Stravolgendo sacro e profano

Il quarto di una serie di articoli di approfondimento del nostro collaboratore Silvio Marconi.
Per leggere il terzo, clicca qui!
Quasi tutte le culture umane sono state contraddistinte, in diverso grado, da concezioni etnocentriche, ossia che pongono la propria realtà e comunità in una posizione privilegiata rispetto alle altre, anche quando questo non si è tradotto in atteggiamenti razzisti ed anche quando non ha impedito l’“apertura” attiva alle influenze “straniere”; in molte lingue di popolazioni umane il termine con cui si definisce la propria comunità è semplicemente quello che corrisponde al concetto di “essere umano”, il che farebbe pensare subito al fatto che in queste situazioni si considerino gli “altri” come “non umani”. In realtà solo in pochi casi si può fare questo collegamento, che ha senso solo sulla base di una contrapposizione che non è affatto propria alla maggioranza delle culture, per le quali, auto-definirsi “uomini” non vuol dire molto di più che autodefinirsi “popolo” o “noi” e non esclude affatto il considerare la natura umana degli ”altri”. L’etnocentrismo non razzista e non discriminatorio, non aggressivo e non esclusivo è piuttosto un atteggiamento che serve a rafforzare la fiducia in se stessi, anche costruendo strumenti mitico-leggendari atti a dare alla propria comunità radici cariche di valore, forza, coraggio, approvazione divina.
Naturalmente, un etnocentrismo può sempre evolversi verso forme maggiormente discriminatorie, aggressive, fino a raggiungere talora la sfera del razzismo, ma è importante notare che questo processo può essere invertito e comunque che si tratta sempre, appunto, di un processo, che ha le sue motivazioni, le sue responsabilità, i suoi attori. Ad esempio, la concezione romana si evolve a partire da una indispensabile “apertura” etnica e culturale propria della fase arcaica verso una chiusura maggiore nella fase tardo-repubblicana imperialista; la Roma che combatte contro Etruschi, Sanniti ed altri popoli della Penisola è certamente feroce, a tratti stragista, certamente convinta del suo diritto di conquista, ma non si chiude agli apporti culturali, rituali, religiosi, tecnici degli altri popoli che considera certo nemici, a volte nemici da sterminare, ma non “inferiori” a se stessa. Non si trova nulla di sbagliato nell’adottare calendari e riti etruschi, pratiche sannite, tecniche agricole campane come, successivamente, non si negherà mai il livello altissimo di una cultura greca che, pur soggiogata, resta per i Romani modello artistico e medico, religioso e mitologico. Diversissimo è, invece, l’atteggiamento dei Romani, specie nella tarda età repubblicana, verso popolazioni germaniche e galliche che, pure, sono state più volte capaci di mettere militarmente in difficoltà le forze romane; queste popolazioni sono descritte dagli autori romani come portatrici di una “alterità” assoluta rispetto alla società romana, che riguarda praticamente tutti gli ambiti: le armi, le forme di combattimento, gli abiti, la lingua, i riti, la struttura sociale, il ruolo delle donne in guerra e molto altro. Queste genti combattono seminudi anche col clima freddo, indossano pantaloni (che diventano così simbolo di “barbarie” tra i Romani), portano i capelli e le barbe lunghi, non hanno veri templi costruiti secondo regole architettoniche ma sacralizzano boschi e paludi, vedono le donne incitare in battaglia i loro uomini e perfino, talvolta, combattere, non vivono in vere città ma in insediamenti diffusi, non hanno leaders stabili ma scelti di volta in volta, praticano rituali considerati feroci (come se i Romani non praticassero sacrifici umani fino all’epoca delle guerre Puniche ed oltre…), e soprattutto sono, a differenza di Greci ed Etruschi e Cartaginesi, privi di scrittura! Questo disprezzo non nasce spontaneamente, è creato, prodotto, coltivato, da specifici settori sociali e politici dell’élite romana schiavista, che disprezza quasi allo stesso modo la plebe romana stessa che gradualmente espropria di terre e diritti, e che non si fa peraltro scrupoli di violare le norme romane tanto esaltate quando ciò serve ai propri interessi di classe e personali. Spesso la glorificazione di certi personaggi romani a cui ci hanno abituato la scuola e la toponomastica ci fanno dimenticare che si tratta di “signori della guerra” che calpestano le leggi di Roma, oltre che rendersi responsabili di genocidi che non hanno nulla da invidiare a quelli moderni: ad esempio, il Giulio Cesare a cui sono intitolate scuole e piazze e che studiamo a scuola viola tutte le leggi romane e compie un vero e proprio colpo di stato ed in più massacra e schiavizza oltre un milione di Galli. Sono gli ambienti socioeconomici e politici che esprimono i Silla, i Crasso, i Cesare, i Pompeo, gli Antonio e gli Ottaviano gli autori della “barbarizzazione”, ossia della criminalizzazione assoluta di Galli e Germani e di molti altri popoli (gli Iberi, ad esempio) che sono considerati come “naturalmente inferiori” ai Romani.
