Naqshbandi e non solo: intervista al Professor Demetrio Giordani

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Naqshbandi e non solo: intervista al Professor Demetrio Giordani

Alcuni mesi fa abbiamo recensito, su questo blog, il testo di riferimento della School of Sufi Teaching, oramai attiva da circa un anno anche in Italia: Volgersi verso il cuore; Risveglio alla via del Sufismo: quaranta domande e risposte con lo Shaykh al-Tariqa Hazrat Azad Rasul. Il testo è la traduzione di Turning Toward the Heart: Awakening to the Sufi Way – pubblicato nel 2002 da un’editrice specializzata in testi sul SufismoFons Vitae e lettura base per gli studenti della School of Sufi Teaching – ed è stato curato dal Professor Demetrio Giordani con il quale, dopo la divulgazione della recensione, siamo entrati presto in contatto. Ho avuto dunque modo di leggere ed apprezzare il suo testo I Naqshbandī. Uomini, storia e dottrine di un ordine sūfī che mi ha suscitato il desiderio di tentare un percorso di approfondimento. Di qui l’idea, tra le altre, dell’intervista che segue per discutere, pur in maniera necessarimente concisa, di Sufismo nel nostro paese e nel nostro “spaccato di mondo”.

Buona lettura!

Manuel Olivares

 

Caro Demetrio, tu hai scritto diversi libri sul Sufismo, in particolare di tradizione Naqshbandi. Hai, tra l’altro, curato la versione italiana del testo della School of Sufi Teaching (SOST) Volgersi verso il cuore, che è stato recensito su questo blog. Sei stato amico e collega del celebre e compianto Alberto Ventura che ha curato una splendida edizione del Corano pubblicata da Mondadori. Ci sono dunque, sicuramente, diverse ragioni per inanellare alcune domande in quella che credo si rivelerà una bella intervista. Iniziamo da te: vuoi presentarti brevemente, soffermandoti in particolare sulla tua lunga esperienza nell’ambito del Sufismo?

 

Ho iniziato a interessarmi al Tasawwuf agli inizi degli anni Ottanta. In quel periodo non c’erano molti che si dedicavano alla traduzione di testi classici e la prima cosa che mi colpì profondamente fu l’edizione italiana delle Hikam di Ibn ‘Atā’ Allāh al-Iskandarī. La traduzione appare ora un po’ datata, manca qualsiasi riferimento ai numerosi commentari che di quest’opera sono stati fatti, ma tant’è che decisi, durante la lettura meditata delle sentenze del sufi egiziano, che mi sarei dedicato da allora in poi, allo studio del Sufismo. Capii che avrei dovuto studiare l’arabo classico per accedere alla vasta letteratura inedita e iniziai un corso all’ISMEO, che allora aveva la sede a Palazzo Barberini, nel centro di Roma. Contemporaneamente iniziai a studiare con grande intensità le opere di René Guénon e poi di A.K. Coomaraswamy. Finii i miei studi alla Sapienza, al Dipartimento di Studi Orientali, laureandomi in Islamistica, la cattedra che allora era di Alessandro Bausani, con una tesi su Muhyiddīn ibn ‘Arabī.

 

Ci vuoi dire qualcosa del tuo rapporto con Alberto Ventura, facendoci conoscere un po’ meglio la figura di questo grande studioso?

 

Conobbi Alberto proprio in occasione della mia tesi. Sapevo che a quel tempo occupava il posto di bibliotecario all’Istituto per l’Oriente; andai a trovarlo lì ma il direttore, Claudio Lojacono, mi disse che non c’era più, aveva vinto un posto di ricercatore a Cagliari ma che comunque abitava ancora a Roma e potevo scrivergli. A quel tempo non c’era la posta elettronica e quindi gli scrissi una lunga lettera in cui gli spiegavo il tema della mia tesi e, poiché avevo letto il suo libro L’Esoterismo islamico, gli chiedevo dei chiarimenti su alcuni passi delle Futūhāt di Ibn ‘Arabi. Nella lettera gli lasciai il mio numero di telefono, nella speranza di avere un contatto. Attesi un po’ di tempo, poi lui mi chiamò e rimasi sorpreso dalla sua cortesia e dal suo interesse per i miei studi. Passammo lunghi pomeriggi a parlare delle opere di Guénon e di Ibn ‘Arabī nella sua casa al Tufello, che distava da casa mia una trentina di chilometri e lui mi trasmise una quantità immane di informazioni e di riferimenti librari e fece aumentare considerevolmente il mio entusiasmo. In particolare, iniziò a parlarmi di Shaykh Ahmad Sirhindī e delle sue Maktūbāt (“Lettere”) e da allora ho cominciato a interessarmi alla Naqshbandiyya. Lui si trasferì a Cagliari e poi a Napoli, ma tra noi c’è stato sempre un legame solido e un sodalizio profondo, sul piano dell’amicizia e della ricerca scientifica; quando finii il mio libro sui Naqshbandi glielo feci leggere prima della pubblicazione e durante una telefonata di circa due oremi suggerì correzioni, annotazioni e inserimenti.

