La fabbricazione dell’“altro”

Di seguito, il quinto articolo del nostro collaboratore Silvio Marconi della serie: Le pericolose invenzioni delle identità.
Qui il primo articolo, qui il secondo, qui il terzo, qui il quarto.
Buona lettura!
L’“altro” è per definizione diverso da “noi”, qualsiasi atteggiamento si voglia avere verso di lui; è considerato diverso sia che questo serva a scacciarlo, discriminarlo, ucciderlo, sia che serva a valorizzarlo come fattore di pluralismo oppure ad integrarlo: in entrambi i casi ci si fonda sulla diversità fra due realtà concepite come separate, distinte. Che questa diversità la si accetti, oppure la si “tolleri” (e “tollerare” è già suprematismo perché si sta ponendo se stessi e la “propria” cultura su un piedistallo da cui si giudica e si “tollera”, appunto, l’altro”), la si respinga, la si voglia cancellare culturalmente o fisicamente, fa certamente la differenza ma in tutti quei casi si parte sempre comunque dal paradigma seguente “io non sono simile a te, noi non siamo simili a voi” e questo significa usare il concetto di “identità” (la “mia” e la “tua”, e soprattutto la “nostra” e la “loro”) in modo rigido, ossia del tutto falso.
“Rigido” vuol dire che si crede ai seguenti postulati, falsi:
- faccio parte di un gruppo/una comunità che ha una sua identità differente in tutto e per tutto dalle altre;
- ho il diritto/dovere di promuovere, tutelare e difendere quella identità attraverso la riaffermazione di quelle differenze;
- la nostra identità non è debitrice in alcun modo verso altre realtà, insomma non ci sono elementi significativi di essa che in effetti provengano da apporti originatisi in altre comunità, altri gruppi, altre culture, altre società;
- la nostra identità si perde nella notte dei tempi, è ancestrale, astorica e se si è evoluta è solo per fattori interni; ogni apporto esterno diventa in questa logica una “contaminazione” che si può accettare o tollerare o rifiutare o combattere.
Tutto il cammino dell’evoluzione umana preistorica e poi la Storia dell’Umanità, invece, sono segnati da fattori che smentiscono totalmente questi postulati. L’Homo sapiens sapiens è un’unica razza umana, nessuna distinzione “razziale” è veritiera; le differenze somatiche sono solo fenotipiche, e determinate dall’interazione fra le caratteristiche della specie umana, quelle del clima delle diverse regioni del Pianeta in cui l’Uomo si è diffuso, le risposte evolutive naturali a tali condizioni e le scelte culturali attinenti all’ottimizzazione dell’adattamento a tali condizioni.
Per capirci, l’Homo sapiens sapiens che migra dall’Africa all’Eurasia ha la pigmentazione scura, ma le alte latitudini favoriscono gli individui con pelle meno scura per il minor irraggiamento solare, cosicché da un lato si avvia una selezione naturale di certi caratteri (schiarimento della pelle ma anche degli occhi e dei capelli, ad esempio), dall’altro tale selezione naturale è resa più veloce da scelte per così dire culturali negli accoppiamenti, che gradualmente privilegiano quelli in cui c’è migliore risposta adattativa, ossia con la pelle ad esempio più chiara; la specie umana resta però una sola, senza effettive differenze “razziali” e tutti gli studi recenti (a partire da quelli del grande genetista italiano Cavalli Sforza; nella foto) hanno dimostrato che esiste una variabilità genetica e perfino fenotipica maggiore fra individui che fanno parte di una di quelle che si sono falsamente chiamate “razze” che non fra individui appartenenti a differenti “razze”!
Ovviamente, nelle centinaia di migliaia di anni della Preistoria e nelle migliaia di anni della Storia umana si sono prodotte differenze culturali, basate sulla diversa interazione dei gruppi umani con gli ambienti di vita e con gli altri gruppi umani; differenze nelle tecniche costruttive ed agricole, nelle ideologie religiose e nell’arte, nelle forme di società e nei riti, e molte altre. Se si fa eccezione per pochissimi gruppi umani che sono stati costretti dagli eventi (in genere dalla pressione di invasori) a vivere in aree montuose impervie o foreste semi-impraticanili, però, durante tutta la Preistoria e soprattutto durante tutta la Storia nessun gruppo umano ha elaborato la “sua” cultura e quindi la “sua” identità in modo totalmente autonomo ed isolato. Basti pensare alla Rivoluzione Neolitica, che ha visto l’affermazione dell’agricoltura, e che è stato un fenomeno diffusivo di un insieme complesso di nuove tecniche ma anche di riferimenti mitici, rituali, artistici, di forme di organizzazione sociale; una diffusione basata su vari meccanismi coagenti, come ancora una volta confermano i recenti studi genetici sia sulle piante che sugli esseri umani: migrazione di gruppi già in posssesso dei nuovi elementi in aree abitate da genti che non li conoscevano, contatti di scambio di beni e conoscenze senza rilevante migrazione di significativi gruppi di individui, imposizioni di innovazioni da parte di invasori, ecc. .
