Libri, biblioteche e stati di coscienza

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Libri, biblioteche e stati di coscienza

Un mio contributo di qualche anno fa, ritrovato facendo un po’ di pulizia nel mio laptop. Non ricordo per quale progetto. Rileggendolo ho, semplicemente, pensato di condividerlo.

Manuel Olivares

 

Nell’era della digitalizzazione sono ancora necessarie le biblioteche?

Non posso non partire da questo titolo eloquente di un articolo dell’amica Anna Manna cui non posso non dare una mia — ragionata — risposta.

La digitalizzazione dei libri rappresenta senz’altro un progresso interessante. Oggi buona parte dello scibile è maggiormente fruibile — rispetto a solo trent’anni fa — proprio grazie alle diverse espressioni della rivoluzione digitale.

Da un punto di vista puramente razionale, se fino a pochi decenni fa chi voleva avere accesso ad un determinato testo doveva recarsi fisicamente in libreria o biblioteca oggi, in diversi casi, molti contenuti sono comodamente a portata di click.

Tutto questo non è rimasto senza conseguenze nel mondo dell’editoria e del giornalismo, dove si sono registrate e si continuano a registrare significative contrazioni della domanda ma credo si possa già dire che — no — l’oggetto libro non è passato e con ogni probabilità non passerà in desuetudine.

E questo non solo perché esistono cultori di libri al pari di coloro che ancora preferiscono i vinili ai moderni cd o alle piattaforme on line di musica come Spotify. Possiamo difatti dire che, cultori a parte, se il vinile è oggi effettivamente desueto il libro ( e, di conseguenza, le biblioteche) no!

Cerchiamo di capirne brevemente le ragioni.

Il grande storico delle religioni Mircea Eliade — che univa alle qualità dello studioso infaticabile lo stile raffinato del romanziere — intitola uno dei primi capitoli della sua opera monumentale, purtroppo rimasta incompiuta — Storia delle credenze e delle idee religioseLa storia inizia a Sumer. Sappiamo difatti che, stando ai dati di cui disponiamo oggi, la rivoluzione della scrittura si sviluppa proprio a partire dal mondo sumero.

Dunque, quando i contenuti mentali (nell’ambito delle culture che hanno prodotto i sistemi ideografici di scrittura) o le parole, nelle culture che hanno prodotto le scritture alfabetiche (a partire da quella fenicia) hanno iniziato a fissarsi su supporti materiali — di volta in volta: marmo, pietra, bronzo, terracotta — divenendo in qualche modo “immortali”, nel mondo umano hanno iniziato a delinearsi i contorni di “quel che si usa chiamare la storia” (per usare una bella espressione di Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli).

Al marmo, alla pietra, al bronzo ed alla terracotta sarebbero presto subentrati, a seconda dei climi e delle latitudini, il papiro, il bambù, la seta, le foglie di palma (su cui venne originariamente scritto il Canone Pali), le pelli di animali (presto raffinate in pergamene su cui è stata in buona parte impressa, per fare appena un esempio, la biblioteca di Qumran di cui siamo venuti a conoscenza a partire dalla celebre scoperta dei “rotoli del Mar Morto”) fino al trionfo, a partire dal diciassettesimo secolo — volendo rimanere qui in una prospettiva solo europea — della carta.

La storia dell’uomo si è dunque dipanata tra simboli, ideogrammi e grafemi di innumerevoli lingue, immortalati su materiali disparati che hanno fatto convergenza su un oggetto dal valore archetipale: il libro come vettore primo di conoscenza.

Intere civiltà hanno fondato la propria storia sul cardine di un libro cui hanno fatto da corollario un numero crescente di altri libri. Pensiamo all’Antico ed al Nuovo Testamento, al Corano, ai Veda, all’Avesta, al già citato Canone Pali e a tutto quello che è stato scritto a partire da questi fondamenti sapienziali.

Come trascurare, poi, le dimensioni del mythos, del racconto (spesso — ma non necessariamente — di carattere sacro), dell’epica, della filosofia, della poesia, della letteratura,  delle multiformi espressioni della scienza che si sono generalmente avvalse del veicolo divulgativo del libro e di quegli impareggiabili centri irradiatori di conoscenza che sono state e sono ancora oggi le biblioteche?

Dunque il libro — il suo stesso concetto e la sua stessa “fisicità” che mantiene una sua forza evocativa al di là dei contenuti che, certo, possono essere trasmessi anche su supporti digitali — ed il suo centro di elezione — la biblioteca — non possono non esemplificare il nostro stesso essere nella storia — che altro non è che pagine e pagine di un grande libro del genere umano — portandoci, parallelamente, al di là dei più angusti limiti del tempo.

Il libro — il suo stesso concetto e la sua stessa fisicità che non può svaporare nella rarefazione della rete — ci appartiene dunque troppo intimamente per poter cadere in desuetudine.

Sono difatti troppe le risonanze — consce ed inconsce — che la vista di un libro, di un qualunque libro, non può non attivare in noi.

E le biblioteche? Come le possiamo definire? Semplicemente come “magazzini di libri”?

No, senza entrare nello specifico di come è effettivamente organizzata una biblioteca degna di questo nome — con i suoi sistemi di catalogazione ed archiviazione — chi ha frequentato, pur saltuariamente, una buona biblioteca sa che ha un suo peculiare valore aggiunto. Una sua atmosfera gravida di ispirazioni innanzitutto per quel che evoca la vista stessa dei libri: un desiderio di raccoglimento, di intimità, di riflessione, un senso di relativa “atemporalità”. Ma poi, come trascurare l’irrinunciabile valore, direi quasi monacale, del silenzio? Un requisito essenziale per immergersi nella rarefazione del pensiero, nella suggestione del racconto, nei meandri infiniti, inesauribili del sapere.

Il silenzio di ogni biblioteca che si rispetti finisce dunque per proiettarci in un caleidoscopio di stati di coscienza, finalmente lontani dalla volgarità del contingente, di quel mondo “ordinario”, fatto di mal-governati impulsi ed attaccamenti per cui, in arabo, esiste un vocabolo specifico: dunyā. Quel mondo sommariamente materiale che troppo spesso si riduce al grigio palcoscenico in cui “l’uomo inserito”, di Gaberiana memoria, “attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana”.

Gli stati di coscienza intravisti, “intravissuti” nel silenzio della biblioteca, contorniati dalla forza evocativa della fisicità stessa dei libri, sono senz’altro più nobili. Ci proiettano in una dimensione più alta del nostro essere uomini, nella libertà del pensiero puro, svincolato dai limiti di quella materia di cui noi stessi siamo, per fortuna solo in parte, composti. Svincolato, almeno in certa misura, dai limiti più grossolani dello spazio-tempo facendo così, di noi, persone più libere o, almeno, meno assoggettate alla volgarità di dunyā. Tutto questo ha un valore che non può essere sostituito dalla razionalità della digitalizzazione. Ha un valore di nobiltà che deve essere, in ogni modo, preservato!

 

Riferimenti

Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, Vol. I., Sansoni, 1979.

Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, 1945.

Giorgio Gaber, Qualcuno era comunista, Il teatro della canzone, Vol. II, 1992.