Il binomio stato/popolo e identità

Il settimo di una serie di articoli di approfondimento del nostro collaboratore Silvio Marconi che ha appena pubblicato, con Viverealtrimenti, il testo Quando una farfalla batte le ali in Cina, presto in distribuzione a livello nazionale. Al momento, è possibile comprare il testo, scontato, sul nostro sito ed averlo recapitato, gratuitamente, a domicilio.
Ne approfitto per ricordare a chi ci segue sui social che lo stesso libro verrà presentato dopodomani (giovedì 17 maggio), alle ore 17.30 nello spazio culturale di Bibliothé (in Via Celsa 4, a Roma). Questo il link dell’evento.
Buona lettura!
Manuel Olivares
Si è accennato in articoli precedenti a quanto sia difficile e complesso definire davvero ed univocamente cosa si intende per “Stato” e per “Popolo” (uso le maiuscole in questo caso per sottolineare che sto parlando di concetti-chiave sul piano del Diritto Internazionale) ed è evidente quanto ciò sia paradossale se solo si pensi al fatto che senza tale definizione univoca e precisa molti dei principi del Diritto Internazionale moderno e tantissime delle decisioni di organismi quali il Consiglio di Sicurezza o l’Assemblea Generale dell’ONU, la Corte di Giustizia dell’Aja, ecc. perdono di credibilità. La situazione si complica ulteriormente se solo si mettono in relazione fra loro “Stato” e “Popolo”, soprattutto se si guarda a tale questione dal punto di vista di chi sia interessato ad affrontare le mille sfaccettature della questione della fabbricazione delle identità e dei loro presunti elementi costitutivi; è evidente che le interazioni fra due realtà (concettuali e concrete al tempo stesso) di cui già non si ha una definizione univoca genera un insieme di possibilità pressoché infinite di deformazione, torsione della verità storica e fattuale, manipolazione ideologica, strumentalizzazione culturale che, in effetti, troviamo lungo tutta la Storia e in molti e diversi luoghi.
Come sempre, il compito è più facile per chi falsifica coscientemente, perché si può costruire una concatenazione di elementi che paiono avere (ed in parte hanno) una logica stringente ed indiscutibile, resa tanto più indiscutibile dal fatto che in genere il soggetto falsificatore ottiene i migliori risultati solo se ha una egemonia o addirittura un monopolio assoluto sulle fonti formative ed informative; stabilito qualche preconcetto, qualche assioma falso, magari mescolato anche ad elementi di verità difficilmente confutabili, le conseguenze che se ne possono trarre sono logiche e razionali in tutto o in gran parte e non si possono negare se non si ha la possibilità di distruggere quell’assioma, che si fa senso comune. Sappiamo che il concetto di “razze umane” è falso, ma se lo si accetta, allora è evidente che le differenze “razziali” sono un risultato evolutivo e perciò stesso si giustifica il fatto che non sia possibile che tutte le supposte “razze” abbiano caratteristiche di eguale successo adattativo in ogni e qualsiasi situazioni; usando estensivamente le teorie darwiniane, allora, è quasi ovvio che chi ha successo sia “superiore” (nel senso di “più adatto” ma subito ciò si trasforma in giudizio di valore) e che abbia non solo il diritto ma il dovere di preservare con ogni mezzo la sua specificità sia dalla “contaminazione” di realtà meno adeguate, sia dalla sottrazione da parte di altre “razze” di risorse (territori, alimenti, fonti energetiche, minerali, ecc.) che debbono essere messe al servizio del “più adatto”. E siamo esattamente all’anticamera del nazismo….
Si può irridere la delirante teoria cara a molti nazisti (primo fra tutti Himmler) relativa alla “Terra Cava” abitata dai residui della super-razza ariana originaria, si possono smascherare le falsità mussoliniane sull’esistenza di una “razza italica” o quelle leghiste sulla “celticità” dei moderni abitanti di Bergamo e Treviso, ma se non si rifiuta la radice del suprematismo razzista, ossia l’esistenza stessa delle diverse “razze umane” non si è estirpata la pianta che prima o poi tornerà a fruttificare in termini di “pulizie etniche”, genocidi, o quantomeno discriminazioni e xenofobie.
