La fabbrica del razzismo; la pop-sinofobia

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La fabbrica del razzismo; la pop-sinofobia

A cura di Silvio Marconi, autore di Quando una farfalla batte le ali in Cina

 

Questa serie di articoli, di cui ora presentiamo il terzo (cliccare qui per il primo e qui per il secondo), tratta di uno dei vari esempi di fabbricazione del razzismo: quello della sinofobia, ossia dell’odio, del disprezzo, della criminalizzazione dei Cinesi. Nell’articolo precedente si è già detto come questa realtà, come del resto qualunque altro tipo di razzismo, sia frutto di un processo gestito “dall’alto” (da parte di élites intellettuali al servizio delle classi dominanti) ma che diventa effettivo solo quando dalle concezioni teoriche accademiche, dalle conferenze, dai testi dotti si passa ai giornali, ai fogli volanti, ai fumetti, alle cartoline, alle foto, alle canzoni, poi, col progredire della tecnologia, all’uso della radio, del cinema, della TV, oggi dei social. Se in questa diffusione i vari strumenti di fabbricazione dell’immaginario collettivo popolare non venissero impiegati sistematicamente, la sinofobia, come qualunque altro tipo di razzismo, resterebbe un fenomeno marginale e incapace di produrre quegli effetti immediati e soprattutto duraturi che invece si manifestano nella società, e che vanno dalla paura al disprezzo attivo, dal pregiudizio malmascherato a quello esplicito, dal rifiuto alla discriminazione, dall’insulto alla violenza, dalla ghettizzazione alla strage.

Anche se può sembrare strano, la sinofobia è oltre tutto la forma di razzismo che vede il massimo numero di pregiudizi sotto forma di frasi fatte e immagini criminalizzanti, al punto che Martine Bulard, nel 2006, su Le Monde Diplomatique scrive: “Se esistesse una classifica dei luoghi comuni, quelli sull’Impero di mezzo figurerebbero certamente al primo posto”.

Esiste una figura che riassume in se stessa l’intera panoplia degli stereotipi razzisti sinofobi e che ha avuto un impatto internazionale eccezionale: Fu Manchu.

Questo infame personaggio viene inventato dallo scrittore Arthur Sarsfield Ward, che scelse come pseudonimo quello, dal suono germanico, di Sax Rohmer. L’autore lo usa nei suoi romanzi, ma diventa rapidamente una icona della sinofobia a fumetti e poi ancor più con l’uso del mezzo cinematografico che gli assicura una diffusione senza precedenti. Rohmer non è mai stato in Cina e può sembrare paradossale che il creatore del peggiore stereotipo anticinese sia in effetti un uomo affascinato dall’Oriente e che ama vestire abiti orientali, ma questa invece è una  costante dell’intera storia della sinofobia e della fabbricazione del “pericolo giallo”. Infatti, l’epoca in cui si costruiscono e si diffondono gli stereotipi razzisti anticinesi (XVIII-XIX secolo) è anche quella delle “cineserie”, della costruzione delle “sale cinesi” in tanti e tanti palazzi aristocratici europei, delle collezioni di porcellane importate dalla Cina o di loro imitazioni europee, della moda di abiti linizzanti (ma anche di foggia islamica, indiana, ecc.).

