Movimenti di popolazione e violenza

Di seguito, l’ottavo articolo del nostro collaboratore Silvio Marconi della serie: Le pericolose invenzioni delle identità.
Qui il primo articolo, qui il secondo, qui il terzo, qui il quarto,qui il quinto, qui il sesto, qui il settimo.
Buona lettura!
Nell’articolo precedente si è parlato di diverse forme di movimenti di popolazione che generano conseguenze significative nell’apportare elementi materiali ed immateriali oltre che genetici alle società verso cui avvengono; nessuno di essi è irrilevante a questo scopo. Perfino la transumanza e il nomadismo a piccola scala (stagionali) rappresentano una messa in rapporto di ecosistemi e di forme di antropizzazione differenti e la base di circuiti di scambio umani, materiali ed immateriali e se il nomadismo a media e grande scala certamente amplifica queste conseguenze, in entrambi i casi (e certamente più nel secondo) da questi processi ne possono sorgere altri ancor più rilevanti.
E’ il caso del controllo delle rotte carovaniere trans-sahariane o trans-centrasiatiche e delle oasi che ne rappresentano i nodi da parte di popolazioni nomadi, nelle quali comunque di norma sussiste una sezione stanziale che si dedica proprio alla cura di quei nodi (donne, ragazzi, anziani, ma anche mercanti e artigiani nonché aliquote servili e schiavili spesso di differente origine geografica e culturale) ed è anche il caso degli spostamenti di massa di intere popolazioni alla ricerca di pascoli, che caratterizza molta parte della Storia antica e medievale delle regioni che vanno dalla Mongolia al Mar Nero, che assumendo il carattere di “migrazione armata”, di invasione e conquista. Bastino pochi esempi: è grazie a quei movimenti che rituali subsahariani giungono attraverso le genti berbere nel Mediterraneo, che il dromedario di origine asiatica sostituisce il meno efficiente asino come mezzo di trasporto primario nelle carovane in Nordafrica, che si diffonde la staffa asiatica in Europa (base per lo sviluppo di tutte le successive tecniche di combattimento con lancia a cavallo), che si instaurano circuiti commerciali a vastissima scala eurasiatica ma anche trasferimenti di elementi culturali dovuti non direttamente a quelle migrazioni armate ma ad alcune delle loro conseguenze: la fuga di popolazioni davanti al loro incalzare e la deportazione di aliquote di schiavi o di personale specialistico (ad esempio tessitori, orafi, vasai, fabbri, ecc.) in posizione servile dalle terre conquistate ad altre. Si è già parlato, infatti, degli apporti che perfino persone e gruppi costretti nella terribile condizione schiavile sono riusciti a produrre alle società ed alle culture che li opprimevano (e basti ricordare le realtà afroamericane derivate da quelle dei Neri deportati dall’Africa alle Americhe) ma la pratica della deportazione, in età antica e medievale, non riguarda solo la schiavitù e del resto non tutte le forme di schiavitù comportano spostamenti a media e grande scala. Dall’antichità, molte società hanno deportato intere popolazioni o aliquote di esse ogni qualvolta occupavano una regione o una città: lo facevano gli Assiri ed i Romani, i Babilonesi e i Persiani, gli Spagnoli ed i Francesi, i Russi e molti altri. Queste deportazioni, fra l’altro, avevano spesso proprio finalità ovviamente di controllo e repressione, ma anche di utilizzazione di competenze ed esperienze, oltre che genericamente di forza lavoro soggiogata, proprie a specifici gruppi umani; si portavano nella propria capitale artisti e artigiani, combattenti specializzati (ad esempio arcieri e frombolieri) e terapeuti, architetti e costruttori navali, in genere con le loro famiglie, anche perché certi mestieri avevano caratteristiche spesso ereditarie bella filiera di apprendimento.
A queste aliquote di deportati, in condizione schiavile o semilibera, si debbono molte delle “contaminazioni culturali positive” della Storia umana: sono gli artigiani cinesi catturati dalle truppe musulmane nel 751 d.C. nella battaglia del Talas, sul fiume Tala’s (Turkestan) e deportati a Baghdad che trasmettono la loro competenza nella fabbricazione della carta (fino a quel momento monopolio di chi l’ha inventata: i Cinesi) ai Musulmani, i quali la porteranno in Sicilia ed in Andalusia e la faranno conoscere secoli dopo agli Europei. Sono personaggi come Apollodoro di Damasco che generano le grandi meraviglie dell’architettura “romana” antica, sono Cinesi catturati e deportati dai Mongoli ad insegnare loro la costruzione e l’uso delle macchine da assedio e della polvere da sparo, sono artiglieri e fonditori di cannoni russi catturati nel Caucaso a fornire a quelle genti le tecniche di produzione e d’uso dell’artiglieria.
