Puzzles e caleidoscopi identitari

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Puzzles e caleidoscopi identitari

Il nono di una serie di articoli di approfondimento del nostro collaboratore Silvio Marconi che ha appena pubblicato, con Viverealtrimenti, il testo Quando una farfalla batte le ali in Cina, presto in distribuzione a livello nazionale. Al momento, è possibile comprare il testo, scontato, sul nostro sito ed averlo recapitato, gratuitamente, a domicilio.

 

Ognuno di noi spesso viene classificato o si auto-classifica attraverso un termine identitario di qualche tipo, ed è pertanto “un Cristiano”, uno “juventino”, un “anti-abortista”, un “vegano”, un “Bergamasco”, ecc., perché di volta in volta pressioni esterne, situazioni al contorno, evolversi di condizioni sociopolitiche, eventi cataclismatici, conflitti, migrazioni e molti altri fattori portano noi stessi e gli altri a identificarci con una sola delle sfaccettature identitarie e questo può avvenire temporaneamente o in forma tale da cristallizzare quella specifica sfaccettatura o un insieme di sfaccettature connesse fra loro in una identità dominante, prevalente o addirittura tale da monopolizzare  il volto per così dire “pubblico” di individui e comunità.

Essere tifoso della Roma o del Celtic, del Barclà o del Galatasaraj potrebbe sembrare una dimensione identitaria minore rispetto a quelle religiosa, politica, nazionale, etnica, ma sarebbe un errore pensare che tale identità si indossi e si svesta all’entrata ed all’uscita dagli stadi o dai club sportivi; al contrario, meccanismi di marketing e fenomeni “di branco”, riti e interessi economici, condivisioni e conflittualità, media e forme dell’organizzazione delle tifoserie portano in molti casi a rendere quella identità prevalente sulle altre, addirittura apparentemente come unica e la propria squadra di riferimento diventa la “piccola patria”, il proprio club sportivo la tribù, i rituali del tifo organizzato assumono dimensioni quasi-sacrali, i conflitti fra tifoserie si avvicinano pericolosamente a quelli in armi. Ciò è tanto vero che sono numerosi i casi in cui le tifoserie organizzate calcistiche vengono facilmente trasformate in bande di squadristi e se questo, in effetti, spesso avviene paradossalmente travalicando l’“identità del club” e vede ad esempio uniti da razzismo e neofascismo settori significativi delle tifoserie organizzate altrimenti opposte (come nel caso, negli ultimi anni, di Lazio e Roma), il passaggio alla fase per così dire “estrema” dell’effettiva militarizzazione in occasione di conflitti civili vede, invece, un’affermazione estremizzata dell’identità della banda/club dei tifosi organizzati nelle forme più estreme. Così è avvenuto agli albori delle guerre nella ex-Jugoslavia per quelle “Tigri” guidate dal serbo Arkan che nacquero, come milizia dedita al lavoro sporco nella “pulizia etnica”, dagli ultras organizzati della squadra di calcio di Belgrado e così, per fare un altro esempio, è avvenuto con il ruolo degli ultras organizzati di alcune squadre di calcio ucraine nel massacro neonazista di Odessa del 2 maggio 2014, quando nella “Casa dei Sindacati” vennero trucidate tra le fiamme oltre 40 persone.

Anche senza arrivare a questi estremi, i linguaggi delle radio e dei cori delle curve, quelli dei festeggiamenti per le vittorie, quelli gestuali e concreti degli scontri fisici tra tifoserie riprendono spesso stilemi da “pulizia etnica” e di guerra: all’avversario più odiato non si riconosce diritto a fruire dello spazio urbano, se ne evoca l’eliminazione, si disumanizza, più in generale si fa della identità calcistica una quasi-etnia quando non addirittura una quasi-“razza” e del resto non è raro che i settori fascisteggianti di quelle tifoserie usino contro gli avversari accuse radicate esplicitamente nelle concezioni identitarie razziste, con l’evocazione del loro carattere di “negri” o di “ebrei”, talora accompagnato esplicitamente dall’auspicio di renderli vittime dei forni crematori.

Quei tifosi, fuori della dimensione calcistica, hanno certamente molte altre identità, differenze e comunanze, ed è perciò apparentemente assurdo il panorama; due Milanisti che gridano assieme a San Siro si ritrovano magari  su sponde opposte in termini di orientamento sessuale o di rapporto col vegetarianesimo, sono in posizioni conflittuali nella gerarchia sociale, fanno parte di cerchie di appassionati dell’alpinismo invece che del surf, ecc.; al tempo stesso, due giovani che si sono scontrati davanti ad uno stadio perché l’uno tifoso della Roma e l’altro del Napoli sono poi due disoccupati nella stessa dura situazione, si caricano entrambi di immaginette mariane, frequentano entrambi costantemente le messe domenicali, e votano per lo stesso partito alle elezioni politiche.