La contraddizione è solo apparente; da un lato quelle collezioni, quegli abiti e quelle architetture sono coerenti con la volontà degli Occidentali di ridurre tutti gli elementi delle culture “altre” a reperti da esporre e da ostentare come trofei di caccia, come prede, esattamente come avviene per le lance bantu, le teste impagliate dei leoni, i “negretti” degli “zoo umani” delle Esposizioni Universali, le raffigurazioni di finte odalische dei pittori orientalisti in realtà basate su modelle prostitute. D’altro canto, quelle immagini, quelle porcellane, più ancora quelle architetture (basti pensare al caso palermitano ed a quello del padiglione dell’Elettore di Baviera) non rappresentano affatto la vera Cina, ma l’immagine falsa che l’Occidente si è fabbricata della Cina, con l’uso ad esempio di statue dorate e colonne a forma di tronchi di palma, assenti in tutta la storia dell’architettura cinese; quell’immagine già contiene alcuni degli elementi dello stereotipo sinofobo. Ad esempio i Cinesi sono rappresentati sempre con costumi lunghi, che in effetti sono usati all’epoca solo dai “mandarini” (gli intellettuali di corte) per accentuarne la femminilizzazione, associata a concetti come codardia, slealtà, sotterfugio, ecc., naturalmente tralasciando il fatto che vesti simili erano ben diffuse in Europa nei secoli precedenti. Non si vedono mai scene epiche, a riprova che si crede che i Cinesi non sappiano combattere a viso aperto ma solo furtivamente, con l’inganno, il pugnale, il veleno, l’intrigo; in cambio abbondano Cinesi ritratti nell’atto di fumare oppio…

Ma torniamo alla storia di Fu Manchu; Rohmer compie una scelta assai comune all’epoca: pubblica il suo primo racconto centrato su quel personaggio inizialmente non in un libro ma su un settimanale, a puntate, dall’ottobre 1912 al luglio 1913 e solo successivamente (ma quasi subito, nello stesso 1913) le puntate vengono raccolte in un libro. Il testo di Rohmer fa apparentemente semplicemente parte della letteratura poliziesca assai di moda all’epoca e vede lo scontro fra una coppia di difensori della giustizia (modellati sui ben più noti Sherlobk Holmes e Dottor Watson) e i criminali, ma lo sfondo non è quello di una lotta fra giustizia e crimine, bensì, esplicitamente, fra “razza bianca” e “pericolo giallo”, impersonificato appunto da Fu Manchu e dai suoi accoliti. Fu Manchu non è solo un terribile criminale, è il riassunto di tutte le bestializzazioni e criminalizzazioni dei Cinesi fino a quel momento elaborate e per provarlo basta elencare le caratteristiche che Rohmer gli attribuisce: diabolico, occhi felini ma anche da serpente, crudele, incarnazione del “pericolo giallo”, sadico oltre ogni misura, genio del male, dalle risorse economiche illimitate, esponente di un movimento che ha come obiettivo la distruzione della civiltà occidentale, capace di infamie senza nome, inumano e bestiale ma possessore di scienza misteriosa.

Nel 1916 esce il secondo romanzo della serie e il titolo parla da solo: The Devil Doctor, e poi seguono altri romanzi della serie nel 1917, mentre nel 1919 Rohmer usa Fu Manchu come personaggio secondario in un romanzo fuori della serie e poi per dieci anni non pubblica più nulla su quel genio del male cinese, ma nel frattempo Fu Manchu sbarca sugli schermi e lo fa addirittura con una serie di 15 episodi inglesi nel 1923, seguita da un’altra serie (sempre di cinema muto come la precedente) nell’anno successivo. Intanto Fu Manchu arriva in Italia nel 1919 su la Domenica del Corriere e poi in romanzi pubblicati fra il 1928 e il 1938, dunque con la piena approvazione della censura fascista.

Nel frattempo, nel 1927 Fu Manchu arriva in Gran Bretagna alla radio, con una serie di 15 episodi, mentre nel 1929 voce e immagini finalmente si fondono con il film The Mysterious Dr. Fu Manchu, seguito da un’altra pellicola nel 1930 (The Return of Fu Manchu) a cui fanno  seguito un musical nel 1931 e un nuovo film (Daughter of the Dragon) nello stesso anno, dove compare la perfida figlia del genio del male Fu Manchu, Ling Moy, che con un nome diverso compare anche nel nuovo romanzo che Rohmer edita in coincidenza con l’uscita di quel film e nel quale Fu Manchu viene rappresentato come capo di tutte le organizzazioni criminali del Mondo!

