La fioritura dell’identitarismo nazista

Di seguito, il quarto articolo del nostro collaboratore Silvio Marconi della serie: Le pericolose invenzioni delle identità.
Qui il primo articolo, qui il secondo, qui il terzo.
Buona lettura!
La società della Roma tardo repubblicana ed imperiale era certamente schiavista, militarista ed imperialista e caratterizzata da pratiche sanguinarie come i ludi gladiatorii, nonché dalla istituzionalizzazione della corruzione come base del sistema politico, che si incentrava infatti sull’appoggio, comperato, dei clientes ai candidati alle cariche (ossia sulle origini stesse di quello che oggi chiamiamo “clientelismo”) e sull’arricchimento successivo alla conquista di quelle cariche attraverso la gestione delle concessioni e degli appalti. Inoltre certamente i Romani avevano una concezione suprematista, nel senso che non solo si ritenevano destinati al dominio dagli dei, ma applicavano questa concezione anche alla pratica militare, non disdegnando il genocidio, come a Cartagine o in Gallia, e perfino a quella giudiziaria; in un noto caso, Cicerone difende un funzionario romano dalle accuse di maggiorenti di una provincia che vanno dal furto alla violenza sessuale, dall’omicidio alla corruzione e non nega la veridicità delle accuse ma riesce a farlo assolvere sottolineando ai giudici che permettere a dei non-Romani di far condannare un Romano equivarrebbe a mettere in discussione il primato di Roma!
Pure la società romana non era né razzista né contraria all’apertura ad elementi culturali “stranieri”; in nessun documento romano e tanto meno in una disposizione normativa si fa riferimento al colore della pelle o ad altri tratti somatici per basarvi regole differenziate e fra gli imperatori romani se ne contano di origine nordafricana, iberica, mediorientale e del resto la Constitutio Antoniniana emanata da Caracalla nel 212 d.C. dava la cittadinanza romana a tutte le persone libere dimoranti nei confini dell’Impero, senza alcuna differenza etnica o “razziale”.
Culti, rituali, pratiche magiche, tecniche di irrigazione, ricette, mode vestimentarie e di acconciatura, stili architettonici e pittorici, scultorei e di oreficeria, tecniche militari ed armi di origine mediorientale, germanica, nordafricana, gallica, sarmatica vennero introiettati senza problemi a Roma e prima dell’affermazione esclusivista del Cristianesimo (anch’esso mediorientale) godevano di immenso successo a Roma e nell’Impero culti orientali come quello di Iside, di Mitra o del Sole Invitto, mentre comunità ebraiche operavano in tutto il Mediterraneo romanizzato e oltre. Le città romane erano cosmopolite non solo per la significativa presenza di schiavi di origine straniera ma per l’esistenza di importanti comunità di diversa origine ed in particolare la capitale vedeva agire medici egiziani, architetti siriaci, danzatrici anatoliche, mercenari gallici, osti iberici, commercianti cananei, addestratori di animali dalle regioni indoiraniche, ecc. .
Roma era talmente convinta della propria superiorità da non avere bisogno alcuno di teorie che la legittimassero minimizzando il livello di altre culture (ad esempio apprezzava quella greca e quella egizia, pur avendole sottomesse) anche se non disdegnava miti come quelli cari ad Augusto ed al suo intellettuale organico di corte Virgilio sulle origini troiane e, per quel tramite, ovviamente divine della fondazione della città e della dinastia inaugurata dallo stesso Augusto.
Dopo secoli e secoli di frantumazione della compagine che era stata romana, dopo il trauma delle cosiddette “invasioni barbariche”, quello delle invasioni normanne e quello dell’espansione islamica (nella foto il livello di espansione durante il Califfato Omayyade: 661-750) nel Mediterraneo, dopo la nascita di nuove realtà statuali potenti anche in territori che romanizzati non erano mai stati (come la Germania e la Russia) o lo erano stati solo parzialmente e temporaneamente (come l’Inghilterra), dopo l’affermarsi feroce del Cristianesimo e la sua frattura prima in Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente e poi con la Riforma luterana, le realtà statuali che caratterizzavano l’Europa nel periodo fra l’avvio della conquista genocidaria delle Americhe e quello del colonialismo moderno non avevano la stessa concezione degli antichi romani della propria, ovvia, superiorità: avevano bisogno di una più complessa legittimazione.
