Razzismi mal mascherati; l’Asia non è al centro?

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Razzismi mal mascherati; l’Asia non è al centro?

A cura di Silvio Marconi, autore di Quando una farfalla batte le ali in Cina

 

Napoleone Bonaparte nel 1812 attacca la Russia, apparentemente solo perché la Russia, formalmente sua alleata in questa fase, non applica alla lettera il blocco dei porti contro l’Inghilterra.  In realtà, dietro quella decisione ci sono anche motivazioni ideologiche che, ancora una volta, mostrano l’intreccio fra due elementi, entrambi razzisti. Il primo è che Napoleone condivide la concezione che include la Russia nell’Asia, anzi più precisamente in quella che lui stesso chiama “barbarie asiatica”; il secondo è quello stesso che aveva espresso quando, durante la campagna d’Egitto, aveva ammonito contro il “pericolo giallo” di una Cina per ora “dormiente” ma che un giorno si sarebbe risvegliata, creando grandi problemi all’Occidente.

Per Napoleone, come per i Cavalieri Teutonici molti secoli prima e come per Hitler 130 anni dopo, l’invasione della terra russa è un progetto di conquista di risorse e territorio, di sfruttamento economico, ma anche di scontro fra quell’Occidente che tutti quegli attori credono superiore e destinato alla supremazia planetaria e quella Russia che incarna la “barbarie asiatica” in attesa del risveglio della Cina, che però i Cavalieri Teutonici non conoscevano e che al più identificavano nel lontano e misterioso pericolo mongolo, anche se si troveranno di fronte anche cavalieri mongoli, alleati del sovrano polacco, quando combatteranno contro i Polacchi.

Dunque per Napoleone  il suo attacco è anche se non soprattutto una guerra fra la civiltà occidentale e la barbarie asiatica incarnata dalla Russia. In realtà, di fronte ha uno zar, Alessandro, che parla francese come avviene in tutte le corti d’Europa, che adora la cultura francese, che si circonda di elementi delle mode e dell’arte francese, ma anche di altri Paesi europei, inclusa quell’Italia che dà alla Russia musici ed architetti, tecnici e cuochi, attori e artigiani che vivono a San Pietroburgo, a Mosca, ma anche in città come Odessa. Ma tutto questo per l’élite postrivoluzionaria francese non conta: la Russia è la barbarie asiatica! Quando, nel 1815, dopo la sconfitta napoleonica a Waterloo, la nemesi di questa vicenda sarà compiuta ed i cosacchi russi cavalcheranno per le vie di Parigi, ci si renderà forse conto che si tratta di uomini simili ai Francesi, che lasceranno in eredità della loro presenza la parola bistrot che in Francese indica locali in cui si può realizzare una consumazione rapida ma che deriva dall’espressione russa che quegli uomini usano per sveltire i camerieri parigini.

E’ proprio questa concezione che pone sempre l’Occidente al centro del Mondo e tutto il resto come periferia da soggiogare che trasforma la guerra franco-russa del 1812, per i Russi, in una Guerra Patriottica russa, termine che non a caso verrà ripreso da Stalin dinanzi all’invasione nazifascista del 1941, con l’aggiunta del termine “grande”: la “Grande Guerra Patriottica”.

L’appello del comandante russo Kutusov ai suoi soldati e soprattutto al suo popolo, pur oppresso dall’autocrazia zarista, si basa sui valori del patriottismo e sull’odio verso l’invasore e chiama alla guerriglia, al sabotaggio, a fare terra bruciata dinanzi all’invasore, ottenendo una risposta di massa, che vede perfino le donne, i servi della gleba immolarsi contro i Francesi per disturbarne le comunicazioni ed i rifornimenti, motivati anche dai sacerdoti ortodossi che svolgono un ruolo simile per certi versi a quello dei commissari politici dell’Armata Rossa nella Grande Guerra Patriottica del 1941, mentre ad esempio nella battaglia di Borodino i feriti russi combattono fino alla morte senza chiedere di essere evacuati. Eccola la Russia “barbara asiatica”! I barbari sono in realtà gli invasori francesi, che ad esempio per prendere la città russa di Smolensk la faranno bruciare interamente con tutti gli abitanti al suo interno, morti per difenderla assieme a parte delle truppe e coprire la ritirata del grosso delle truppe dello zar, che impiccano senza processo ogni contadino accusato di sabotaggio, che saccheggiano sistematicamente ogni villaggio, che impongono la consegna di tutti gli animali,  che stuprano le donne e sgozzano i mariti, ma la memorialistica occidentale continuerà a presentare i Francesi (e Italiani, Prussiani, Belgi, Olandesi che fanno parte della Grande Armée) come un’Armata gloriosa e sfortunata e descrivere la ritirata francese dalla Russia con gli stessi toni di epicità e di comprensione e compassione che verranno usati per la ritirata dell’ARMIR italiana dal Don 130 anni dopo.

