Tradizione e identità

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Tradizione e identità

Il sesto di una serie di articoli di approfondimento del nostro collaboratore Silvio Marconi.

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Non c’é nulla, apparentemente, di più granitico di quel che va sotto il termine di “tradizione”: quasi lo dice il termine stesso, “tradizionale” è certamente, a prima vista, ciò che non solo appartiene ad una determinata cultura, ad una specifica comunità, ma addirittura contribuisce a definirla e quindi a definire la sua identità; se si approfondisce anche solo un poco l’analisi, sorgono però subito molti problemi. Quanto tempo indietro si deve andare per giustificare la caratterizzazione come “tradizionale” di un abito, di un rito, di una fiaba, di una ricetta, di un modo di dire, di una festa, di una decorazione? In molte città del Veneto si sono approvate ordinanze che vietano la somministrazione, nei centri storici, di kebab ma la permettono di polenta e di pizza margherita; certamente il kebab è entrato solo negli ultimi decenni nelle abitudini alimentari di tanti Veneti e sarebbe difficile definirlo parte di una “tradizione gastronomica veneta”, ma un abitante di Rovigo o di Venezia sotto il dominio austroungarico non sapeva neppure cosa fosse la pizza, mentre magari conosceva perfettamente la sacher torte viennese, ed in particolare la “pizza Margherita” è una denominazione data alla fine dell’800 ad una pizza creata a Napoli a cavallo fra XVIII e XIX secolo, per onorare la visita nella città della Regina Margherita (1851-1926). Quanto alla polenta, essa è certo presente nell’alimentazione veneta da più tempo della pizza, ma è pur sempre ignota alle popolazioni che vissero, migrarono, si intrecciarono nel territorio di quel che oggi chiamiamo Veneto per millenni; certo sulla polenta si può fare confusione, anche grazie alle castronerie che scrive quella Wikipedia che ormai rappresenta una delle poche fonti di acculturazione di tanti Italiani, specie giovani: si inizia infatti dicendo “La polenta (conosciuta anche come polenda o pulenda, in Veneto come poenta, pulenta nelle Marche, poulento in provenzale, echtinga nell’argot dei sabotiers di Ayas[2] e puluntu in töitschu[3]) è un antichissimo piatto di origine italiana a base di farina di cereali.” e usare un concetto pressoché atemporale come “antichissimo” è già elemento di confusione. “Antichissimo” quanto e rispetto a che? Più antico dell’età longobarda e bizantina, rimontante ai Paleoveneti o alla colonizzazione romana? In più è errato definire la polenta “piatto di origine italiana” quando si ammette che in effetti è ben nota ad esempio nella regione occitana, che ebbe con la Spagna (vedremo cosa c’entra) connessioni più antiche e strette del veneto….

Wikipedia continua poi: “Il cereale di base più usato in assoluto è il mais, importato in Europa dalle Americhe nel XV secolo” e qui si pone già un punto fermo chiaro: prima dell’arrivo del mais in Europa a seguito della Conquista iberica dell’America Centrale (dove la pianta è originaria e usata come cibo-base da millenni) nessuno poteva farne polenta, anche in Veneto, ma la datazione appena riportata (XV secolo) è errata, e del resto smentita dallo stesso testo di Wikipedia poche parole più in là, quando si precisa che “La prima coltivazione di mais documentata nel nord Italia risale a Lovere, in Val Camonica, da parte del nobile Pietro Gajoncelli, che pare che nel 1658 avesse importato i primi 4 chicchi di mais dalle Americhe.” Ecco allora che solo nella seconda metà del XVII secolo si comincia a coltivare il mais nell’Italia Settentrionale e si può presumere realisticamente che siano necessarie almeno diverse decine di anni perché esso diventi, sotto forma di polenta, un cibo popolarissimo in Veneto e quindi “tradizionale”: una “tradizione” del tutto inesistente nei tanti e tanti secoli precedenti.