Nel tempo, l’origine reale di certi prodotti e di certi riti, di certi cibi e di certe fiabe, di certe idee religiose e di certe armi, di certe parole e di certe istituzioni sociali si è spesso dimenticata o fatta confusa o si è resa mitica, ma spesso vi è stata un’azione cosciente per negarla, cancellarla, rimuoverla, falsificarla e questo, in apparenza paradossalmente, è avvenuto assai di più proprio col progredire delle metodologie e degli strumenti della ricerca linguistica, archeologica, filologica, storiografica, documentale, antropologica! I Romani antichi sapevano benissimo che le pesche erano un frutto che essi avevano acquisito dalla Persia, sebbene non conoscessero la loro vera origine, cinese, e le chiamavano persicae, termine che peraltro ritroviamo perfino nel dialetto romanesco attuale e da cui trae origine per contrazione la stessa parola “pesca”, mentre gli autori greci ammettevano il loro debito scientifico verso la civiltà egizia; la situazione muta con la cristianizzazione forzata dell’Europa, prima, con l’affermarsi della triangolazione transatlantica schiavista ad opera degli Europei, poi, ed infine soprattutto con il trinomio Rivoluzione Industriale-Nazionalismo-Colonialismo.
Il Cristianesimo fattosi religione di stato saccheggia l’intera galassia rituale, simbolica ed architettonica delle società politeiste, nei riti e nelle raffigurazioni, nei simboli e nei cerimoniali, nelle scelte calendariali e nei racconti, ma contemporaneamente fa del tutto perché si dimentichino le origini di quegli elementi, sia nell’ideologia politeista (ridotta a “paganesimo”, con un termine che richiama al disprezzo dei cittadini per i contadini), sia in aree geografiche distinte da quelle Roma e Costantinopoli che della Cristianità rappresentano i fari (e per i cattolici, dopo lo scisma, resterà positiva solo Roma…) e da quella Gerusalemme che ne rappresenta il polo mistico-simbolico.
Secoli di questa pratica di rimozione hanno fatto sì che quasi nessun fedele cristiano odierno sappia che le figure angeliche sono figlie della cultura iranica, che le aureole sono invenzione induista diffusasi poi al Buddhismo assai prima che nascesse Cristo e lo stesso vale per il rosario, giunto peraltro in Europa attraverso la mediazione islamica, che il racconto del Diluvio si trova nell’epopea mesopotamica di Gilgamesh, che le campane di bronzo non nascono in Campania ma vi transitano, provenendo dall’Egitto copto che le ha ricevute dall’area indoiranica che a sua volta le ha copiate ai modelli cinesi plurimillenari. Peggio, fornendo uno dei tanti alimenti al razzismo, ci hanno abituato ad un Cristo biondo, bianco e dagli occhi azzurri, facendoci dimenticare che doveva invece essere un Palestinese di religione ebraica, olivastro, bruno, che gli apostoli non erano europei, che molti martiri (come il co-patrono di Palermo) erano Neri, che l’evangelizzazione dell’Europa è stata merito di Nordafricani e Mediorientali e quindi che chi rifiuta oggi il migrante africano o asiatico in nome della “identità cristiana” non conosce le radici mediorientali e nordafricane (Sant’Agostino, per citare un nome…) del Cristianesimo, della sua teologia, dei suoi simboli!