 

E’ questo elemento di internazionalizzazione di un conflitto che fino ad allora era parso riguardare solo l’Impero britannico che agevola il successo di Fu Manchu, le cui storie in quel 1931 trovano spazio in traduzioni in Francia ed Italia ed al tempo stesso dal film, dal libro dilagano nel fumetto a strisce sui quotidiani, per tutti gli anni ’30. Ecco allora che sull’onda di questo più vasto successo esce il nuovo romanzo di Rohmer nel 1932, The Mask of Fu Manchu, anche stavolta prima a puntate su una rivista e poi in volume, ma l’uso mediatico della figura dell’arcicriminale cinese si fa a questo punto frenetico e nello stesso anno escono anche il libro e una nuova serie radiofonica, nonché un nuovo film ispirato al nuovo racconto, che ha come punto centrale della sua pubblicità la promessa di assistere alle “torture orientali” e come attore principale quello stesso Boris Karloff che aveva interpretato il personaggio principale nel celeberrimo Frankenstein e vedeva quindi la sua immagine ormai definitivamente associata a quella della mostruosità!

E’ questo il film, grondante scene truculente ma anche battute sulla supremazia della “razza bianca” e sulla bestialità dei Cinesi, che porterà ad un successo in tutto l’Occidente del personaggio e poco serviranno le vibrate proteste delle ambasciate del debole stato cinese e di qualche isolato intellettuale occidentale e, sulla base di questo successo, Rohmer scrive un nuovo racconto nel 1933, un altro nel 1934, uno ancora nel 1936 dove Fu Manchu attacca gli USA, uno nel 1939, uno nel 1941 e, dopo la parentesi della Seconda Guerra Mondiale (quando Inglesi e Statunitensi mettono la sordina alla sinofobia perché alleati della Cina…), uno nel 1948, e ancora altri nel 1952 e nel 1957 e nel 1959, anno in cui Rohmer muore.

Il film The Mask of Fu Manchu, con l’indimenticabile recitazione di Boris Karloff, è diventato un cult ma se oggi è noto soprattutto ai cinefili e poche volte viene replicato nelle televisioni, è stato una colonna portante della criminalizzazione dei Cinesi nell’immaginario collettivo occidentale, al punto che si può dire che il personaggio di Fu Manchu abbia condizionato più di ogni altro elemento gli stereotipi relativi al “pericolo giallo” ed alle sue caratteristiche disumane, bestiali e diaboliche, tanto più che dall’inizio del XX secolo, per poco meno di un secolo, la quasi totalità degli Occidentali non ebbero alcuna possibilità di conoscere la Cina e solo coloro che (negli USA, in Gran Bretagna, in Francia, in Australia e solo marginalmente in Italia) avevano contatti con la diaspora cinese potevano dire di aver visto dal vivo un Cinese, mentre altri conobbero i Cinesi solo come nemici, giacché svolsero missioni militari contro la Cina, prima, e contro le truppe cinesi nella guerra di Corea, poi.

Intanto Fu Manchu continua  ad essere oggetto di una strategia commerciale ma anche ideologica multimediale che ha pochi paragoni all’epoca, cosicché nel 1939 eccolo di nuovo in una serie di radiodrammi e nel 1940 ancora al cinema, in 15 episodi, diventati film a lungometraggio nel 1943, finché cominciano perfino le copie, come il film spagnolo del 1945 El otro Fu Manchu. In Italia dopo la pausa bellica riprende la pubblicazione dei racconti di Fu Manchu nel 1947 e continua nei due anni seguenti, a cavallo non casualmente con le vicende che portano il PC Cinese a trionfare e mentre ha inizio la Guerra Fredda.

Un rilancio avviene negli USA negli anni ’60, con un film all’anno (protagonista l’attore Christopher Lee, altra icona del cinema horror) fra il 1965 e il 1969, in non casuale coincidenza con l’escalation USA in Vietnam e ancora una volta i film statunitensi viaggiano in Europa a confermare stereotipi ormai vecchi di mezzo secolo e appariranno anche nelle videocassette, il nuovo strumento di diffusione popolare prima di Internet, mentre dal 1966 riprende la presenza nelle librerie anche italiane dei romanzi su Fu Manchu, che viene rilanciata ancora nel 1980 e perfino ancora nel 1998.