La situazione muta gradualmente con il consolidarsi dell’Impero ed il rallentare ed infine cessare della sua espansione, fino ad arrivare a Caracalla che, come si è detto, estende a tutti gli abitanti liberi dell’Impero la cittadinanza romana, senza alcuna distinzione; non cambia inizialmente il disprezzo verso i “barbari” del Nord, ma in compenso nessuno sosterrebbe che siano “inferiori” ai Romani i popoli mesopotamici e iranici e anche verso i “barbari” della Germania e dei Balcani si avviano politiche di accettazione e di integrazione, come coloni e come truppe ausiliarie; il contraltare di questa evoluzione si avrà coi cosiddetti “regni romano-barbarici”, ossia quando popolazioni e confederazioni germaniche (in particolare dei rami dei Goti e dei Longobardi e dei Franchi) raggiungeranno la supremazia militare sullo sfaldato Impero Romano d’Occidente e vi fonderanno compagini statuali che vedranno il mescolarsi dell’elemento germanico e di quello romano (o romanizzato) in tutti i campi: la giurisprudenza e la lingua, le armi e le decorazioni, i riti e la gastronomia, le forme di strutturazione degli insediamenti e la gioielleria.
Come si vede, la costruzione dell’“identità romana” e dell’identità dell’“altro da Roma” è essa stessa un processo dinamico, con i suoi attori e i suoi tempi e non corrisponde affatto ad una concezione fissa, rigida, caricaturale come quella cara alle rappresentazioni hollywoodiane o fascisteggianti; per fabbricare la sua identità, Roma pratica poco, sulla grande scala, quell’uso della falsificazione che invece le è ben familiare a piccola scala, ad esempio nella propaganda affidata alla letteratura mitica stile Eneide: non ritiene neppure di dover giustificare o mascherare le sue azioni e la legittimazione del suo potere, sebbene ritenuta di origine divina, si trova in effetti solo nelle sue vittorie ed è per questo che Roma non sopporta sconfitte non vendicate o ribellioni non schiacciate, perché mettono in discussione la vera fonte della sua potenza, la vittoria.
Diverso, ma sempre processuale, è il percorso di costruzione della “identità iberica”, che non parte affatto da una situazione di vittorie militari e per questo deve inventare un fondamento divino più coagente, più attivo, più indiscutibile; la “Spagna” medievale è figlia della lotta fra i piccoli potentati cattolici del Nord della Penisola Iberica e i poteri islamici nella penisola, che inizialmente sono non solo vittoriosi ma caratterizzati da un livello di cultura e civiltà di gran lunga più raffinato di quello dei rozzi Galiziani o Vizcayini. Per secoli, mentre combattono contro i “Mori”, gli uomini corazzati dell’iberocattolicesimo sono costretti ad importare e cercare di copiare architetture e tecniche militari, letteratura e cibi, costumi e medicine, musiche e artigianato islamici e sarebbe assai difficile costruire su una inferiorità culturale di fatto le basi per una concezione suprematista se non si facesse riferimento ad una “missione sacra” che garantisce tale fittizia superiorità; in questo caso, quindi, il fondamento stesso della costruzione identitaria è falso e per di più, a differenza di quello romano, che non aveva bisogno di centrarsi sul nemico, si basa esclusivamente sulla contrapposizione all’“infedele” musulmano. La “cattolicissima Spagna” è tale solo perché combatte i Musulmani in nome e per conto di Dio: questa è la sua “legittimazione” e la radice della sua identità ed è evidente che ciò comporta una chiusura raramente riscontrabile in altre situazioni, che porterà nel corso dei secoli alla scelta imposta ad Ebrei e Musulmani di convertirsi forzatamente al Cattolicesimo o essere sterminati o scacciati e poi, non bastando questo, alla persecuzione di quegli stessi Ebrei e Musulmani convertiti a forza, accusati di praticare nascostamente la loro religione, il che va addirittura contro gli stessi principi della Chiesa cattolica, che non ammette alcuna distinzione fra i Cristiani originari e i convertiti.