In alcune società, poi, si deportano aliquote dei marginali della propria stessa compagine sociale (condannati, prostitute, avversari politici, ecc.) in luoghi da colonizzare e anche questo contribuisce alla diffusione ed al mescolamento di elementi culturali: avviene con coloro che i Britannici usano per popolare l’Australia o con chi (compresi i catturati al momento della sconfitta della Comune di Parigi nel 1871) i Francesi usano per colonizzare la Nuova Caledonia ovvero coi deportati russi che contribuiscono alla colonizzazione della Siberia; nella Cina imperiale esiste la categoria dei “reietti” che comprende condannati per vari reati, funzionari puniti per colpe nell’amministrazione della cosa pubblica ( reati comuni o politici), intellettuali ed ufficiali caduti in disgrazia ma anche una categoria che non ci si aspetterebbe di trovarvi: i mercanti “residenti” (in Cina il commercio era interamente controllato direttamente o indirettamente dallo Stato e il mercante doveva avere una licenza imperiale che lo vincolava ad un luogo o a determinati circuiti di scambio) risultanti soprannumerari rispetto alle decisioni statali. Costoro venivano deportati verso le aree di frontiera dell’Impero, in genere con le loro famiglie e nel caso dei mercanti si deportavano anche coloro che ne erano nipoti con le rispettive famiglie: essi sono stati i protagonisti dell’espansione cinese verso Ovest e Sud: come sottolinea Luce Boulnois nel suo libro (ripubblicato nel 2017 da Bompiani) “La via della seta. Dei, guerrieri, mercanti”. Sono i “reietti”, accompagnati da “colonie militari” a sinizzare il Sichuan, il Sinkiang e le oasi dell’Asia Centrale, un sistema diverso da quello dell’Impero Romano che si affidava soprattutto ai veterani ed alle loro famiglie per ottenere lo stesso risultato. In tutti questi casi di spostamenti di popolazioni o loro aliquote dovute a costrizione avviene un fenomeno assai interessante: gli elementi culturali che le genti che si spostano portano con sé e che vanno ad interagire con quelli delle popolazioni autoctone del luogo in cui essi giungono sono di due tipi, intrecciati fra loro: elementi propri all’evoluzione culturale di tali aliquote assoggettate e fatte spostare ed elementi propri della cultura dei soggetti che determinano la deportazione, sia quando deportati e deportatori appartengono a società diverse (in genere perché i secondi hanno invaso le terre dei primi), sia quando invece i deportati sono parte della stessa società che decide di trasferirli coattivamente.
Così i Comunardi francesi deportati nella Nuova Caledonia portano con sé la propria posizione libertaria ed anti-borghese ma anche gli stereotipi razzisti dei gruppi egemoni borghesi della società francese dell’epoca, e sono loro i principali responsabili delle violente discriminazioni contro la popolazione locale kanak. L’interazione fra questi elementi culturali dei deportati e dei poteri che li deportano e quelli delle genti autoctone delle regioni in cui vengono inviati non è caratterizzata mai da un rapporto solo “dall’alto verso il basso”: certamente essi influiscono sugli autoctoni ma ne vengono anche influenzati, così i “reietti” cinesi che vengono inviati a colonizzare lo Yunnan ed il Sichuan portano lingua e costumi, tecnologie ed ideologie cinesi in quelle regioni, ma ad esempio la minoranza etnica Miao fornisce ai Cinesi in quelle regioni un modello di spada che essi utilizzeranno poi nel loro stesso esercito, nonché tecniche di decorazione con l’argento che giungeranno fino alla Cina centrale.