Chi accetta quella falsa esistenza di “razze umane”, ha bella e pronta una soluzione per il rapporto fra “Popolo” e “Stato”, che è, ad esempio, esplicitata nel Programma del Partito Nazista del 24 febbraio 1920, dove al punto 4 si afferma che “cittadino dello Stato tedesco (Staatsburger) è solo chi appartiene alla Comunità popolare (Volksgenosse) che è costituita da chi è di sangue tedesco” e si aggiunge: “gli Ebrei sono esclusi dalla Volksgenosse”; quindi in questa concezione la base per l’appartenenza allo Stato è di tipo biologico, il che vuol dire razziale, e si statuisce pure il medesimo legame tra biologia e trasmissione presunta di caratteri ideologici, culturali, religiosi con lo stabilire che una persona che ha decine di generazioni di antenati residenti nel territorio tedesco, per il solo fatto di avere avi ebrei o essere ebreo egli stesso non fa parte della Comunità popolare detentrice del diritto di essere l’insieme dei cittadini tedeschi.
Aggiungendo il fuhrerprinzip (ossia principio che stabilisce che l’autorità è sempre discendente dall’alto verso il basso e mai ascendente in forma elettiva) abbiamo l’intero quadro della dottrina nazista del rapporto fra Popolo, Stato e Capo, non a caso riassunta nella frase “Ein Volk, Ein Reich, Ein Fuhrer” (“Un Popolo, uno Stato, un Capo”), dove per di più “Stato” non è più “Staat” ma “reich”, per distinguere lo Stato tedesco, vertice delle forme istituzionali storiche in quanto espressione del popolo considerato vertice dell’evoluzione umana, da ogni altro tipo di Stato. Ripeto qui che se si accetta la esistenza delle “razze umane”, questa elaborazione risulta perfettamente logica e comprensibile e che per rifiutarne le conseguenze è indispensabile rifiutarne alla radice i presupposti, altrimenti si assume un atteggiamento ipocrita che non fa i conti proprio con la questione dell’identità e del suo rapporto con l’interrelazione Stato-Popolo.
Ciò non significa che ogni concezione, anche totalizzante, del rapporto Stato-Popolo abbia sempre conseguenze omogenee e coerenti; perfino all’interno del regime hitleriano esistevano correnti diverse e filoni di ricerca ed interpretativi distinti, sia nella teoria che nella pratica, ma è chiaro che per comprendere e ancor più per combattere visioni aberranti di quel legame Stato-Popolo e del ruolo in esso della questione identitaria è indispensabile andare sempre alle radici e scoprire sia quali falsificazioni di base vengono compiute, sia perché, sia da quali attori, sia attraverso quali processi e con quali complicità.
Si pensi al caso dell’“Induismo “; oggi siamo abituati a consideralo una religione simile ad altre (Ebraismo, Cristianesimo, Islam, ecc.) anche se a differenza delle tre di matrice mediorientale non è monoteistica, e molti si stupirebbero nello scoprire che non esiste una religione unitaria induista, e che la sua percezione ed in parte la sua effettiva immagine unitaria è assai meno una verità storico-culturale che il risultato dell’azione coscientemente perseguita dai colonizzatori europei, peraltro proseguita da correnti indiane che hanno fuso la dimensione religiosa con quella nazionalista, un “nazionalismo” che, giova ricordarlo a noi ed anche agli estremisti nazionalisti indù attuali, è di per sé uno dei tanti prodotti di esportazione moderni (ossia sette-ottocenteschi) made in Europe, come peraltro provano le notissime biografie di tutti i “padri della Nazione Indiana” (e del Pakistan), nessuno escluso, che li vedono imbevuti di cultura accademica britannica.