 

Veniamo ora al Sufismo in Italia ed, in generale, nel mondo occidentale. Sappiamo che è una tradizione che ha attecchito in tempi relativamente recenti nel nostro paese e nel nostro spaccato di mondo. Cosa ci puoi dire della penetrazione del Sufismo in Occidente e come si colloca, oggi, nel complessivo panorama della — seria — ricerca spirituale degli occidentali?

 

È innegabile che l’opera di Réné Guénon sia stata determinante nella diffusione delle dottrine tradizionali. Anche se nelle sue opere non si trovano molti riferimenti diretti alla pratica di qualche ordine sufi, i suoi frequenti accenni alle opere di Muhyiddin ibn ‘Arabi, hanno calamitato l’interesse di moltissimi “intelletti sani”. Molti ricercatori italiani di varia provenienza si sono messi alla ricerca di guide al di fuori dell’Europa e, durante gli anni Settanta e Ottanta, ci sono stati i primi contatti con autentiche guide spirituali, in varie parti del mondo islamico. In seguito alla circolazione delle opere di Guénon, l’interesse per le dottrine tradizionali ha varcato i confini dell’ambiente accademico e la traduzione di testi, o la sintesi dottrinale delle opere di grandi maestri, ha contribuito alla circolazione e alla divulgazione delle dottrine del Sufismo. Nelle opere di autori come Michel Chodkiewicz, Seyyed Hoseyn Nasr, William Chittick, Carl Ernst, Alberto Ventura, Denis Grill e Paolo Urizzi, per citarne solo alcuni, una seconda e forse ormai una terza generazione di ricercatori ha potuto accedere alle informazioni e alle dottrine del Sufismo da buone e talvolta ottime traduzioni. Per quanto riguarda invece la pratica, essa richiede l’accettazione del discepolo da parte di un maestro autorizzato e l’iniziazione ad un ordine e alle sue pratiche. Va da sé che ciò rappresenta un passaggio selettivo, poiché in molti, anche se dotati di buona disposizione morale, non riescono a comprendere quanto sia di fondamentale importanza l’accettare totalmente l’Islam, che è l’ambiente, se così si può dire, o il terreno più adatto a far germogliare il seme di una iniziazione. Guénon stesso lo ha sottolineato, quando è diventato lo Shaykh ‘abd al-Wahid, guida spirituale dell’ordine degli Shadhiliyya Ahmadiyya.

 

In Inghilterra è stato pubblicato, alcuni anni fa, il testo Sufism in the West, ad opera di diversi studiosi, uno dei quali — Ron Geaves — ho anche conosciuto personalmente (è stato un consulente, per i rapporti del Regno Unito con l’Islam, di Tony Blair). Non è mancato, in questo libro, chi ha sostenuto che il Sufismo può, in qualche modo, rappresentare il futuro dell’Islam in Occidente. Sappiamo che è un’affermazione che non può trovare d’accordo tutti i musulmani che vivono in Europa. Pensi possa essere “un po’ azzardata”?

 

Il Sufismo, come anche la pratica dell’Islam, rappresenta per molti Occidentali che lo praticano l’uscita dal tunnel dello sconcerto e del disorientamento che sta dilagando nelle società occidentali. Nel vocabolario tecnico del Sufismo ci sono termini come “certezza”, “sicurezza”, “appagamento”, “fiducia”, “conoscenza”, “contemplazione” ecc. che descrivono stati concreti e che possono colmare un vuoto nell’anima di molta gente. L’Occidente non ha molto più da offrire all’intelligenza delle persone se non ideologie svuotate e nichilismo. Per questo credo che ci sia spazio per l’insegnamento sufi.