Quanto tempo ci vorrà, quindi, perché la pizza venga considerata anche accademicamente “tradizione statunitense”, cosa che del resto secondo i sondaggi già pensano i due terzi dei cittadini USA e il kebab, di matrice turca ma anche genericamente mediorientale, rielaborato in seno alla comunità turca immigrata in Germania, venga considerato “tradizione tedesca”? Più in generale, non esiste ovviamente alcuna regola storico-matematica per fissare dopo quanto tempo un elemento, gastronomico o musicale, artistico o poetico, possa essere considerato “tradizionale!” di un certo luogo, di una certa comunità dal momento in cui vi è stato…introdotto dall’esterno e l’introduzione dall’esterno, può spiacere ai cultori della falsa idea delle “identità pure”, è il caso più comune, non l’eccezione, nel corso dei millenni. Sarebbe interessante, ad esempio, far provare ai “tradizionalisti” italiani come fosse miserrima la scelta alimentare nella Roma arcaico-repubblicana, quando non erano giunti non solo i cibi che esclusivamente la Conquista iberica dell’America centromeridionale rese disponibili (fra gli altri cacao, patata, mais, ananas, peperone, pomodoro, tacchino, ecc.) o quelli derivanti dai traffici avvenuti grazie all’espansione islamica medievale (riso, agrumi, albicocche, carciofi, capperi, caffè, ecc.)  ma anche quelli che solo i commerci e le conquiste della fase tardo-imperiale romana resero disponibili almeno per le classi privilegiate, come le pesche e le ciliege e lo stesso vale per i tessuti (la seta era ancora ignota e con essa il broccato), per gli strumenti (dalla staffa alla forchetta), ecc.

Pure quei “tradizionalisti” si inalberano contro i profumi speziati della cucina dei migranti bengalesi in Italia senza sapere che quelle spezie erano pagate a peso d’oro dai cuochi delle migliori famiglie patrizie del tardo impero romano, le cui cucine li spandevano nell’aria dell’Urbe e magari affrontano squadristicamente il venditore bangladesho, ornati di tatuaggi e coi crani rasati senza sapere che l’una e l’altra pratica giunsero in Occidente solo attraverso i galeotti, i forzati del remo, i prigionieri e derivano in effetti da tradizioni assai diffuse nell’ambito della marineria ottomana musulmana, con radici sia afro-mediorientali (i tatuaggi) che centrasiatiche ed estremo-orientali (la rasatura del cranio), riprese anche da ambienti pirateschi caraibici dei secoli XVI-XVIII.

 

Come spiegare ai poveri epigoni delle parate naziste degli anni ’30, che adorano marciare al ritmo del tamburo, che quello strumento  in generale è assente in tutta l’età classica ed altomedievale in Europa, che giunge in Occidente nel Tardo Medioevo dall’aborrito (per loro e per tanti altri integralisti) Mondo Islamico (che a sua volta lo riceve dalle culture centrasiatiche e indo-iraniche nel frattempo capaci di esportarlo anche verso l’Estremo Oriente) e che si diffonde soprattutto grazie all’espansione ottomana [nella foto l’Impero Ottomano nella fase della sua massima espansione], collegato all’affermarsi di un’altra invenzione turca: la banda militare? Oltre tutto, la forma specifica dei tamburi delle coreografie veteronaziste e neofasciste, ossia quella di un cilindro di grandi dimensioni lineari rispetto al suo diametro, è la derivazione diretta dei tamburi delle truppe germaniche e austriache, certo, ma, come molti altri elementi della loro simbologia e dei loro abiti, deriva ancora una volta dalle matrici ottomane, che influirono tanto sulle compagini militari centroeuropee dei secoli XV-XVII che ebbero a che fare continuamente con tali armate. Perfino i pochi strumenti a percussione usati da alcuni reparti di cavalleria del tardo Impero Romano (da cui derivano alcuni tipi di tamburi usati ad esempio oggi dai Corazzieri a cavallo) non erano affatto…romani, ma propri di truppe ausiliarie con costumi ed usanze siriache influenzate da quei Parti che dei Romani erano acerrimi nemici ma che tanto ruolo ebbero nel far conoscere a Roma la seta e molto altro.