Lo stesso si può dire di quasi ogni altra identità che venga vissuta o presentata come prevalente quando non monopolizzante l’individuo ed il gruppo; dinanzi al cosiddetto “pericolo islamico” si assiste ad un compattamento fittizio tra Cattolici, poco importa cosa votano e per che squadra tifano, se sono imprenditori ovvero operai, Spagnoli o Italiani, dentro una logica di invenzione etnicistica la “serbicità” e la “croaticità” vengono fatte diventare  assolutamente prevalenti sul fatto che la lingua (il Serbo-Croato) è la stessa, semplicemente con l’uso di due alfabeti diversi (cirillico e latino), che tradizioni e gastronomie sono comuni e che perfino l’etnia è la stessa mentre l’unica vera differenza è che la Croazia ha adottato la versione cattolica e la Serbia  quella ortodossa del medesimo Cristianesimo e in nome di quella sola differenza si può far combattere, far uccidere.

Pertanto, non basta dire che non esistono e non sono mai esistite identità pure, di alcun tipo, ma bisogna aggiungere che ogni individuo è caratterizzato nella sua vita da appartenenze a gruppi “identitari” differenti e che variano o possono variare nel tempo: identità religiose e politiche, di orientamento sessuale e di scelte alimentari, sportive ovvero hobbystiche, ecc. Sia pure in forma diversa, lo stesso si può dire a maggior ragione di ogni gruppo, si tratti di un circolo del bridge o di un partito, di un sindacato o di una setta, di un club di modellismo o di un gruppo ultras, ecc. Il peso che ciascuno di questi elementi ha nella quotidianità e nel medio e lungo periodo, sia per ciascun individuo che per i gruppi, muta a causa di fattori esterni e di come essi trovano una risposta negli individui e nei gruppi stessi; in un sistema integralista, ovviamente, l’appartenenza ad una fede religiosa e spesso ad una determinata variante di quella fede religiosa prevale ovviamente su quella ad un club scacchistico o ad un orientamento partitico, e condiziona direttamente anche la pratica politica ed hobbystica, mentre in una realtà di periferia urbana disgregata spesso l’appartenenza ad una “tribù calcistica” prevale su ogni altro fattore, eccetto forse per le gang del crimine organizzato.

Al tempo stesso, in quel sistema integralista prima citato (poco importa se cristiano o islamico, induista o ebraico o buddhista), vi possono essere reazioni di adesione entusiastica, che favoriscono l’assoluta subordinazione di tutte le identità individuali o di gruppo rispetto a quella dominante sul piano religioso (o meglio sarebbe forse dire politico-religioso), di adesione opportunistica, di adesione solo superficiale e casi di fermo rifiuto che si traducono in genere in fuga, più raramente in opposizione, anche armata. Paradossalmente, anche quelle reazioni che si manifestano in forma oppositiva partono dalla centralità della dimensione dominante religioso-politica, anche solo per rifiutarla; il miliziano sciita iraqeno che combatte contro il tagliagole dell’estremismo integralista dell’ISIS può amare la caccia ai conigli o il nuotare, ma quello che lui sente di essere è un combattente contro l’infame apostasia ed in difesa dei principi e dei luoghi santi dello Sciismo in Iraq; il giovane Yazida che lo affianca nella lotta può essere amante dell’artigianato o della pratica del flauto ma combatte per vendicare, certo, sua sorella rapita e stuprata, ma anche se non soprattutto per difendere l’identità yazida che l’ISIS intende estirpare perché “immonda, infedele”.