Non casualmente, ancora, Stalin utilizzerà nella Grande Guerra Patriottica anche il simbolo di un generale aristocratico, clericale e zarista come Kutusov, perché egli incarna la volontà russa di non cedere di fronte agli invasori e, questa volta, gli stivali nemici non calpesteranno le strade di Mosca come invece riuscirono a fare i francesi: quarantamila soldati tedeschi sfileranno, certo, per le vie di Mosca ma come prigionieri dell’Armata Rossa da avviare verso le regioni asiatiche e siberiane!

E’ bene sottolineare ancora una volta l’elemento di continuità nella diversità: nel XIII secolo il principe Aleksandr Jaroslavič (detto Nevskij) di Novgorod combatte contro gli invasori teutonici e li vince in varie battaglie, compresa quella decisiva sul lago Peipus ghiacciato (5 aprile 1242), immortalata non  a caso in un celeberrimo film sovietico del 1938 del regista sovietico Eizenstein, con colonna sonora di Prokofiev, prodotto, sotto l’egida di Stalin. Solo un anno prima dell’invasione tedesca della Polonia e tre anni prima di quella nazifascista dell’URSS.

 

 

Aleksandr Nevskij fa però qualcos’altro: respinge le pressioni papali  che vorrebbero farlo dissanguare in una lotta tremenda contro i tartari, per poter permettere ai rappresentanti germanici del cattolicesimo militante (antislavo), ossia proprio ai Cavalieri Teutonici, di  colpirlo alle spalle: il principe preferisce farsi vassallo dei Tartari, ossia sceglie apparentemente l’Asia contro l’Occidente, mentre in realtà sta solo garantendo la sopravvivenza della sua compagine statuale e la Chiesa Ortodossa sottolinea il valore certo non filo-tartaro e filo-pagano di tale personaggio santificandolo nel Sinodo del 1547!

Per gli Occidentali ed il Papato, invece, Aleksandr Nevskij è un ostacolo che l’Asia barbarica ha posto sulla retta via dei figli della Vera Fede che dal tempo stesso di Carlo Magno hanno iniziato (con lo sterminio delle popolazioni slave delle regioni prussiane) la “marcia nach Osten”, ossia verso Oriente, con l’obiettivo duplice di conquistare terre e risorse, schiavizzando gli abitanti, e di espandere il potere religioso della Chiesa di Roma, cristiana, certo, ma nemica di Costantinopoli, che i Crociati cattolici, guidati dai Veneziani, assediano, devastano e saccheggiano nel 1204 (saccheggio da cui tra l’altro provengono i cavalli bronzei che adornano ancora oggi Piazza San Marco a Venezia), 38 anni prima della sconfitta dei “Crociati del Nord” (così erano considerati i Cavalieri Teutonici)  da parte di Aleksandr Nevskij. Un “Oriente” che per gli Occidentali è già e pienamente Asia e lo sarà ancor di più con il dilagare verso Ovest dell’Orda d’Oro tartara che, creata dal nipote di Gengis Khan, Batu Khan , domina le pianure russe dal XIII al XIV secolo.

E’ a questo periodo che si rifà ogni successiva identificazione della Russia con la barbarie asiatica e specificamente con quella mongolo-tartara, in un’epoca in cui ancora non si pensa alla Cina e men che mai al Giappone o agli altri territori dell’Estremo Oriente ed in cui l’Asia sono appunto, per gli Occidentali, i tartaro-mongoli ed i principati che danno vita alla Russia.

Anche Napoleone, come si è detto, sebbene intraveda un futuro ruolo della Cina e sebbene sia già conscio delle caratteristiche di un subcontinente indiano che diventa uno dei terreni dello scontro tra Francia e Gran Bretagna ben prima della sua epoca, vede l’Asia nella Russia e la Russia come Asia e ne trae le conseguenze che ogni razzista occidentocentrico trae in ogni epoca: si ha a che fare con genti e istituzioni inferiori e barbare che vanno soggiogate e civilizzate!