Non basta ancora; la pratica repressiva deve essere fondata su un altro, ulteriore, livello di menzogna che serve proprio ad aggirare quei precetti cristiani a cui si è fatto cenno: si teorizza che il “cancro giudeo” o “maomettano” si trasmette con il sangue, di generazione in generazione e quindi il sospetto di cripto-giudaismo e cripto-maomettanesimo non si limita al convertito a forza ed ai suoi parenti, ma si estende alla sua discendenza, anche a chi nasce dopo quella conversione, viene battezzato e non ha, secondo le regole “normali” della Chiesa cattolica, alcun elemento che ne giustifichi una discriminazione su base religiosa. Per le regole iberocattoliche, è “cristiano viejo”, e quindi suddito a tutti gli effetti dello Stato spagnolo, esclusivamente chi non ha Ebrei o Musulmani nelle quattro generazioni ascendenti! Interessante è il fatto che la Storia stessa della Penisola Iberica rende pressoché impossibile, specie nelle regioni meridionali, trovare nel XVI-XVII secolo persone che non abbiano avi musulmani o ebrei e quindi questa regola produce una innumerevole quantità di diplomi falsi, favorisce una corruzione diffusa, genera quindi a sua volta numerosissime non-verità, figlie legittime di una falsità palese, che associa la genealogia e la biologia alla trasmissione delle idee religiose, cosa che verrà ripresa dal nazismo.
Come si vede, a differenza del caso romano antico, quello ibero cattolico trova nella falsità la sorgente principale della definizione identitaria ed è significativo il fatto che esso si trasforma, nel corso dei secoli, nel riferimento principe di tutte le più importanti falsificazioni identitarie successive, anche in ambiti apparentemente distanti da quello cattolico spagnolo. Infatti, non si può sostenere che il razzismo di un Gobineau o di un Chamberlain o di un Rosenberg sia direttamente derivato dal decreto sulla “limpieza de sangre” ibero cattolico dell’inizio del XVII secolo, eppure, prima di quel decreto, nessun autore europeo aveva teorizzato il rapporto fra genealogie e ideologie (in particolare religiose), dando ad esso, inoltre, un carattere nettamente razzistico; alla costruzione delle menzogne identitarie razziste moderne manca solo un elemento, che verrà fornito (con vari corollari) dal positivismo tardo-settecentesco ed ottocentesco, quello dell’applicazione a tale ambito dei concetti, stravolti, evoluzionistici.
Il Darwinismo rappresenta, in effetti, una vera e propria rivoluzione non solo in campo strettamente scientifico ma anche filosofico ed ideologico e, innanzi tutto, mette in discussione il creazionismo ma pone anche le basi per spiegare i meccanismi di differenziazione degli esseri viventi sulla base del vantaggio adattativo, che è un concetto che Darwin applica solo all’ambito animale, ma nel momento stesso in cui anche il processo di ominazione viene ricondotto all’evoluzione, si stabilisce un ponte biologico ma anche concettuale fra mondo animale e Umanità e questo consente l’elaborazione di nuove teorie che servono a legittimare il colonialismo e l’imperialismo dei “Bianchi” che esplode nel secolo XIX. Si crea così una tendenza intellettuale che trasferisce il principio del “prevalere del più adatto” dall’ambito animale a quello umano, si cerca l’“anello mancante” tra l’Uomo e i Primati, si comparano le popolazioni “primitive” esistenti sul Pianeta ai resti paleontologici, si stabiliscono graduatorie fra popolazioni umane che vedono, ovviamente, il “Bianco” al vertice ed il “Nero” a fondo scala, si definiscono le pseudo-caratteristiche delle “razze umane” mescolando elementi antropologici e biblici, si articola la classificazione dei tipi umani in categorie numerose e complesse, si ipotizza che la mescolanza “razziale” sia fattore di degrado e non di fioritura e si teorizza pertanto la sua proibizione.
A questo sforzo partecipano scienze appena nate come l’antropologia, elaborazioni della glottologia e della linguistica, teorie fondate su analisi archeologiche, studi biblici, esoterismo, in un impegno che vede ogni branca legittimare e rafforzare le teorie e le pseudo-acquisizioni delle altre e che lascia spazio libero alle concezioni più deliranti, dove distinguere ancora tra idee false ed idee discutibili ha perfino poco senso perché esse sono fra loro indissolubilmente intrecciate.