In quella realtà di periferia urbana disgregata, il gruppo di tifosi genera non solo compattezze ed adesioni, ma anche avversioni e rifiuti che si possono cristallizzare in forme identitarie simili, attraverso la costituzione di un club collegato ad una squadra rivale, ma anche in altre forme identitarie, come il rifiuto stesso del mondo calcistico e l’adesione a modalità sportive differenti (ad esempio la lotta libera o la boxe) ovvero un’adesione fanatica ad una subcultura musicale, quale il rap o la musica melodica napoletana, che plasma ben più che un gusto o una pratica sonore. Naturalmente, più si sale di scala dal singolo individuo al piccolo gruppo, al gruppo ampliato, alla comunità locale, alla comunità articolata geograficamente, le cose diventano più complesse senza però cambiare strutturalmente ed in termini di significato, mentre invece le pressioni ed i condizionamenti mediatici, educativi, politici, religiosi, degli integralismi di ogni genere tendono a farci vedere il panorama in termini falsamente monodimensionali e, quel che è peggio, tendono a convincere coloro che di quel panorama sono parti ed attori che la monodimensionalità sia la verità in termini identitari. L’operazione si basa sulla dialettica tra monodimensionalità e “sistemi a catena”, nel senso che impostata in vari modi una monodimensionalità identitaria di fondo, ad esempio etnica o religiosa o politica, ad essa si connettono artificiosamente ma non illogicamente elementi e sistemi interi differenti, dall’estetica musicale al linguaggio, dalla ritualità alle simbologie, ecc., concatenandoli a quella monodimensionalità, per cui si passa da una (finta) monodimensionalità centrata su un solo fattore ad una catena di fattori concatenati e che quindi mantengono una loro monodimensionalità lineare che contraddice falsamente le vere interconnessioni tra fenomeni, elementi, fattori che somo sempre “a rete”.

Ad esempio, l’appartenenza ad una realtà identitaria ibero-cattolica nel XVI secolo non voleva dire solo un insieme di credenze, riti, pratiche, simboli, ma influiva direttamente sulle pratiche alimentari, sul linguaggio, sull’atteggiamento dispregiativo verso gli adepti ad altre religioni, perfino sulle modalità vestimentarie, il che produceva una artificiosa compattezza identitaria; così l’essere un hippie negli anni ’60 del XX secolo in USA significava condividere con gli altri aderenti ad una galassia contro culturale pure assai articolata e informe gusti musicali e rapporto con le sostanze stupefacenti, pratiche di viaggio e orientamenti pacifisti, spiritualismo non convenzionale e modo di concepire la sessualità, influiva sull’arte e sul rapporto con le immagini, sulla relazione con le famiglie di origine, su quella col lavoro organizzato e su molte altre dimensioni. Quella compattezza, quella omogeneità sono sempre apparenti, proprio per il carattere fittizio ed artificioso di certe monodimensionalità identitarie, che  si evidenzia in particolare quando certi modelli egemoni cominciano a scricchiolare o certe fasi della stessa esistenza individuale vengono superate.

La Riforma Protestante mette radicalmente in discussione l’adesione di immense masse di Europei verso i dogmi e soprattutto verso le pratiche che la Chiesa Cattolica egemone aveva reso “regola” e nascono nuove identità, fra cui emergono quelle delle nuove tendenze in cui i “Protestanti” si dividono: Luterani, Anabattisti, Calvinisti, Puritani, ecc.; in Spagna, però, il potere regio è talmente intrecciato alla identità cattolica che essa non solo non viene significativamente scalfita dal “virus” della Riforma ma diventa il baluardo stesso, con quel potere regio e le sue proiezioni a grande distanza, della Controriforma e di tutte le tendenze più conservatrici del Cattolicesimo, per secoli, fin oltre l’Illuminismo e la Rivoluzione Francese, fino al franchismo ed all’Opus Dei. Quel ruolo di baluardo diventa, allora, la nuova corazza identitaria dell’Iberocattolicesimo nei secoli dal XVI al XX, ma se da un lato ciò sembra garantirne la monodimensionalità “vincente”, dall’altro esso rappresenta invece il massimo fattore di fragilità del binomio monarchia-Chiesa spagnole, al punto che una potenza che era arrivata a dominare dall’America Centrale alle Filippine e poter rapinare impunemente oltre 35.000 tonnellate di metalli preziosi dalle sole Americhe si trova alle soglie del XIX secolo ad essere una delle nazioni più povere ed indebitate, meno avanzate tecnologicamente e scientificamente del continente europeo.

Certo l’erosione della ricchezza spagnola ad opera dei corsari olandesi e inglesi ebbe a che fare con tale declino, ma assai di più ebbero a che fare con esso proprio le conseguenze dirette della logica monodimensionalista della fittizia identità spagnola, che negava le sue radici ebraiche e musulmane, in termini concettuali e pratici, mutilandosi così culturalmente e demograficamente delle parti più attive, modernizzanti, scientificamente valide della propria società e della propria vera identità, col risultato di dover importare quasi tutto ed essere indebitati e sempre in guerra con mezzo mondo.