Quando scoppia la Prima Guerra Mondiale, mentre sui fronti occidentali essa si trasforma rapidamente (dopo una fase iniziale “di manovra”) in guerra di trincea, sul fronte orientale lo scontro fra Austro-tedeschi e Russi resta sostanzialmente una guerra di manovra e i primi tendono a muovere ancora una volta “nach Osten” sulle orme dei Cavalieri Teutonici, non solo in senso materiale ma simbolico, posto che tali Cavalieri vengono presentati alle truppe (e soprattutto agli ufficiali) come l’esempio da seguire, il mito da onorare, gli eroi da vendicare. Con la pace di Bresyt-Litovsk (3 marzo 1918) il nuovo governo sovietico mantiene la promessa di far cessare la guerra ma è costretto a cedere immensi territori polacchi, ucraini, baltici che vengono occupati soprattutto dai Tedeschi, che cominciano ad elaborare piani per lo sfruttamento che non potranno mettere in atto solo per la sconfitta che vedrà capitolare la Germania e l’Austria nell’autunno successivo dinanzi alle potenze dell’Intesa. Anche in questo caso, se si scorrono i giornali dell’epoca tedeschi ed austriaci, si vede come la Russia sia presentata come una terra asiatica barbara ed arretrata che aspetta solo di essere “valorizzata” dal genio germanico.

Hitler non è certo da meno: il suo piano prevede la morte per fame di 30 milioni di cittadini sovietici per creare lo “spazio vitale” per la colonizzazione tedesca, la distruzione delle città sovietiche, la rapina degli alimenti e delle risorse minerarie, l’uso di quelle fabbriche che servano alla produzione militare, la schiavizzazione di altri 30 milioni di Russi, Bielorussi, Ucraini, lo sterminio di Ebrei, comunisti e Rom, il rapimento di tutti i bambini con tratti somatici “germanici” per “reinserirli nel cuore della germanicità”, l’uso dei Tedeschi del Volga e di tutti quegli Slavi che avessero caratteristiche somatiche (“razziali”) presuntamente germaniche come coloni, la trasformazione della Crimea in area turistica per i Tedeschi (“Gotenland”), la creazione di grandi assi autostradali e di superferrovie. Altri 30 milioni di Sovietici dovrebbero essere cacciati oltre gli Urali, confine tra la “civiltà millenaria” dell’Europa  nazificata e la “barbarie asiatica” in cui relegare i resti della Russia, certamente, secondo Hitler, non più bolscevica. Alla Cina avrebbe pensato il Giappone…Un piano che è la traduzione nei termini  della modernità, del vecchio scontro fra “civile Occidente” e “barbara Asia”.

Perfino quando la resistenza, prima, e le controffensive sovietiche, poi, rovesciano definitivamente le sorti della guerra e avviano la Germania hitleriana ed i suoi collaborazionisti verso la disfatta, il progetto tedesco continua a voler fare i conti con questa contrapposizione fra una Europa germano centrica e un’Asia identificata nella Russia che è certo per di più bolscevica ma che è soprattutto non-Europa, non-Occidente, Asia, appunto! Si è detto “progetto tedesco” e non semplicemente “progetto hitleriano” perché esso non era caratteristico solo della visione nazista nella fase dell’invasione, ma anche di tanti esponenti della casta militare tedesca, degli ambienti aristocratici, degli intellettuali che in vari momenti complottarono contro Hitler, compreso il famoso attentato del 20 luglio 1944. Lo stesso von Stauffenberg, come pure il suo entourage, intendono eliminare Hitler ma con l’obiettivo di convincere gli Angloamericani di cessare di combattere contro una Germania ripulita da Hitler e di unirsi anzi ai tedeschi contro le “orde asiatiche bolsceviche”. La loro analisi si basa certo sul fattore dell’anticomunismo e sul ricordo dell’intervento militare contro la Russia bolscevica che aveva visto negli anni ’20 l’impegno anche di Francesi, Inglesi, Statunitensi, ma si basa anche su qualcosa di più profondo, come del resto tutto quel che guida le scelte germaniche: la correlazione con la Storia della lotta fra genti germaniche (che si auto considerano centro del centro del Mondo e superiori a ogni altro popolo) e barbari dell’Asia, di cui gli Slavi (ed in specie i Russi) fanno ai loro occhi pienamente parte.