Nell’epoca della tratta schiavista transatlantica e poi in quella del colonialismo moderno si è fatto di peggio per cancellare i debiti culturali in tutti i campi che la suprematista Europa aveva ed ha verso culture che si sono volute raffigurare come “altre” e “inferiori” e di cui pertanto non si poteva ammettere che avessero partecipato in alcun modo a formare quella che ci è stato fatto credere essere la “nostra identità”! L’immenso patrimonio culturale di matrice islamica o che per tramite islamico ci è giunto dall’India e dalla Cina è stato negato e rimosso, sotto la coltre del classicismo, sebbene a questi processi dobbiamo la carta e il gelato, i numeri e le arance, le denominazioni astronomiche e le banconote, la stampa e i fagiolini, le bufale e la polvere da sparo, la bussola e la poesia romanza, l’arco ogivale e tanti elementi di autori come Dante, Boccaccio, Francesco di Assisi, Ciullo d’Alcamo, centinaia di parole della nostra lingua e le bande militari, l’arabesco e le giubbe, la trigonometria e la carta igienica, feste popolari e fiabe, la cassata e il “gotico fiorito”, gli elisir e il panforte e mille altri elementi.
Lo stesso classicismo e più ancora il neoclassicismo sette-ottocentesco hanno falsificato l’arte antica, propagandando l’idea di un candore dominante in statue e templi greci e romani, contrapposto alla “selvaggia policromia carnevalesca” delle culture africane ed asiatiche: operazione che assieme ad altre serviva a spezzare il legame, invece fortissimo, fra le culture nord-mediterranee e quelle afro-mediorientali, dato che in effetti, invece, le statue ed i templi greci e romani erano ridondanti di colori violenti e policromie di netta matrice afromediorientale, come confermano tutti i recenti studi sui resti di pigmento colorato e come dimostrò magistralmente Martin Bernal nel suo “Atena nera” (1987). Intanto le scienze archeologiche ed antropologiche fiorivano e venivano messe al servizio della mistificazione identitaria razzista, della negazione delle matrici miste e meticce di quella che doveva essere sempre più presentata come una “identità superiore”, quella bianca europea, lasciando poi ai conflitti nazionalistici fra Europei di stabilire se al vertice della piramide ci fossero Tedeschi, Inglesi o Francesi…; sempre Bernal ci ricorda che quando gli archeologi britannici e francesi trovavano una raffigurazione egizia di un uomo dalla pelle chiara assiso in trono ed omaggiato da uno con la pelle scura analizzavano la scena come “suddito negroide di faraone egizio”, ma quando la scena rappresentava un uomo dalla pelle chiara genuflesso dinanzi ad una figura dalla pelle bruna ricorrevano a spiegazioni simboliche per evitare di ammettere che vi erano state dinastie nubiane e perciò nere, tra i faraoni egizi. Lo stesso ritrovamento di mummie faraoniche nubiane venne camuffato al British Museum per decenni per evitare che si parlasse di “Faraoni Neri” e solo recentemente si è cominciata a capire l’importanza decisiva delle culture sub sahariane nella conformazione di quella che consociamo come “civiltà egizia”.
Non si poteva accettare che la Cina fosse non solo una cultura millenaria (era troppo difficile negarlo) ma la fonte di una immensa varietà di elementi che avevano portato l’Occidente all’Età Moderna mentre il Kaiser, ai primi del Novecento, arringava le sue truppe in partenza per la missione contro la rivolta dei boxer chiedendo loro di comportarsi peggio degli Unni ed in modo che “per mille anni nessun Cinese abbia più l’ardire di alzare lo sguardo dinanzi ad un Tedesco”: non si poteva ammettere che nello Zimbabwe era fiorita una grande civiltà protostorica nera, con oreficeria stupenda, mentre si saccheggiava quella terra da parte del colonialismo britannico, lo stesso responsabile della distruzione dei bronzi reali del bronzi reali del Benin e del massacro degli artisti loro autori, bronzi di cui quelli simili Youiba, che ispirarono successivamente Picasso e Matisse, sono la pallida derivazione!
Per poterlo massacrare, schiavizzare, rapinare, ridurre a dover essere riplasmato (“civilizzato”) l’“altro” andava fabbricato con precise connotazioni: distanziamento da “noi”, quindi gerarchizzazione e riduzione ad “inferiore” e per far questo tutti gli apporti delle culture “altre” alle “nostre” andavano negati fino a far introiettare non solo alle plebi ma a schiere di borghesi e di intellettuali il concetto di “superiorità” e renderlo senso comune. Tutti, ma proprio tutti gli strumenti sono stati usati a tale scopo: la museografia e le pubblicazioni accademiche, gli “zoo coloniali” ed i fumetti, i racconti per casalinghe e gli atti politici, gli studi antropologici e i circhi, la linguistica e i giornali, i teatri e i fogli volanti, le ballate e le barzellette, i programmi scolastici e l’addestramento militare, le fotografie e la poesia, le parate e le collezioni, i racconti di viaggio e le favole e, più tardi, il cinema, la radio, fino alla TV dato che questa opera non è in effetti mai finita e dalla criminalizzazione del Profeta Mohammed (detto “Maometto”) tardo medievale ai film USA di Fu Manchu degli anni ’20 c’è un continuum terrificante.