 

Solo nella misura in cui  un gruppo, piccolo o grande, accetta ed ammette il carattere mutevole nel tempo e variegato della sua identità e addirittura la stessa inesistenza di elementi o sistemi identitari prevalenti (o peggio monopolistici) non soltanto nel gruppo stesso ma in ogni singolo suo componente, si può davvero, paradossalmente, costruire una identità di successo, cosa che storicamente non comporta quasi mai l’assenza di chiusure, di invenzioni, di grettezze, di distorsioni. Ad esempio, la società nordamericana nasce da un mix di elementi di chiusura identitaria e di apertura identitaria; poche comunità sono più chiuse identitariamente dei Puritani di certe colonie del Nordamerica del XVII secolo ed episodi come quello delle streghe di Salem confermano che dal “Vecchio Mondo” quei gruppi non portarono con sé solo idealizzati auspici di rinnovamento e di libertà, ma anche il peggio del peggio degli stereotipi identitari, però, al tempo stesso, quando le colonie primigenie nordamericane si sollevano contro il potere della madrepatria britannica esse rappresentano un mosaico policromo di concezioni e di situazioni economiche, di fedi e di lingue, sebbene nettamente chiuso a quei Neri che anche i “Padri dell’Indipendenza” considerano solo schiavi.  Nello stesso periodo in cui i nuovi Stati Uniti d’America massacrano gli autoctoni, rapinano il Messico di immensi territori, prolungano fino alla metà del XIX secolo lo schiavismo dei Neri, essi si aprono all’apporto (sia pure reso subalterno a quello di chi è di origine anglosassone e protestante) di gruppi di diversa origine culturale, religiosa, etnica, quali i Tedeschi e gli Italiani, i Polacchi e gli Scandinavi e senza questa apertura che prosegue selettivamente e mutando di epoca in epoca gli USA non avrebbero avuto la grande emigrazione italiana e l’accoglienza di tanti intellettuali tedeschi in fuga dal nazismo, l’arrivo dei “Russi Bianchi” (antibolscevichi) e quello di tanti Ebrei in fuga dai pogroms zaristi, apporti che hanno segnato economia, arte, scienza, tecnologia, e struttura militare degli stati Uniti fra XIX e XX secolo.

Nella medesima fase, la grande potenza semiplanetaria ibero-cattolica si raggrinziva sul suo monodimensionalismo identitario e si riduceva ad una realtà marginale in tutti i campi, salvo qualche guizzo artistico, e con l’eccezione parziale di una Catalogna industrialista, modernista, culla dell’eclettismo di un Gaudì come dell’anticlericalismo anarchico, della lotta proletaria (che impose con 44 giorni di sciopero generale nel 1919 la giornata lavorativa di 8 ore) e dell’autonomismo/indipendentismo.

 

I libri di Silvio Marconi

 

Uno studio che, lungi dall’avere un obiettivo “enciclopedico” o di minuziosa analisi storica, vuole evidenziare quelle connessioni e correlazioni – tradizionalmente taciute e rimosse – tra i fenomeni ed i processi che portarono alla crisi ed al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e quelli operanti in un’Asia la cui complessa storia viene, tuttora, sottovalutata.
Quando una farfalla batte le ali in Cina si sofferma sul ruolo che, nella crisi e nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ebbero tanto la Persia quanto, indirettamente, la Cina, dimostrando come il pregiudizio etnocentrico che ancora permea la formazione, la divulgazione e la costruzione dell’immaginario occidentale sia un pernicioso ostacolo a una comprensione di ben più ampio respiro e alla lezione metodologica che ne se ne può trarre.
In questa prospettiva, il riconoscimento di una molteplicità di poli e fattori transculturali è la precondizione per affrontare qualsiasi problematica: storica, politica, economica o strategica.
Una precondizione troppo spesso, volutamente, ignorata da una cultura occidentale che, a differenza di quelle orientali, ha rifiutato la logica olistica privilegiando un approccio molto settoriale.

 

Silvio Marconi – ingegnere, antropologo, operatore di Cooperazione allo sviluppo, Educazione allo Sviluppo e Intercultura – fa ricerca, da anni, nell’ambito dell’antropologia storica e dei sincretismi culturali. Ha pubblicato, al riguardo: Congo Lucumì (EuRoma, Roma, 1996), Parole e versi tra zagare e rais (ArciSicilia, Palermo, 1997), Il Giardino Paradiso (I Versanti, Roma, 2000), Banditi e banditori (Manni, Lecce, 2000), Fichi e frutti del sicomoro (Edizioni Croce, Roma, 2001), Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma, 2002), Dietro la tammurriata nera (Aramiré, Lecce, 2003), Il nemico che non c’è (Dell’Albero/COME, Milano, 2006), Francesco sufi (Edizioni Croce, Roma, 2008), Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016).

Prezzo di copertina: 18 euro Prezzo effettivo: 15.5 euro