La Guerra Fredda comincia però con qualche anno di ritardo e la Germania non fa in tempo a vedere il voltafaccia occidentale prima della sua totale disfatta, anche se essa permetterà il salvataggio di tanti criminali nazisti (due nomi fra tutti: Gehlen, capo dei servizi di informazione nazisti sul fronte orientale, che diventa alto responsabile dei servizi segreti della rinata Germania Occidentale, e Von Braun, progettista delle V1 e V2 e direttore della loro produzione da parte di deportati schiavizzati, che diventa il fulcro del programma spaziale statunitense) e di ancor più numerosi collaborazionisti ucraini, baltici, croati, repubblichini, fatti giungere (con complicità di quella Chiesa Cattolica che aveva in passato benedetto le stragi carolinge, quelle dei Cavalieri Teutonici, l’alleanza coi Turchi nella Guerra di Crimea, l’invasione dell’URSS e molto altro) in Australia, Canada, Sud America e USA e spesso integrati begli apparati occidentali della Guerra fredda stessa.

Nel frattempo, pochi anni dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, l’Occidente avrà a che fare con un’“altra” Asia: l’Asia della lotta per l’indipendenza indiana ed indonesiana, l’Asia della Cina che diventa comunista, l’Asia della Guerra di Corea, l’Asia della lotta dei Viet Minh contro i colonialisti francesi e poi della pluridecennale Guerra di Indocina fra USA (e loro fantocci locali) e  Viet Cong Nordvietnamiti, Pathet Lao e guerriglieri cambogiani.

Eppure, mai l’Occidente cesserà fino ad oggi di voler percepire, accanto ai “musi gialli” con cui definisce sprezzantemente ad ogni occasione le genti dell’Estremo Oriente ogni qualvolta esse si trovino dall’altra parte della barricata, i Russi (sovietici o psotsovietici, come era avvenuto già in età zarista) come “barbari eredi dei Tartaro-Mongoli”, preferendo ancorare le sue scelte, anche quando ciò sia suicida, ad antichi pregiudizi razzisti invece che ad analisi di quanto quei pregiudizi siano stati sempre falsi e di quanto, comunque, il Mondo sia cambiato e stia cambiando, con un’Asia che torna ad avere il ruolo centrale che ebbe per millenni, negato purtroppo dai nostri manuali di Storia.

 

I libri di Silvio Marconi

 

Uno studio che, lungi dall’avere un obiettivo “enciclopedico” o di minuziosa analisi storica, vuole evidenziare quelle connessioni e correlazioni – tradizionalmente taciute e rimosse – tra i fenomeni ed i processi che portarono alla crisi ed al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e quelli operanti in un’Asia la cui complessa storia viene, tuttora, sottovalutata.
Quando una farfalla batte le ali in Cina si sofferma sul ruolo che, nella crisi e nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ebbero tanto la Persia quanto, indirettamente, la Cina, dimostrando come il pregiudizio etnocentrico che ancora permea la formazione, la divulgazione e la costruzione dell’immaginario occidentale sia un pernicioso ostacolo a una comprensione di ben più ampio respiro e alla lezione metodologica che ne se ne può trarre.
In questa prospettiva, il riconoscimento di una molteplicità di poli e fattori transculturali è la precondizione per affrontare qualsiasi problematica: storica, politica, economica o strategica.
Una precondizione troppo spesso, volutamente, ignorata da una cultura occidentale che, a differenza di quelle orientali, ha rifiutato la logica olistica privilegiando un approccio molto settoriale.

 

Silvio Marconi – ingegnere, antropologo, operatore di Cooperazione allo sviluppo, Educazione allo Sviluppo e Intercultura – fa ricerca, da anni, nell’ambito dell’antropologia storica e dei sincretismi culturali. Ha pubblicato, al riguardo: Congo Lucumì (EuRoma, Roma, 1996), Parole e versi tra zagare e rais (ArciSicilia, Palermo, 1997), Il Giardino Paradiso (I Versanti, Roma, 2000), Banditi e banditori (Manni, Lecce, 2000), Fichi e frutti del sicomoro (Edizioni Croce, Roma, 2001), Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma, 2002), Dietro la tammurriata nera (Aramiré, Lecce, 2003), Il nemico che non c’è (Dell’Albero/COME, Milano, 2006), Francesco sufi (Edizioni Croce, Roma, 2008), Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016).

 

Prezzo di copertina: 18 euro Prezzo effettivo: 15.5 euro