Un 25 aprile anche asiatico

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Un nuovo articolo del nostro collaboratore Silvio Marconi che ha appena pubblicato, con Viverealtrimenti, il testo Quando una farfalla batte le ali in Cina, presto in distribuzione a livello nazionale. Al momento, è possibile comprare il testo, scontato, sul nostro sito ed averlo recapitato, gratuitamente, a domicilio. Questo il link rispettivo.

Buon 25 aprile a tutti, ora e sempre resistenza!

 

In occasione del 25 aprile, 73° Anniversario della data dell’insurrezione delle regioni settentrionali (anche se alcune località videro tale insurrezione già a partire dal 21-22 aprile ed in altre iniziò il 28 aprile), prescelta ufficialmente come data della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, è utile ricordare che tra coloro che soffrirono in Italia sotto l’oppressione nazifascista e/o che combatterono i nazifascisti vi furono persone di diversa nazionalità, compresi molti cittadini di territori dell’Asia.

Ci si vuole riferire qui certamente ai combattenti della Penisola del Deccan (ossia ai territori corrispondenti agli attuali Stati dell’India, del Pakistan, del Bangladesh), dello Sri Lanka e di Hong Kong, nonché di altri territori asiatici del Commonwealth e del Medio Oriente (Palestinesi, oltre che Ebrei), inquadrati nelle truppe britanniche e spesso usati (come fecero anche i Francesi con le loro “truppe coloniali” maghrebine e senegalesi) come carne da cannone nei tratti di fronte più difficili ed in occasione delle battaglie più cruente, come a Cassino, dove le tombe dei soldati del Commonwealth non identificati sono oltre 4.000.

A causa di questa scelta razzista dei comandi, tra i 42.000  caduti del Commonwealth britannico, che riposano in ben 46 cimiteri di guerra in Italia, una forte percentuale è composta proprio da soldati asiatici; in quello fiorentino, ad esempio, ci sono iscrizioni ebraiche, ma anche in lingua punjabi – parlata dai soldati sikh -, in caratteri arabi e in ideogrammi cinesi.

Anche alcune delle 462 sepolture di militari del Commonwealth caduti per la liberazione di Roma racchiudono resti mortali di uomini la cui casa lontana era in Asia.

Soldati asiatici si riscontrano inoltre fra gli stessi partigiani italiani, accanto ai tanti europei, fra cui  Russi (oltre 5.000), Yugoslavi (parecchie centinaia), Francesi, alcuni Austriaci e Tedeschi (disertori della Wehrmacht) ed altri: si tratta di combattenti catturati dai nazifascisti e fuggiti dai campi di concentramento o sottrattisi direttamente alla cattura soprattutto dopo l’abbattimento di aerei.

Ma vi furono casi in cui la sofferenza sotto il giogo fascista da parte di cittadini asiatici iniziò ben prima dell’8 settembre 1943: è il caso della piccola, all’epoca, comunità cinese residente in Italia negli anni ’30, composta soprattutto da venditori ambulanti (“clavatte una lilla” erano beffeggiati….) e in alcuni casi loro familiari. Una comunità oltre tutto sparpagliata in varie grandi città come Milano, Roma, Napoli ed in alcuni casi formata da individui che erano migrati in Italia negli anni precedenti provenendo dalla ben più ampia e storicamente determinata comunità cinese in terra di Francia.

La Cina (all’epoca guidata dal governo nazionalista di Chiang Khai-shek) non era in guerra con l’Italia, ma l’Italia fascista era alleata del Giappone che aveva aggredito la Cina nel 1937, cosicché i cittadini cinesi presenti in Italia vennero considerati dal regime fascista “cittadini di nazione nemica” e nel settembre 1941 vennero internati, in oltre un centinaio, in una struttura edilizia di Isola Gran Sasso (Abruzzo), non lontana da quell’hotel di Campo Imperatore dove per breve tempo venne recluso Mussolini dopo il 25 luglio 1943; una struttura, quella di isola Gran Sasso, dove erano stati già internati Ebrei stranieri dal giugno 1940.

I Cinesi vissero nella struttura in condizioni di forte sovraffollamento, specie finché non vennero trasferiti gli ebrei a Ferramonti, nonché di pressoché totale isolamento dalla popolazione locale, soprattutto a causa della barriera linguistica, sebbene potessero recarsi fuori di essa per compiere lavori soprattutto agricoli o di manutenzione stradale agli ordini del podestà fascista del luogo. La loro condizione era aggravata dal fatto di non essere stati soggetti ad alcun procedimento giudiziario e non comprendere quindi minimamente le ragioni che avevano indotto le autorità fasciste a sradicarli dalle città in cui vivevano e lavoravano. Inoltre molti erano stati inizialmente internati in un altro campo (Tossicia) e solo successivamente riuniti ai loro connazionali ad Isola Gran Sasso, in un luogo del tutto isolato e fra montagne del tutto estranee alle loro esperienze che nella terra di origine erano quelle delle regioni costiere e in Italia erano quelle delle grandi città di pianura. Inoltre i Cinesi vennero sottoposti, grazie alla complicità fra autorità fasciste e vaticane, ad una martellante propaganda cattolica ad opera di un sacerdote loro connazionale (padre Antonio Tchang), che per questo subì anche alcune aggressioni da parte di internati cinesi che lo percepivano come uno strumento degli oppressori governativi fascisti.