Il fatto è che, però, queste metodologie trovarono rapidamente spazio anche all’interno della stessa Europa fra coloro che lottavano per la già citata apicalità e, sposandosi con il nazionalismo, cominciarono ad essere applicate, soprattutto dal XIX secolo, alla duplice invenzione di “identità nazionali” proprie, in larga misura fittizie, e di “alterità” da rifiutare, respingere, espellere (se interne alla nazione, come nel caso di minoranze etnolinguistiche o religiose), combattere; vedremo in uno dei prossimi articoli cosa questo abbia significato e significhi tuttora ma per ora basti sottolineare che l’importazione all’interno delle dinamiche stesse europee (e dell’appendice europea nordamericana) di quelle logiche di fabbricazione identitaria e gerarchizzazione identitaria (e “razziale”) ha aperto il varco alla trasposizione dentro l’Europa di pratiche genocidarie che i “civili” e “democratici” Europei consideravano ripugnanti se applicate a se stessi ma del tutto normali se applicate in contesto coloniale.
Basti ricordare come esempio che è la Francia repubblicana e rivoluzionaria della “Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo e del Cittadino”, della “Liberté, Egalitè, Fraternité” a inviare le sue truppe a cannoneggiare i Neri haitiani insorti che pretendevano che quei principi si applicassero pure a loro! Nessuno scandalo per i massacri britannici in India, per i campi di concentramento tedeschi in Namibia, per il genocidio belga in Congo, per il mitragliamento aereo dei civili libici da parte degli Italiani: lo scandalo scoppia quando ad essere fucilati sono gli ostaggi belgi dell’invasore tedesco nel 1914 o ad essere massacrati sono gli Armeni da parte dei Turchi nel 1914-1915, azioni che già prefigurano la strada che porterà ad Auschwitz.
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I libri di Silvio Marconi
Uno studio che, lungi dall’avere un obiettivo “enciclopedico” o di minuziosa analisi storica, vuole evidenziare quelle connessioni e correlazioni – tradizionalmente taciute e rimosse – tra i fenomeni ed i processi che portarono alla crisi ed al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e quelli operanti in un’Asia la cui complessa storia viene, tuttora, sottovalutata.
Quando una farfalla batte le ali in Cina si sofferma sul ruolo che, nella crisi e nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ebbero tanto la Persia quanto, indirettamente, la Cina, dimostrando come il pregiudizio etnocentrico che ancora permea la formazione, la divulgazione e la costruzione dell’immaginario occidentale sia un pernicioso ostacolo a una comprensione di ben più ampio respiro e alla lezione metodologica che ne se ne può trarre.
In questa prospettiva, il riconoscimento di una molteplicità di poli e fattori transculturali è la precondizione per affrontare qualsiasi problematica: storica, politica, economica o strategica.
Una precondizione troppo spesso, volutamente, ignorata da una cultura occidentale che, a differenza di quelle orientali, ha rifiutato la logica olistica privilegiando un approccio molto settoriale.
Silvio Marconi – ingegnere, antropologo, operatore di Cooperazione allo sviluppo, Educazione allo Sviluppo e Intercultura – fa ricerca, da anni, nell’ambito dell’antropologia storica e dei sincretismi culturali. Ha pubblicato, al riguardo: Congo Lucumì (EuRoma, Roma, 1996), Parole e versi tra zagare e rais (ArciSicilia, Palermo, 1997), Il Giardino Paradiso (I Versanti, Roma, 2000), Banditi e banditori (Manni, Lecce, 2000), Fichi e frutti del sicomoro (Edizioni Croce, Roma, 2001), Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma, 2002), Dietro la tammurriata nera (Aramiré, Lecce, 2003), Il nemico che non c’è (Dell’Albero/COME, Milano, 2006), Francesco sufi (Edizioni Croce, Roma, 2008), Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016).
Prezzo di copertina: 18 euro Prezzo effettivo: 15.5 euro