 

Veniamo al tuo libro: I Naqshbandi. Uomini, storia e dottrine di un ordine sufi. L’ho trovato molto interessante ed esaustivo. Vi si trovano informazioni e dettagli che io ho faticato a trovare anche nella letteratura inglese. Quali fonti hai utilizzato?

 

Il libro inizialmente doveva essere un’antologia delle Maktubat di Shaykh Ahmad Sirhindi, poi scrivendo l’introduzione ho scoperto una letteratura sterminata che riguardava la storia dell’ordine naqshbandi, le biografie dei suoi maestri e quel genere letterario, diffusissimo nell’India islamica medievale, composto dai discorsi sapienziali riferiti dai discepoli di un Pir, chiamati Malfuzat, che doveva assolutamente essere portato in superficie. Di questa letteratura ho amato particolarmente la biografia di Shah Baha’uddin Naqshband e le Malfuzat-i Sharife di Shah Ghulam Ali (la cronaca appassionante della vita quotidiana del santo sufi di Delhi) che non ho ancora finito di leggere e mi stanno riservando bellissime sorprese.

 

Diverse persone mi stanno contattando perché interessate agli insegnamenti della SOST che sta muovendo i suoi primi passi anche in Italia. Che consigli ti senti di dare a chi si volesse avvicinare a un percorso di crescita spirituale in un ambito Sufi?

 

Innanzitutto farsi un bell’esame di coscienza per capire se si è attratti dalla semplice curiosità oppure se si è disposti ad affrontare un’esperienza che trasforma. I libri possono dare una certezza illusoria, la pratica giunge in fondo all’anima. In secondo luogo ammettere umilmente di non sapere nulla. Infine essere in sintonia col famoso detto malamati “La conoscenza che Iddio ha di te è migliore di quella che hanno gli uomini” ed agire, seriamente, di conseguenza.

 

In ultimo, nella SOST e nella confraternita che segui tu da anni, si pratica regolarmente la Muraqabah che, per dirla in termini molto generali, ha delle affinità con diverse tecniche di meditazione nell’ambito di altre tradizioni (penso alla Dhyana nello Yoga, alla meditazione Vipassana nel Buddhismo, in particolare di tradizione Theravada, alla mindfulness, oggi molto di moda e a forme di meditazione cristiana, oltre alla “pratica del silenzio” peculiare dei Meeting for Worship presso i Quaccheri). Mi viene dunque spontaneo chiederti: puoi spiegarci in cosa consista esattamente la pratica della Muraqabah e cosa la renda in qualche modo unica rispetto ad altre pratiche, a prima vista, simili?

 

La parola araba muraqaba significa “vigilanza”, noi la usiamo correntemente con il significato di “meditazione” o “contemplazione”. In realtà significa essere in attesa dell’arrivo di uno stato di grazia, liberando il cuore da ogni preoccupazione. A parole è una semplice descrizione, nella pratica è un’esperienza mutevole che cambia di volta in volta a seconda della disposizione di chi medita. Direbbe qualcuno: “A che serve farlo con la SOST? Lo posso far da solo, sul divano di casa mia”. La risposta è classica: non lo puoi fare senza la guida di un maestro, che veicola su di te la baraka, ovvero l’influsso spirituale che discende dall’Essenza dell’Uno Incondizionato, attraverso la persona del Profeta e la catena dei maestri dell’ordine, che giunge fino al maestro attuale vivente. Senza di lui è come farsi una bella dormita. Nella SOST la guida che consente che la muraqaba sia un esercizio operativo è Shaykh Hamid Hasan, figlio di Shaykh Azad Rasool da cui ricevette l’autorizzazione a dirigere l’ordine. Shaykh Hamid Hasan è una guida che veicola la baraka di più di una tariqa: Naqshbandiyya, Mujaddidiyya, Chishtiyya, Qadiriyya e Shadhiliyya, secondo il metodo tradizionale dei maestri di questi ordini.

 

Ringraziando il Professor Demetrio Giordani per questa bella intervista, segnalo a chi fosse interessato alle attività della School of Sufi Teaching in Italia il seguente indirizzo email: italy@sufischool.org.