La trovarono per un certo tempo nella versione che il Cristianesimo era andato elaborando dal momento in cui era diventato religione di stato e si era per così dire “imperializzato” e le Crociate furono l’affermazione non solo sul piano pratico militare ma su quello teorico e perfino teologico della superiorità della Chiesa cattolica sugli “infedeli” e gli “eretici”, categoria applicata non solo ai Musulmani ed ai pagani del Nord (ad esempio le genti prussiane e slave in età carolingia e post-carolingia), ma anche alle deviazioni interne alla compagine cristiana, come quella cataro-albigese o quella dei Bogomili. Da quella sorgente nasce l’Inquisizione, nasce l’espulsione dei Musulmani e degli ebrei dalla Penisola Iberica, nascono i ghetti ed i primi massacri di Ebrei, ma soprattutto nasce la concezione ibero cattolica dell’inizio del XVII secolo sulla “limpieza de sangre”: ad un suddito dei cattolicissimi re di spagna venivano riconosciuti i (pochi) diritti che si riservavano ai sudditi solo se era classificato come “cristiano viejo” e per esserlo, doveva dimostrare (cosa pressoché impossibile stante la Storia reale spagnola dei secoli precedenti, tanto che la compravendita di patenti falsificate è pratica comune in Spagna) di non avere avuto né Ebrei né Musulmani fra i suoi avi per ben 4 generazioni ascendenti. Ciò si basava su una concezione relativamente nuova nel mondo post-romano: quella secondo la quale una appartenenza ad una ideologia religiosa, ad una cultura, si trasmetteva per via di sangue di generazione in generazione, cosa che contrasta con la vera concezione cristiana per la quale il battesimo affratella come membri di una unica Chiesa indipendentemente dal passato proprio e della propria famiglia.
Paradossalmente, l’unico precedente si poteva trovare nella concezione di quell’Ebraismo tanto disprezzato dagli Iberocattolici per la quale si è membri del “Popolo eletto” semplicemente se si ha una madre ebrea.
E’ da quella idea della “limpieza de sangre” che intreccia biologia ed ideologia in modo inscindibile che nasce anche il concetto di “casta” che i Portoghesi affibbiano alle forme di organizzazione sociale proprie dell’Induismo e che non hanno originariamente lo stesso contenuto che appunto i Portoghesi (che condividono quasi completamente la concezione spagnola sopra riassunta) hanno relativamente al rapporto tra appartenenza ad una “identità ideologico-religiosa” e biologia; infatti le categorizzazioni in ambito induista, pur essendo separatorie, non sono fra religioni differenti, mentre il termine portoghese si rifà al concetto ibero cattolico perché “casta” deriva da un ambito che ha a che fare appunto con la purezza che viene attribuita in forma abbinata all’ambito ideologico-religioso ed a quello biologico: si è “puri” se si appartiene al Cattolicesimo e vi appartenevano anche gli avi!
Per qualche secolo questa forma di concezione legittimante basta agli Europei e serve a gestire la questione “identitaria”: gli “altri” sono tutti quelli che non sono cattolici e che vengono classificati in base alla loro distanza dai parametri della propria società cattolica; ma si pongono due problemi già in quella fase: il primo riguarda gli indios, il secondo i Neri.
La Chiesa cattolica chiarisce quasi subito che gli indios sono esseri umani (dopo un primo dibattito) ma questo non impedisce immediatamente la loro strage e la loro schiavizzazione, che pure entrano in conflitto con l’accoglienza…forzata nel suo seno attraverso battesimi di massa; rapidamente, anche grazie alle denunce di Monsignor de Las Casas circa il genocidio perpetrato dai colonizzatori ma, soprattutto, a causa della non adeguatezza degli indios al lavoro schiavile si introduce l’idea di usare come schiavi i Neri deportabili dall’Africa e del resto è proprio De Las Casas a proporre questa terribile idea. I primi trafficanti sono i Genovesi con licenza spagnola, poi si impegnano Spagnoli e Portoghesi, più tardi tutte le nazioni europee seguiranno l’esempio; anche in questo caso la legittimazione nasce da una strumentalizzazione dello scritto biblico, identificando gli africani con i discendenti di uno dei tre figli (assieme a Sem e Jafeth) di Noé: Cam, termine che in realtà deriva dall’egizio “khem”, che era la denominazione che il popolo egiziano dava al proprio Paese fertilizzato dalle piene del Nilo. Cam quindi originariamente vuol dire, nell’Antico Testamento, semplicemente “egizio” ed è semmai mitologicamente l’avo, appunto, delle genti d’Egitto ma a lui si attribuisce anche l’ascendenza delle genti “etiopi” (termine usato già dai Greci che vuol dire “bruciato”) ossia degli abitanti delle regioni africane a sud dell’Egitto, certamente neri. La maledizione scende su Cam, nell’Antico Testamento, per aver visto suo padre ebbro e nudo (Genesi 9:20-27) ed essa consiste nel diventare schiavo dei suoi fratelli e questo diventa l’argomento per legittimare la schiavizzazione degli Africani da parte degli Europei. Schiavi neri erano già presenti in Europa prima dell’impresa di Colombo, specie grazie alle catture di Musulmani, ma non si era mai posta la necessità di legittimare biblicamente la loro schiavitù perché erano appunto prede belliche “infedeli”, mentre dal XVI secolo si impone una legittimazione non più basata sulla “maomettaneità” ma su un altro fattore, posto che la Chiesa non bandisce crociate contro le comunità africane sub sahariane: questo fattore sarà dunque la discendenza da Cam, ossia un fattore genealogico abbinato ad uno somatico (la pelle nera) che fondano assieme il “razzismo schiavista”.