Più in generale si può affermare che in tutti i casi quando si definisce qualcosa come “tradizionale” sarebbe corretto sempre specificare: “a partire dal secolo YY e grazie al contributo di elementi provenienti da WWW”; il che non significa che non esistano “tradizioni” millenarie sostanzialmente autoctone ma che esse stesse sono, con pochissime eccezioni, “contaminate” positivamente da influenze esterne al luogo a cui vengono attribuite e che molto spesso hanno un valore completamente diverso in epoche storiche distinte.  Pretendere di edificare una “identità” culturale di una comunità o peggio ancora di un popolo o men che mai di una Nazione su un insieme di simili “tradizioni” che, in effetti, sono quasi sempre frutto di interazioni fra elementi autoctoni ed elementi importati quando non semplici rielaborazioni di elementi importati vuol dire mistificare gravemente la realtà; negare e nascondere quegli elementi importati e la loro rilevanza vuol dire falsificare Storia ed identità e porre le basi per un processo di distanziamento conflittivo fra un “noi” inventato come puro (e quindi già prefigurato come “superiore”) ed un “loro” di cui si nega l’apporto e quindi si fa equivalere tale apporto ad una “contaminazione negativa”, ad una “infezione”, ad una “impurezza”, che è la radice da cui far germogliare il disprezzo, la costruzione del nemico, la disumanizzazione e criminalizzazione dell’“altro”, il razzismo, l’ansia di estirpazione dell’“altro”, la discriminazione, la deportazione, il genocidio.

