta adattando a un nuovo ordine mondiale dove la globalizzazione e la supremazia occidentale sono oramai in declino”.

Nel prossimo quarto di secolo, stando a quanto si legge ancora su l’Economist, il peso dell’Indonesia sulla scena internazionale aumenterà in una maniera che il settimanale inglese — che pesa in genere le parole — definisce “spettacolare”.

Vediamo brevemente il perché.

Iniziamo riportando che l’Indonesia è la sesta economia “emergente” per prodotto interno lordo (mentre è al diciassettesimo posto in assoluto con un punto di vantaggio sull’Arabia Saudita), con un tasso di crescita superiore al 5% all’anno ed essendo all’avanguardia sul fronte dei servizi digitali (per un indotto di circa 80 miliardi di dollari annui).

Il paese è molto ricco di cruciali materie prime, in particolare: nichel (un quinto circa delle riserve mondiali si trova sul suo vastissimo territorio), cobalto e bauxite.

Il nichel viene utilizzato per realizzare le batterie dei veicoli elettrici e, a fronte di questo, l’Indonesia ha implementato una politica originale: ha vietato l’esportazione di materie prime, nichel in testa, per incoraggiare aziende multinazionali a costruire fabbriche sul suo territorio.

In questo senso è in atto un forte corteggiamento di Elon Musk affinché si decida ad aprire stabilimenti della Tesla nel paese.

Il tutto in sinergia con una politica di decisa decarbonizzazione che obbliga le nuove realtà imprenditoriali a investire nelle energie rinnovabili.

A livello di politica interna, il presidente Joko Widodo (conosciuto popolarmente come Jokowi), è riuscito a cooptare diversi oppositori in una prospettiva di ambiziosi progetti statali (soprattutto di realizzazione di imponenti infrastrutture), riuscendo a far prevalere — pur a fronte di una corruzione tenace — l’implementazione del bene comune sulle trame personalistiche.

Un grande punto interrogativo, tuttavia, riguarda il post-Jokowi, dato che il suo mandato si sta avvicinando al termine (ottobre 2024) e stanno sorgendo legittimi dubbi sulla tenuta delle efficaci politiche che lo vedono abile regista.

L’ultimo elemento cruciale per l’aumento del peso politico internazionale dell’Indonesia è di natura geopolitica. Se consideriamo lo spazio geografico che occupa, le sue dimensioni e la ricchezza di risorse fondamentali per il prossimo futuro industriale, non può non essere un paese-chiave nell’ambito di azione di cruciali superpotenze, in particolare: Cina e Stati Uniti.

A fronte di una tradizionale politica di non allineamento, l’Indonesia è oramai — per tradurre letteralmente l’espressione utilizzata nell’articolo dell’Economist — “l’arena in cui aziende e investitori americani e cinesi competono direttamente”.

A livello di diplomazia internazionale, Jokowi sta tentando di fungere da paciere, avendo criticato le sanzioni occidentali ai danni della Russia ed è stata l’unica figura ad aver incontrato tanto Joe Biden e Xi Jinping quanto Vladimir Putin e Volodymyr Zelenski, quest’anno.

È senz’altro degno di nota che oggi solo il 4% della popolazione indonesiana vive con meno di 2 dollari al giorno, il 75% in meno rispetto a dieci anni fa. Gli standard di vita degli indonesiani sono dunque in forte crescita, pur a fronte di consistenti disparità territoriali, ad esempio tra Jakarta (dove il prodotto interno lordo pro-capite ha raggiunto i 19.000 dollari annui) e la regione centrale dell’isola di Java (dove è rimasto sotto i 3000).

 

Imam e sukuk “green”

 

A fronte di questo quadro, direi ottimistico, delineato dall’Economist nel numero del 19 novembre, è importante riportare un articolo presente nel numero del 5 novembre e focalizzato su una questione più circoscritta: l’impegno a favore dell’ambiente di molti imam indonesiani.

Il presupposto, in questo caso, è meno roseo rispetto a quanto considerato sino ad ora e riguarda l’alta frequenza con cui soprattutto la capitale del paese, Jakarta, subisce drammatiche alluvioni. Negli ultimi anni, a causa naturalmente del cambio climatico, il fenomeno è decisamente peggiorato, con dozzine di morti e circa 400.000 persone rimaste senza casa nel solo 2020.

La Banca Mondiale ha dichiarato che oltre 4 milioni di indonesiani rischiano un’esposizione permanente alle alluvioni entro la fine del secolo e che, nella stagione secca, i rischi di incendi minacciano oramai costantemente i 94 milioni di ettari di foresta di cui è ricco lo sterminato arcipelago.