E’ la pratica schiavista, la famosa “triangolazione transatlantica”, che vede coinvolti circa 20 milioni di Africani, 1/3 dei quali muore prima di giungere alle coste africane ed altrettanti nel viaggio via mare, che determina l’ideologia razzista, in tutte le sue forme e conseguenze e varianti, compresa una classificazione complicatissima, specie in area dominata dagli Spagnoli, di tutte le possibili combinazioni di nascita da persone con diversa percentuale di sangue nero, bianco e indio, da far invidia a Mengele.
Gli studiosi non infettati dal suprematismo bianco sono ormai concordi: è quella “triangolazione” che deporta i Neri nelle Americhe, porta i prodotti coloniali americani in Europa e i prodotti europei in Africa e che rappresenta la base materiale (in termini di capitali) della Rivoluzione Industriale (non nella Spagna ma in Inghilterra, si dirà subito perché), la culla del moderno razzismo che fiorisce appunto per legittimarla. Ne trae alla fine vantaggio soprattutto l’Inghilterra perché la Spagna, a causa dell’espulsione dei Musulmani e degli Ebrei, si è privata della base scientifica, commerciale, artigianale che poteva permetterle il decollo della manifattura e a causa delle sue guerre continue e dell’azione dei corsari britannici e olandesi perde immense risorse di quelle rapinate nel “Nuovo Mondo” ed è in più costretta ad importare dalle armi ai pizzi, dalle cristallerie alle stoffe pregiate proprio per l’arretratezza della sua economia.
Lo stesso avverrà più tardi, quando si affermerà al posto della tratta schiavista transatlantica il colonialismo moderno, che non a caso vedrà protagonista, soprattutto in India, quella Inghilterra che, avendo investito nelle fabbriche e nella proletarizzazione industriale dei suoi contadini le cospicue risorse accumulate con la “triangolazione”, a quel punto, per distruggere definitivamente la Spagna si “scoprirà” antischiavista. E’ la fase della “missione civilizzatrice dell’uomo bianco” cara anche a Kipling, del “razzismo scientifico” che strumentalizza il darwinismo per collocare il Bianco in cima e le altre “razze” umane (inventate) sui gradini intermedi fra lui e la scimmia, la fase di Gobineau e del razzismo di Hegel e Kant, la fase in cui si organizzano gli “zoo umani” nelle Expo Universali europee per mostrare i “selvaggi”, la fase dei grandi genocidi in Congo (Belgi), India (Inglesi), Namibia (Tedeschi), Algeria (Francesi), Indonesia (Olandesi), Mozambico e Angola (Portoghesi), Libia (Italiani), SudAfrica (Inglesi e poi Boeri), ecc.