Si sarebbe mai riusciti a convincere un rampollo di una famiglia aristocratica viennese ad arruolarsi entusiasticamente nella cavalleria delle SS e partecipare ai massacri di “subumani asiatici” nella Pianura del Don durante l’invasione nazifascista dell’Urss se egli fosse stato cosciente del fatto che le staffe che usava erano invenzione centrasiatica, che i magnifici cavalli lipizzani ammirati con suo padre a Vienna da bambino erano frutto di una selezione di cavalli arabi, che l’arte del dressage era giunta nello stato austroungarico da un modello turco, che senza il contributo delle civiltà asiatiche la “sua” amata Germania non avrebbe conosciuto la polvere da sparo e neppure la carta e la stampa (senza le quali difficilmente Lutero avrebbe potuto diffondere le idee della Riforma) e che l’uniforme degli “Ulani Neri” che un certo stilista Hugo Boss aveva rielaborato per ricavarne (teschio compreso) quella delle SS aveva radici…slave e centrasiatiche? Gli “Ulani Neri” erano un corpo militare prussiano fondato nel 1813 come freikorps, ossia combattenti volontari con funzione prevalentemente di guerriglia, che la mitizzazione posteriore nazional-sciovinista e poi nazista caratterizza come composto prevalentemente da studenti, mentre essi erano solo il 12% e la maggioranza dei volontari erano operai ed artigiani; inizialmente questi reparti non ebbero uniformi ma usarono abiti civili o parti di uniformi raccattate qua e là, ma successivamente si cercò di unificarsi almeno cromaticamente scegliendo il colore nero perché era più facile ritingere gli abiti in nero che nel blu di Prussia che era il colore dinastico. Gradualmente si arrivò ad avere una uniforme vera e propria ma ci volle più tempo perché si giungesse anche ad uniformare i copricapi e molti portarono per lungo tempo i baschi propri delle corporazioni studentesche ed artigiane urbane, compreso un teschio che venne usato fino alla proibizione da parte del re di Prussia, che lo riservò invece agli “Ussari testa di morto” (o “Ussari della Morte”), due reggimenti di Ussari regolari dell’esercito prussiano creati nel 1808 che usavano uniformi nere, ed alla Schwarze Schar (“Banda Nera” o “Legione Nera”) creata dal Duca di Brunswick ma che combatteva avendo per base l’Inghilterra dove si era ritirata. “Ussari” è il termine con cui si distinguevano truppe a cavallo leggere ed è parola di origine non germanica (con grave scorno dei Prussiani e dei loro eredi nazisti…) ma ungherese: huszar; a sua volta huszar deriva dalla parola serba gusar che vuol dire…”pirata” e questo spiega la fortuna che ebbe tra gli ussari il simbolo del teschio, dato che esso era in effetti notissimo ed usatissimo in tutte le marinerie pirate dei secoli XV-XVIII; continuando l’analisi etimologica essa ci fornisce un altro spunto interessante perché il termine serbo deriva da un termine greco usato a Bisanzio, Χω(ν) σάριος chō(n)sários, che significa “brigante”. E’ evidente quindi che lungi dal riferirsi al tanto esaltato “ordine” caro a Prussiani e loro eredi ideologici, il termine sottolineava il carattere “piratesco” di certe milizie, la loro “irregolarità”, il loro porsi ai margini della legalità ed oltre; inoltre la concezione stessa di quelle milizie non appartiene alla storia militare (vogliamo dire alla “tradizione”?) germanica perché furono Serbi (impiegati nel Regno di Ungheria) i primi raggruppamenti di Ussari e si sa bene che i Tedeschi non hanno mai considerato i Serbi e gli Slavi in genere alla pari con loro. Più ancora, va detto che quelle formazioni sia in ambito serbo che bizantino riprendevano strutture, tattiche, simbologie anatoliche, turche, ma di derivazione centrasiatica e che ebbero una grande diffusione nelle terre dell’Europa Orientale (comprese Polonia e Lituania), fin dal XVII secolo, assai prima che approdassero più ad Ovest. Per riassumere, nulla di quegli Ussari prussiani dei primi decenni del secolo XIX, a cui si ispirarono simbolicamente (e non solo) anche le SS naziste, ha radici culturali germaniche ma semmai proprio in quei popoli e quelle culture che i nazisti consideravano “inferiori” e da estirpare!

Questa vicenda può sembrare marginale ma da un lato rappresenta un bell’esempio di come simboli, modelli organizzativi, rituali, elementi iconografici dal valore politico che sono utilizzati da forze che fingono di ispirarsi alla “tradizione pura” autoctona siano quasi sempre, in effetti, figli di apporti esterni, spesso originati in quegli ambiti che i “tradizionalisti” aborriscono, dall’altro dimostra come solo l’ignoranza di questa complessità permetta per decenni di far credere che quei simboli, quei riferimenti abbiano ascendenza nelle suddette false “tradizioni”, mentre semmai la loro vera origine sta nelle “tradizioni” (anch’esse, ben inteso, niente affatto pure….) di soggetti, di comunità, di culture che gli inventori di quelle “tradizioni” disprezzano, rimuovono, disprezzano, tendono ad annichilire quando non ad eliminare.