In Tv invece Fu Manchu non ha lo stesso successo: si registra una versione statunitense del 1956, in 13 episodi (ma ne erano previsti 26)

I film di Fu Manchu vengono non a caso rilanciati negli anni ’60, in concomitanza con l’aggressione statunitense al Vietnam e con la Rivoluzione Culturale Cinese.

Dal 1934, intanto, appaiono negli USA i racconti a fumetti sull’eroico, biondissimo (si potrebbe dire “ariano”…) Flash Gordon che combatte  nello spazio contro il bestiale, diabolico, crudele Ming, imperatore del pianeta Mongo: una  sorta di frullato di elementi dato che Mongo rimanda ai mongoli ma il nome Ming, invece, è quello di una dinastia cinese (che sconfisse i Manciù…) e le genti di Mongo adorano una divinità chiamata Tao. Ming è l’equivalente alieno di Fu Manchu e la sua pelle è disegnata nei fumetti a colori in scintillante giallo, tanto per non sbagliare riferimento, mentre ovviamente veste abiti da mandarino e si dedica ad infami torture…

Anche nei fumetti di Flash Gordon versus Ming gli stereotipi anticinesi abbonfano ed in particolare va notato che tutti i sudditi di Ming sono bestie e/o mostri: i “gialli” non sono mai considerati davvero umani nella costruzione della sinofobia! Nonostante che Fu Manchu nasca come testo mentre Flash Gordon nasca come fumetto (e quindi più immediatamente popolaresco), Ming, come Fu Manchu, trova non casualmente spazio in tutti i media: dal 1935 è alla radio negli USA, nel 1936 entra nel cinema, sempre in forma di racconto ad episodi, e poi sotto forma di lungometraggi (due nel 1938 e 1940), dove ritorna dopo una lunga parentesi nel 1980 con l’attore Max von Sydow, ma già nel 1979 era diventato anche cartone animato.

Negli USA, quando il “pericolo giallo” cinese si tinge anche del rosso del comunismo, dopo la conquista del potere in Cina da parte del PC Cinese (1949), nessuno strumento è escluso dal processo di fabbricazione e di rafforzamento della sinofobia, che a questo punto si intreccia con l’avversione verso il comunismo. Ad esempio nel 1951 negli Stati Uniti d’America si producono figurine per ragazzi distribuite nei pacchetti di chewing gum, organizzate in una serie intitolata: “Fight the Red Menace: The Children’s Crusade Against Communism; quel che colpisce è l’iconografia prescelta per Mao tse tung, che viene descritto nella didascalia come un sanguinario ma soprattutto viene rappresentato con la pelle verde da extraterrestre, protetto da un guardaspalle scimmiesco che impugna una scimitarra.

Qui tutto gli stereotipi della bestializzazione e criminalizzazione del Cinese e del Comunista si fondono, ma prevale la visione razzista del “muso giallo” associato alla scimmia ma anche all’alieno sanguinario, un personaggio non a caso assai presente nei film e nei fumetti di fantascienza dell’epoca, quasi tutti imperniati su invasioni di extraterrestri che vogliono schiavizzare gli umani. Lo stereotipo del mostruoso cinese, in quelle figurine, si estende al vietnamita Ho Chi Minh che pure nel 1951 non è ancora in aperto conflitto con gli USA ma con la Francia colonialista, ma che ha le sembianze sino-mostruose e diaboliche di Fu Manchu.

Qualche anno dopo, già conclusasi la Guerra di Corea (senza la vittoria USA…), nei fumetti statunitensi si continua a rappresentare i Cinesi con sembianze demoniache e mostruose: ad esempio in Marines in Battle (1957) gli ufficiali cinesi hanno teste che rimandano al teschio ed espressioni di pura ferocia diabolica.