Siamo, con queste annotazioni, al confine dell’altro grande fattore di spostamento umano: la fuga, da un cataclisma (un’eruzione vulcanica distruttiva, una grande alluvione, ecc.), da una prolungata avversità climatica (siccità) ma, soprattutto, da invasioni, guerre e persecuzioni; fattore rilevante non solo quando riguarda enormi masse di popolazione ma anche quando concerne gruppi più limitati: basti pensare al ruolo avuto in Europa, in medio Oriente e nel Nordafrica nei secoli dalla Diaspora ebraica o al fatto che l’avvio dell’esistenza delle colonie europee nordamericane si collega direttamente con l’esigenza per certi gruppi di Protestanti eterodossi (quelli che verranno detti “Padri Pellegrini”) di fuggire alle persecuzioni degli Anglicani. In molti casi a scappare sono intellettuali o membri, con le proprie famiglie, di settori sociali e culturali medio-alti che ne hanno le possibilità economiche, culturali e di agganci con chi ne possa permettere e favorire la fuga: è il caso di tanti medici ed artigiani ebrei che fuggono dalla repressione ibero cattolica secentesca e vanno ad arricchire l’Olanda e l’Impero Ottomano, di tanti ottimi marinai europei che si fanno “rinnegati” (ossia si convertono all’Islam) ed assumono ruoli rilevanti nelle flotte del Sultano o in quelle dei corsari barbareschi, il caso di tanti patrioti europei in fuga verso altri Paesi d’Europa ma anche verso le due Americhe e perfino verso il Caucaso dai fallimenti dei moti anti-assolutistici della prima metà dell’Ottocento, il caso di cineasti, fisici, docenti, scrittori antifascisti o Ebrei che fuggono dal regime hitleriano verso gli USA negli Anni Trenta; queste fughe non hanno la stessa rilevanza numerica delle deportazioni, delle migrazioni di massa, ma implicano apporti di alta qualità, senza i quali, ad esempio Hollywood non sarebbe la stessa, gli USA non avrebbero avuto la bomba atomica, le idee repubblicane ed anarco-socialiste avrebbero avuto meno impatto in America Latina. Queste fughe si intrecciano agli altri tipi di contributi dovuti a spostamenti di popolazione e di beni materiali ed immateriali, fattori che si alimentano a vicenda perché, ad esempio, lo stabilirsi in un certo luogo anche solo di una piccola comunità straniera, porta con sé innesti religiosi e gastronomici, linguistici e nelle forme di organizzazione sociali e criminali, artistici e musicali; non a caso la fioritura fino ad un livello di potenze rilevanti di realtà inizialmente assai modeste demograficamente e geograficamente avviene sempre e solo quando quelle realtà sono aperte all’interazione commerciale a grande scala ed all’accoglienza di stranieri, mentre stati anche enormi, popolati e potenti decadono tragicamente quando si chiudono, impongono monopoli commerciali, si cristallizzano nella ricerca suicida dell’omogeneità etnoculturale.
Si pensi alla talassocrazia greca, a quella di quelle genti siro-palestinesi dette dai Greci “phenikoi”, Fenici, a partire dal loro monopolio della rossa tintura ricavata dai murici, alla città di Cartagine (nata da esuli di Tiro) che diventa potenza mediterranea a grande scala, alla fase di avvio della Roma monarchica e poi repubblicana, alle Repubbliche Marinare ed in particolare a quella Venezia che da semplice città seppe costruire un impero mediterraneo, alla Lega Anseatica, alla nascita da empori commerciali della Rus’ di Kiev, alle stesse colonie della costa atlantica statunitense; in tutti questi casi, esuli e fuggiaschi, immigrati per ragioni economiche e traffici di beni materiali ed immateriali sono stati i protagonisti di affermazioni straordinarie. Al contrario, si pensi a quel che la Spagna cattolica perde con il massacro e la cacciata degli Ebrei e dei Musulmani e poi la persecuzione di “Marranos” e “Moriscos” (ossia rispettivamente di chi Ebreo o Musulmano era stato convertito a forza e restava spesso custode segreto della sua fede originaria), con l’imposizione del monopolio dei traffici fra le sue colonie americane e la madre patria: le conseguenze sono il declino produttivo e tecnologico, l’accentuato deficit nella bilancia import-export, le crisi finanziarie e le bancarotte ripetute, l’arretratezza delle tecniche agricole, il clima oppressivo in campo culturale e tutto questo porta la Spagna in due secoli, nonostante la rapina delle risorse (e dei metalli preziosi) americane, alla catastrofe ed a perdere tutti i suoi domini.
Risulta, quindi, del tutto ridicola ogni narrazione del rapporto fra cosmopolitismo, apertura agli influssi stranieri, fenomeni immigratori di vario segno e motivo e interessi “nazionali” ed “identitari” improntata alla esaltazione come soluzione ottimale (e tanto più nelle fasi di crisi) del rifiuto, del rigetto, dell’“America first”, del “Prima gli Italiani” o del “Deutschland uber alles”, come pure l’idea che gli spostamenti di popolazione siano figli solo di strategie “buoniste” e “universaliste”; la vera regola che la Storia ci mostra è un’altra, senza alcuna eccezione: chi si chiude a riccio, chi inventa false purezze identitarie e si sforza di preservarle soccombe dinanzi a chi fa il contrario ed accetta, anzi promuove l’interazione materiale, immateriale ed umana fra genti, culture, elementi identitari.