Certamente, quando si ha prima una egemonia culturale e poi il monopolio assoluto dei mezzi di informazione, educativi, cerimoniali, è più facile far credere ad un giovane di Dresda o di Frankfurt che le SS sono gli eredi degli Ussari Neri, dei Cavalieri Teutonici, dei Germani di Arminio, e portarlo a credere che lo sono anche dei Dori, degli “Arii” che invasero la Valle dell’Indo, e perfino di una super-razza atlantidea ovvero originaria della nordica Thule ancora esistente dentro la “Terra Cava che fargli comprendere la complessità delle interrelazioni fra le popolazioni preistoriche e protostoriche, la rilevanza degli apporti asiatici alle culture “europee”, l’inesistenza delle razze e delle “identità pure” di ogni tipo, l’attivazione continua e plurima nella Storia di circuiti di scambio commerciale e ideologico, etnico e linguistico, artistico e religioso, di intrecci e di rielaborazioni: la banalizzazione è sempre più facile della complessivizzazione e lo è ancor di più (ma si badi non solo) quando si controllano totalitariamente tutti gli strumenti educativi, informativi, rappresentativi, ricreativi. Stabilita poi una panoplia di falsi miti, mistificazioni identitarie, menzogne, forzature, rimozioni capaci di collegarsi fra loro in modo sistemico e produrre nuove idee, teorie, elaborazioni, affermazioni apodittiche, postulati e soprattutto stereotipi, diventa ancor più facile trasmettere schegge divulgative di quel sistema a chi ha meno strumenti critici per età, condizione sociale e culturale, accesso a fonti alternative. Per questo, i processi di invenzione identitaria non hanno conseguenze e riflessi solo nell’immediato, ma trasmettono per decenni, addirittura per secoli la loro influenza, anche quando, come nel caso dei Crociati in Medio Oriente, dei nazisti in Europa, del militarismo nipponico in Asia, vengono sconfitti assieme ai loro progetti ed apparentemente condannati in modo definitivo (e che invece purtroppo non è mai tale…) dalla Storia. Se vi sono ancora milioni di cittadini di un Paese moderno e dalla scienza progredita come gli USA che credono convintamente che la Terra sia piatta e/o che sia il Sole a ruotare attorno ad essa, nonostante i viaggi spaziali, come stupirsi se milioni di persone possono credere all’esistenza ed alla gerarchizzazione delle “razze umane” o all’inferiorità degli Slavi o al fatto che una religione si trasmetta per via biologica o che l’“Uomo Bianco” sia il creatore di ogni elemento di civiltà?

 

I libri di Silvio Marconi

 

Uno studio che, lungi dall’avere un obiettivo “enciclopedico” o di minuziosa analisi storica, vuole evidenziare quelle connessioni e correlazioni – tradizionalmente taciute e rimosse – tra i fenomeni ed i processi che portarono alla crisi ed al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e quelli operanti in un’Asia la cui complessa storia viene, tuttora, sottovalutata.
Quando una farfalla batte le ali in Cina si sofferma sul ruolo che, nella crisi e nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ebbero tanto la Persia quanto, indirettamente, la Cina, dimostrando come il pregiudizio etnocentrico che ancora permea la formazione, la divulgazione e la costruzione dell’immaginario occidentale sia un pernicioso ostacolo a una comprensione di ben più ampio respiro e alla lezione metodologica che ne se ne può trarre.
In questa prospettiva, il riconoscimento di una molteplicità di poli e fattori transculturali è la precondizione per affrontare qualsiasi problematica: storica, politica, economica o strategica.
Una precondizione troppo spesso, volutamente, ignorata da una cultura occidentale che, a differenza di quelle orientali, ha rifiutato la logica olistica privilegiando un approccio molto settoriale.

 

Silvio Marconi – ingegnere, antropologo, operatore di Cooperazione allo sviluppo, Educazione allo Sviluppo e Intercultura – fa ricerca, da anni, nell’ambito dell’antropologia storica e dei sincretismi culturali. Ha pubblicato, al riguardo: Congo Lucumì (EuRoma, Roma, 1996), Parole e versi tra zagare e rais (ArciSicilia, Palermo, 1997), Il Giardino Paradiso (I Versanti, Roma, 2000), Banditi e banditori (Manni, Lecce, 2000), Fichi e frutti del sicomoro (Edizioni Croce, Roma, 2001), Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma, 2002), Dietro la tammurriata nera (Aramiré, Lecce, 2003), Il nemico che non c’è (Dell’Albero/COME, Milano, 2006), Francesco sufi (Edizioni Croce, Roma, 2008), Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016).

Prezzo di copertina: 18 euro Prezzo effettivo: 15.5 euro