Centinaia di milioni di Occidentali, negli ultimi cento anni, si sono abbeverati acriticamente (ed in assenza di “vaccini culturali” adeguati) alle parole e alle immagini di Fu Manchu e Ming e delle tante altre rappresentazioni che in decine e decine di altri film (si pensi al Dottor No nei film di 007), di altri fumetti, di racconti, di polizieschi, di cartoni animati hanno dato vita allo stereotipo del Cinese infido, sadico, viscido, diabolico, criminale, inumano, bestiale; lo hanno fatto non solo da adulti ma da bambini e da adolescenti, le età in cui certe immagini e frasi si fissano indelebilmente nella mente.

Ci stupiamo ancora che i Cinesi siano oggetto da parte degli Occidentali, Italiani inclusi, di diffidenza e di insulto, di paura e di disprezzo, di volontà di accusarli delle crisi economiche occidentali e di connotarli come “chiusi e misteriosi”? Crediamo ancora che certo razzismo in questo caso rivolto contro i Cinesi (ma lo stesso si può dire in altri casi) sia frutto di spontaneità o semplicemente di ignoranza? No, siamo di fronte ad una strategia ed al dispiegarsi dei mezzi più vari di costruzione dell’immaginario collettivo, a cui mille conferenze, cinquemila iniziative multiculturali, diecimila dichiarazioni sinofile non possono minimamente fare fronte se non si va al nocciolo della questione che è duplice: il riconoscimento dell’immenso debito che tutte le società umane hanno verso la cultura millenaria cinese e il riconoscimento dei crimini che gli Occidentali, tutti gli Occidentali (compresi quegli Italiani che amano mascherarsi dietro le figure di Ricci e Marco Polo…), hanno compiuto a cavallo fra XIX e XX secolo contro la Cina.

Senza queste operazioni-verità, gli stereotipi sinofobi continueranno ad agire, carsicamente, aspettando che un razzista di casa nostra li faccia rivivere per usarli a suo piacimento.

 

I libri di Silvio Marconi

 

Uno studio che, lungi dall’avere un obiettivo “enciclopedico” o di minuziosa analisi storica, vuole evidenziare quelle connessioni e correlazioni – tradizionalmente taciute e rimosse – tra i fenomeni ed i processi che portarono alla crisi ed al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e quelli operanti in un’Asia la cui complessa storia viene, tuttora, sottovalutata.
Quando una farfalla batte le ali in Cina si sofferma sul ruolo che, nella crisi e nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ebbero tanto la Persia quanto, indirettamente, la Cina, dimostrando come il pregiudizio etnocentrico che ancora permea la formazione, la divulgazione e la costruzione dell’immaginario occidentale sia un pernicioso ostacolo a una comprensione di ben più ampio respiro e alla lezione metodologica che ne se ne può trarre.
In questa prospettiva, il riconoscimento di una molteplicità di poli e fattori transculturali è la precondizione per affrontare qualsiasi problematica: storica, politica, economica o strategica.
Una precondizione troppo spesso, volutamente, ignorata da una cultura occidentale che, a differenza di quelle orientali, ha rifiutato la logica olistica privilegiando un approccio molto settoriale.

 

Silvio Marconi – ingegnere, antropologo, operatore di Cooperazione allo sviluppo, Educazione allo Sviluppo e Intercultura – fa ricerca, da anni, nell’ambito dell’antropologia storica e dei sincretismi culturali. Ha pubblicato, al riguardo: Congo Lucumì (EuRoma, Roma, 1996), Parole e versi tra zagare e rais (ArciSicilia, Palermo, 1997), Il Giardino Paradiso (I Versanti, Roma, 2000), Banditi e banditori (Manni, Lecce, 2000), Fichi e frutti del sicomoro (Edizioni Croce, Roma, 2001), Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma, 2002), Dietro la tammurriata nera (Aramiré, Lecce, 2003), Il nemico che non c’è (Dell’Albero/COME, Milano, 2006), Francesco sufi (Edizioni Croce, Roma, 2008), Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016).

Prezzo di copertina: 18 euro Prezzo effettivo: 15.5 euro