Certo, si potrebbe notare che nella fase delle monarchie assolutistiche europee e poi in quella del fiorire dei nazionalismi le compagini statuali multietniche, multi religiose e multiculturali entrano in una profonda crisi, come dimostrano i casi del crollo degli imperi ottomano e asburgico alla conclusione della Prima Guerra Mondiale; lo stesso svincolarsi delle colonie americane dall’Inghilterra e di quelle spagnole dalla Spagna potrebbe confermare la tendenza al non mantenimento di entità ampie ed articolate, sebbene proprio il caso degli USA, e in parte quello dell’Impero Britannico e ancor prima quello della Russia zarista e poi sovietica potrebbero essere usati per controbilanciare questa tendenza. In realtà, si rischia di scambiare la causa con l’effetto; l’Austria-Ungheria e l’Impero Ottomano non entrano in crisi a causa di fenomeni, pure certo esistenti, di crisi direttamente connessi con la loro pluralità di culture, lingue e religioni, ma a causa dell’azione esterna di ideologie e soggetti che intendono affermare un modello opposto e che hanno quindi la necessità di operare su tutti i piani, politico, militare, economico ma anche culturale ed identitario, per ottenere quel risultato.
Come si è già detto in articoli precedenti, certe “rivolte nazionaliste” come quella greca contro gli Ottomani lo sono solo per intervento esterno (essenzialmente franco-britannico, secondariamente russo) su ribellioni antifiscaliste e banditismi endemici e i Turchi perdono la Grecia, nel XIX secolo, grazie alle vittorie militari russo-franco-britanniche e non a causa di vittorie degli insorti; in più è l’idea stessa di “nazione” e quella derivata di “nazionalismo” che sono prodotti storico-culturali nati peraltro negli stati più centralistici d’Europa, la Francia e la Prussia e tutti i moti nazionalistici del secolo XIX e della prima parte del XX sono figli dell’azione di élites intellettuali forgiatesi agli ideali del nazionalismo parigino o berlinese e dei romanticismo francese, tedesco e britannico e riescono solo laddove siano appoggiati da quelle grandi potenze dirette eredi dell’assolutismo o si inseriscano in eventi di portata immensa causati dalla politica imperialista di quelle potenze, come la Prima Guerra Mondiale. Del resto, gli stessi Stati “democratici” come Francia e Regno Unito che hanno promosso nella Grande Guerra e nei successivi Trattati di Pace lo smembramento dell’Impero austro-ungarico e la nascita di stati-nazione come Cecoslovacchia e Austria non avranno alcun problema, negli Anni Trenta, a regalare ad Hitler prima quell’Austria e poi, a pezzi, quella Cecoslovacchia, permettendo il prevalere della concezione identitaria più estrema, quella nazista, madre del Secondo Conflitto Mondiale.
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I libri di Silvio Marconi
Uno studio che, lungi dall’avere un obiettivo “enciclopedico” o di minuziosa analisi storica, vuole evidenziare quelle connessioni e correlazioni – tradizionalmente taciute e rimosse – tra i fenomeni ed i processi che portarono alla crisi ed al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e quelli operanti in un’Asia la cui complessa storia viene, tuttora, sottovalutata.
Quando una farfalla batte le ali in Cina si sofferma sul ruolo che, nella crisi e nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ebbero tanto la Persia quanto, indirettamente, la Cina, dimostrando come il pregiudizio etnocentrico che ancora permea la formazione, la divulgazione e la costruzione dell’immaginario occidentale sia un pernicioso ostacolo a una comprensione di ben più ampio respiro e alla lezione metodologica che ne se ne può trarre.
In questa prospettiva, il riconoscimento di una molteplicità di poli e fattori transculturali è la precondizione per affrontare qualsiasi problematica: storica, politica, economica o strategica.
Una precondizione troppo spesso, volutamente, ignorata da una cultura occidentale che, a differenza di quelle orientali, ha rifiutato la logica olistica privilegiando un approccio molto settoriale.
Silvio Marconi – ingegnere, antropologo, operatore di Cooperazione allo sviluppo, Educazione allo Sviluppo e Intercultura – fa ricerca, da anni, nell’ambito dell’antropologia storica e dei sincretismi culturali. Ha pubblicato, al riguardo: Congo Lucumì (EuRoma, Roma, 1996), Parole e versi tra zagare e rais (ArciSicilia, Palermo, 1997), Il Giardino Paradiso (I Versanti, Roma, 2000), Banditi e banditori (Manni, Lecce, 2000), Fichi e frutti del sicomoro (Edizioni Croce, Roma, 2001), Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma, 2002), Dietro la tammurriata nera (Aramiré, Lecce, 2003), Il nemico che non c’è (Dell’Albero/COME, Milano, 2006), Francesco sufi (Edizioni Croce, Roma, 2008), Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016).
Prezzo di copertina: 18 euro Prezzo effettivo: 15.5 euro