Si pensi al fatto che, stabilito per comune accordo degli studiosi al servizio delle mistificazioni coloniali razziste che i “Bianchi” sono il vertice dell’evoluzione umana, si tratta però di sistemare dentro quella categoria le varie realtà delle popolazioni delle potenze colonialiste ed ecco allora lo scontro tra chi pone i Tedeschi al vertice e chi invece predilige gli Inglesi, tra chi unifica le due realtà nel concetto di “Anglo-Sassoni” e chi invece estrapola dall’ambito linguistico e lo trasferisce arbitrariamente in quello etnobiologico il concetto di “Ariani”, fra chi si batte per un ruolo dei Francesi e chi li vede invece come “meticci” e quindi “inferiori”.
Nelle diverse società europee e nelle distinte fasi del passaggio dal secolo XIX al secolo XX questi intrecci e questi scontri accompagnano le politiche concrete, che si traducono nella spartizione coloniale dell’Africa, nelle Guerre dell’Oppio, nella conquista britannica dell’India, nello sterminio degli autoctoni nordamericani, in un rapporto strettissimo tra effettive ragioni di rapina economica e fittizie legittimazioni scientifico-filosofiche. E’ la fase in cui l’elemento “falsità” ha maggiore importanza nei processi identitari, a tutte le scale, e da cui si genereranno le mostruosità successive. Se non si comprende questa rilevanza, è difficile mantenere la distinzione fra “discutibile” e “falso” e si rischia di banalizzare ciò che è mostruoso credendo che discutibilità e falsificazione siano equivalenti; in effetti se si accetta l’esistenza, falsa, delle “razze umane” si è già ad un passo dall’accettarne la categorizzazione in livelli “superiori” ed “inferiori” e quella categorizzazione implica necessariamente pratiche discriminatorie che partono dal boicottaggio ed arrivano allo sterminio: non esiste alcun “razzismo moderato” proprio perché è il fondamento stesso di quell’edificio ad essere falso e sul falso non si può né costruire qualcosa di positivo, né porre limiti allo scivolamento verso l’orrore.
I libri di Silvio Marconi
Uno studio che, lungi dall’avere un obiettivo “enciclopedico” o di minuziosa analisi storica, vuole evidenziare quelle connessioni e correlazioni – tradizionalmente taciute e rimosse – tra i fenomeni ed i processi che portarono alla crisi ed al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e quelli operanti in un’Asia la cui complessa storia viene, tuttora, sottovalutata.
Quando una farfalla batte le ali in Cina si sofferma sul ruolo che, nella crisi e nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ebbero tanto la Persia quanto, indirettamente, la Cina, dimostrando come il pregiudizio etnocentrico che ancora permea la formazione, la divulgazione e la costruzione dell’immaginario occidentale sia un pernicioso ostacolo a una comprensione di ben più ampio respiro e alla lezione metodologica che ne se ne può trarre.
In questa prospettiva, il riconoscimento di una molteplicità di poli e fattori transculturali è la precondizione per affrontare qualsiasi problematica: storica, politica, economica o strategica.
Una precondizione troppo spesso, volutamente, ignorata da una cultura occidentale che, a differenza di quelle orientali, ha rifiutato la logica olistica privilegiando un approccio molto settoriale.
Silvio Marconi – ingegnere, antropologo, operatore di Cooperazione allo sviluppo, Educazione allo Sviluppo e Intercultura – fa ricerca, da anni, nell’ambito dell’antropologia storica e dei sincretismi culturali. Ha pubblicato, al riguardo: Congo Lucumì (EuRoma, Roma, 1996), Parole e versi tra zagare e rais (ArciSicilia, Palermo, 1997), Il Giardino Paradiso (I Versanti, Roma, 2000), Banditi e banditori (Manni, Lecce, 2000), Fichi e frutti del sicomoro (Edizioni Croce, Roma, 2001), Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma, 2002), Dietro la tammurriata nera (Aramiré, Lecce, 2003), Il nemico che non c’è (Dell’Albero/COME, Milano, 2006), Francesco sufi (Edizioni Croce, Roma, 2008), Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016).
Prezzo di copertina: 18 euro Prezzo effettivo: 15.5 euro