Il fatto che questa sia anche la fase del fiorire dei nazionalismi europei e del progressivo entrare in crisi di alcune compagini statuali multinazionali, a partire dall’Impero Ottomano, che diventerà esplosiva con il crollo anche dell’Impero Austroungarico (e la crisi di quello zarista) nella Prima Guerra Mondiale porta la questione delle “identità” a diventare centrale in due modi diversi ma intrecciati. Il primo è quello che afferma la necessità di una corrispondenza, in Europa (ma avrà conseguenze anche nelle colonie…) fra Stato, Nazione ed identità etnica; il secondo è quello che serve ad arginare l’applicazione universalistica del primo, che metterebbe in discussione l’edificio coloniale, e che tende a differenziare i “popoli civili” la cui identità va riconosciuta e resa Stato, dai “popoli inferiori” che vanno tenuti soggiogati. Se inizialmente può sembrare possibile proprio grazie al razzismo tenere separate i due ambiti, le cose si complicano con situazioni come la guerra fra Inglesi e Boeri in Sudafrica, le guerre balcaniche, ed il trasferirsi nel cuore dell’Europa, sulle ali del conflitto fra potenze imperialiste, di concezioni suprematiste prima applicate solo in ambito coloniale. Ecco che i Tedeschi sperimentano in Namibia pratiche che poi useranno nella Seconda Guerra Mondiale e che non avevano creato alcuno scandalo quando erano state usate contro i Neri, ma ecco anche la competizione fra Anglosassoni, Tedeschi e Francesi ad occupare il vertice della “piramide razziale” e l’uso per questo scopo di tutto l’armamentario della mistificazione identitaria: rimozioni, falsi storici ed archeologici, libelli popolari e studi dotti, antropologia e linguistica asservite a dimostrazioni suprematiste, sottolineatura della “contaminazione negroide” che abbassa la caratterizzazione come “bianchi” di certe popolazioni, ad esempio mediterranee, al punto che nel parlamento sabaudo si definiscono ufficialmente “Affricani” i Siciliani, mentre gli Anglosassoni trattano tutti gli Italiani come “niggers” negli USA e come “cinesi bianchi” in Australia.
La battaglia è a tutto campo per umiliare e de-umanizzare certo i non-Europei, ma anche taluni segmenti della popolazione europea, e si gioca certamente in termini economici, militari, politici, ma anche culturali e in questo ambito sulle pratiche identitarie mistificatorie ben oliate nei secoli, a cui si aggiunge l’apporto del razionalismo scientista, delle nuove tecnologie, dei nuovi metodi di ricerca e divulgazione, delle strutture educative allargate, dei primi media, del cinema, del fumetto.
Il passo successivo, lo vedremo, sarà quello di rimuovere il debito etnoculturale dell’“Uomo bianco” verso chi “bianco” non è e poi di applicare gradualmente questa stessa rimozione all’interno del mondo “bianco” verso specifici gruppi “anomali”…e già si sentirà puzza di gas…
Vai al quinto articolo
I libri di Silvio Marconi
Uno studio che, lungi dall’avere un obiettivo “enciclopedico” o di minuziosa analisi storica, vuole evidenziare quelle connessioni e correlazioni – tradizionalmente taciute e rimosse – tra i fenomeni ed i processi che portarono alla crisi ed al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e quelli operanti in un’Asia la cui complessa storia viene, tuttora, sottovalutata.
Quando una farfalla batte le ali in Cina si sofferma sul ruolo che, nella crisi e nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ebbero tanto la Persia quanto, indirettamente, la Cina, dimostrando come il pregiudizio etnocentrico che ancora permea la formazione, la divulgazione e la costruzione dell’immaginario occidentale sia un pernicioso ostacolo a una comprensione di ben più ampio respiro e alla lezione metodologica che ne se ne può trarre.
In questa prospettiva, il riconoscimento di una molteplicità di poli e fattori transculturali è la precondizione per affrontare qualsiasi problematica: storica, politica, economica o strategica.
Una precondizione troppo spesso, volutamente, ignorata da una cultura occidentale che, a differenza di quelle orientali, ha rifiutato la logica olistica privilegiando un approccio molto settoriale.
Silvio Marconi – ingegnere, antropologo, operatore di Cooperazione allo sviluppo, Educazione allo Sviluppo e Intercultura – fa ricerca, da anni, nell’ambito dell’antropologia storica e dei sincretismi culturali. Ha pubblicato, al riguardo: Congo Lucumì (EuRoma, Roma, 1996), Parole e versi tra zagare e rais (ArciSicilia, Palermo, 1997), Il Giardino Paradiso (I Versanti, Roma, 2000), Banditi e banditori (Manni, Lecce, 2000), Fichi e frutti del sicomoro (Edizioni Croce, Roma, 2001), Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma, 2002), Dietro la tammurriata nera (Aramiré, Lecce, 2003), Il nemico che non c’è (Dell’Albero/COME, Milano, 2006), Francesco sufi (Edizioni Croce, Roma, 2008), Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016).
Prezzo di copertina: 18 euro Prezzo effettivo: 15.5 euro