In poche parole, l’Indonesia è uno di quei paesi fortemente penalizzati dal cambio climatico ed è dunque urgente che nell’arcipelago vengano presi dei provvedimenti seri per arginarne gli effetti devastanti.

 

A luglio di quest’anno, i più importanti rappresentanti del mondo islamico indonesiano si sono dunque riuniti presso la Istiqlal Mosque di Jakarta (la più grande moschea del sud-est asiatico e la sesta più grande moschea del mondo; nella foto) per inaugurare il Congresso Musulmano per un’Indonesia Sostenibile: un forum per coordinare l’attivismo ambientalista coinvolgendo autorità religiose, intellettuali, accademici e politici.

Nasaruddin Umar, il principale imam presso la moschea Istiqlal, ha dichiarato, nel corso dell’incontro, che la moschea deve essere un posto per “ripulire la mente e il cuore”. Ha iniziato installando pannelli solari e sistemi di riciclaggio dell’acqua nella “sua” moschea. Altre mille moschee verranno presto dotate di pannelli solari e di altri accorgimenti ecologici. Del resto, già nel 2018 Nahdlatul Ulama, la più importante organizzazione islamica indonesiana, ha promosso una serie di sermoni sulla gestione ed il riciclaggio dei rifiuti mentre Muhammadiyah, la seconda organizzazione islamica del paese, ha elaborato un programma per formare i propri imam come “missionari ambientali”.

In questa iniziativa di promozione di teorie e pratiche eco-sostenibili è anche coinvolto l’Indonesian Ulema Council (MUI): il più importante organismo di studiosi musulmani che, nel decennio appena trascorso, ha rilasciato diverse fatwe per la promozione di cause ecologiche. Nel 2011 ha dichiarato che alcune imprese eco-distruttive di diverse industrie minerarie dovevano essere proibite dalla Legge Islamica. Tre anni dopo ha messo al bando l’uccisione di animali appartenenti a specie in via di estinzione e, nel 2016, ha condannato le pratiche di “taglia e brucia” di molte fattorie come haram.

L’Indonesia, enfatizza l’articolo dell’Economist, è un paese ufficialmente laico dove, tuttavia, le autorità religiose hanno un forte peso. Uno studio recente ha difatti dimostrato che gli indonesiani considerano maggiormente attendibili quelle informazioni che provengano da istituzioni religiose. Gli imam stanno dunque tentando di convertire la fiducia che viene riposta in loro dai propri concittadini in potere politico. Ma’ruf Amin, il vice-presidente del paese e figura prominente del MUI, è stato personalmente coinvolto nel preparare le bozze e poi nella difesa delle fatwe ambientaliste. I collegi islamici indonesiani sono diventati il terreno di coltura e di verifica per quello che viene oramai definito un movimento eco-islamico.  A Darul Ulum, un collegio islamico di Java, i professori si soffermano sull’abitudine del Profeta Muhammad di piantare alberi e di proteggere la fauna selvatica e gli studenti, per diplomarsi, devono essere in grado — tra le altre cose — di piantare un albero.

Se l’impegno ambientale di diverse, prestigiose autorità e organizzazioni islamiche si focalizza sull’istruzione, non viene trascurato il lato finanziario con l’ampia diffusione che stanno avendo i green sukuk: le “obbligazioni verdi”, compatibili con i dettami della sharia, utilizzate per finanziare l’implementazione delle energie rinnovabili e progetti di adattamento ai cambi climatici.

Dal 2018 l’Indonesia ha emesso green sukuk per una cifra equivalente a 3 miliardi di dollari.

Ad oggi, conclude l’articolo dell’Economist, l’Indonesia è ancora il quinto paese al mondo per emissioni di combustibili fossili e la sua economia dipende ancora, in buona parte, dall’esportazione di carbone e di olio di palma, il cui quoziente di inquinamento è molto alto. La transizione ad un’economia pulita sarà dunque lunga e difficile ma i suoi imam, enfatizza proprio in chiusura l’articolo, si stanno adoperando per accelerarla.

Sicuramente le politiche di de-carbonizzazione lasciano ben sperare e lo stesso Jokowi, in un intervista rilasciata all’Economist nel corso del G20 di Bali, ha dichiarato che quando smetterà di fare il presidente vorrà dedicarsi all’ambiente.

La questione ambientale, del resto, riguarda direttamente tutti noi. La necessità di implementare un Islam ecologico è stata già oggetto di più di un articolo; oggi possiamo aggiungere che l’Indonesia dei green imam e dei green sukuk può essere un’ulteriore fonte di ispirazione e una realtà con cui avere, nel prossimo futuro, uno scambio costruttivo.

 

Manuel Olivares