L’8 settembre 1943 il centro di internamento venne abbandonato dai suoi guardiani ed una parte dei Cinesi fuggì, mentre altri restarono perché non sapevano cosa sarebbe successo e non conoscevano affatto la regione circostante. Coloro che restarono videro arrivare a metà ottobre i nazisti (che intanto avevano liberato con una azione di commandos Mussolini da Campo Imperatore) che fra la fine del mese di ottobre e la fine di novembre 1943 deportarono al Nord una parte dei Cinesi (alcuni finirono nel tristemente noto campo di concentramento di transito di Fossoli e di loro si perdono le tracce); intanto, però, altri Cinesi venivano identificati dai nazisti nei territori dell’Italia Centrale sotto il loro controllo (alcuni potevano essere anche Cinesi allontanatisi da Isola Gran sasso dopo l’8 settembre 1943) e trasferiti ad Isola Gran Sasso.

Almeno uno dei Cinesi fuggiti si unì ai partigiani della Brigata Maiella e combatté con loro contro l’oppressore nazifascista. Gli Alleati arrivarono a Isola Gran Sasso a giugno 1944 e vi trovarono ancora 99 Cinesi, che vennero infine liberati dopo oltre tre anni di deportazione.

 

Come molti altri elementi della storia delle sofferenze imposte dal nazifascismo agli Italiani ed a tanti altri popoli, anche le vicende dei Cinesi deportati ad Isola Gran Sasso sono pressoché ignorate da un’Italia che, pur essendo nata dalla Resistenza ed avendo una splendida (e largamente inattuata) Costituzione che ne è figlia legittima, pare aver fatto del tutto a livello istituzionale ed accademico, su istigazione soprattutto dei fautori occidentali della Guerra Fredda, prima, e dei continuisti del fascismo ieri come oggi, per rimuovere dalla memoria tante parti della Storia di quel periodi, ancor più quando riguardano coloro che agli occhi di tanti cripto-razzisti avevano la “colpa” di essere nati in lontane terre extraeuropee.

Proprio per questo, ogni sforzo per riportare alla luce quelle vicende è un doveroso e necessario omaggio da compiere sia agli antifascisti ed ai Resistenti italiani, sia ai soldati alleati di ogni continente caduti per la nostra libertà, sia ai milioni di soldati sovietici che hanno avuto in Europa il ruolo essenziale nella sconfitta della belva nazifascista, sia ai tanti Africani ed Asiatici che hanno dovuto, dopo il 1945, lottare talora in armi o con altri mezzi per conquistare la propria libertà contro gli oppressori coloniali europei, che si guardavano bene dall’applicare ai non-Bianchi quei principi per i quali pure avevano combattuto in Europa contro il nazifascismo.

Per tutti coloro che hanno sofferto a causa del nazifascismo ma anche del colonialismo delle “democrazie” occidentali vale la splendida frase della poetessa Olga Bergova che campeggia nel cimitero Piskarev di S.Pietroburgo in cui riposano oltre 900.000 morti dell’assedio che Leningrado dovette subire per tre anni da parte dei nazifascisti: “Niente sarà dimenticato, nessuno sarà dimenticato!

 

I libri di Silvio Marconi

 

Uno studio che, lungi dall’avere un obiettivo “enciclopedico” o di minuziosa analisi storica, vuole evidenziare quelle connessioni e correlazioni – tradizionalmente taciute e rimosse – tra i fenomeni ed i processi che portarono alla crisi ed al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e quelli operanti in un’Asia la cui complessa storia viene, tuttora, sottovalutata.
Quando una farfalla batte le ali in Cina si sofferma sul ruolo che, nella crisi e nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ebbero tanto la Persia quanto, indirettamente, la Cina, dimostrando come il pregiudizio etnocentrico che ancora permea la formazione, la divulgazione e la costruzione dell’immaginario occidentale sia un pernicioso ostacolo a una comprensione di ben più ampio respiro e alla lezione metodologica che ne se ne può trarre.
In questa prospettiva, il riconoscimento di una molteplicità di poli e fattori transculturali è la precondizione per affrontare qualsiasi problematica: storica, politica, economica o strategica.
Una precondizione troppo spesso, volutamente, ignorata da una cultura occidentale che, a differenza di quelle orientali, ha rifiutato la logica olistica privilegiando un approccio molto settoriale.

 

Silvio Marconi – ingegnere, antropologo, operatore di Cooperazione allo sviluppo, Educazione allo Sviluppo e Intercultura – fa ricerca, da anni, nell’ambito dell’antropologia storica e dei sincretismi culturali. Ha pubblicato, al riguardo: Congo Lucumì (EuRoma, Roma, 1996), Parole e versi tra zagare e rais (ArciSicilia, Palermo, 1997), Il Giardino Paradiso (I Versanti, Roma, 2000), Banditi e banditori (Manni, Lecce, 2000), Fichi e frutti del sicomoro (Edizioni Croce, Roma, 2001), Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma, 2002), Dietro la tammurriata nera (Aramiré, Lecce, 2003), Il nemico che non c’è (Dell’Albero/COME, Milano, 2006), Francesco sufi (Edizioni Croce, Roma, 2008), Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016).

Prezzo di copertina: 18 euro Prezzo effettivo: 15.5 euro