Prima dell’arrivo tardo medievale dell’Islam, sia in forma di predicazione da parte di mercanti e maestri sufi (che tanto hanno influito ad esempio sui fenomeni detti di “fachirismo” ma che tanto devono anche e proprio al pensiero indiano nell’elaborazione stessa del Sufismo), sia poi in forma anche di parziale conquista militare e politica di ampi territori, e ben prima di quello dei colonialisti europei (portoghesi, francesi ed inglesi), non esisteva alcun complesso omogeneo religioso definibile “Induismo”, ma una serie di tendenze cultuali-rituali diverse, in parte perfino contrastanti, unificate solo in parte dal riferimento ad alcuni valori, miti, concezioni cosmogoniche, credenze e comunque centrate sul culto prioritario ciascuna di una specifica entità del numeroso pantheon esistente; così gli Shivaiti ad esempio avevano pratiche, regole, simboli, rituali assai diversi dai Visnuiti ed anche i miti cosmogonici ed altre realtà mitiche non erano sempre condivisi. Il fatto, poi, di avere alcuni testi sacralizzati in comune non evitava questa differenziazione perché in un sistema non monoteista, la presenza di distinte figure divinizzate spesso in lotta fra loro permetteva/imponeva che ci si potesse riferire devozionalmente all’una o all’altra di tali figure, costruendo collegamenti preferenziali che si traducevano in gesti, rituali, pratiche, regole di vita differenti e spesso in conflitti effettivi fra confraternite, tra villaggi, tra comunità.
I Musulmani si trovarono in India di fronte ad una situazione particolare, che infatti trattarono in modo diverso da altre; teoricamente essi applicavano i principi coranici di tolleranza religiosa (e tassazione) solo ai seguaci delle cosiddette “Religioni del Libro” che erano quelle monoteistiche: Ebraismo e Cristianesimo (anche se quest’ultimo veniva sistematicamente accusato di politeismo per la credenza nella Trinità e il ruolo di Maria e dei santi) e quella Zoroastriana, mentre i politeisti erano posti dinanzi alla scelta di convertirsi o perire (o emigrare). In India, invece, il potere islamico si affermò su una popolazione assai più numerosa dell’élite musulmana dominatrice senza imporre la conversione, anzi accettando anche una sorta di sincretismo che si riflette splendidamente ad esempio nel campo delle architetture sacre.
Furono proprio i Musulmani alla radice del processo etimologico, ma anche concettuale, che giunge a forgiare il termine “Induismo”; in epoca antica, la dinastia persiana degli Achemenidi (VI-IV secolo a.C.) fu quella che per prima chiamò Hind il grande fiume che noi chiamiamo Indo ed il suo immenso bacino e, per estensione, i suoi abitanti, che si auto denominavano Sindhu. Gli Arabi trassero da quel termine il loro, al-Hind, che gradualmente, venendo a conoscenza attraverso le attività mercantili delle varie regioni della Penisola del Deccan, generalizzarono a tutto il suo territorio e le sue genti; dal XIII secolo “hindu” fu il termine, di matrice turca ma derivato da quelli qui citati arabi e persiani, usato dai Musulmani per indicare gli abitanti di quelle regioni che non si erano convertiti all’Islam e questo fu anche il termine che i navigatori portoghesi, addentratisi nell’Oceano Indiano con piloti musulmani, e poi gli altri Europei attribuirono all’insieme delle genti di quelle terre. In epoca Moghul (ossia a partire dal XVI secolo), Hindu sono gli abitanti della regione ad Est dell’Indo che viene detta Hindustan aggiungendo ad Hindu il suffiso –stan che significa “terra, territorio”: quindi le denominazioni hanno come riferimento una classificazione religioso-culturale; a rigore gli abitanti di quelle terre che si siano convertiti all’Islam non sono da considerarsi hindu ma il fatto che il territorio venga chiamato Hindustan dimostra che si riconosce il carattere maggioritario dei non-Musulmani ed il loro possesso originario del territorio.
Solo nei primi decenni del XIX secolo, comunque, in Europa si coniò il termine “Hinduism” e va notato che il termine “Induismo” non viene usato di norma dai fedeli di quell’insieme di concezioni religiose per autonominarsi e che quando lo si trova in testi indiani è sempre traslato dalle lingue, dalle culture e dalle pratiche accademiche occidentali.
L’Occidente non entrò solo nella denominazione dell’Induismo, ma anche nella sua stessa strutturazione, sia direttamente, sia influendo su riformatori autoctoni delle concezioni e soprattutto delle pratiche religiose indiane.
Come afferma, fra gli altri, Daniélou (Miti e dei dell’India, 1992, Milano, Rizzoli), le concezioni religiose indiane sono integrative, ossia ricercano costantemente un rapporto sacralizzato con tutti gli elementi ed i riferimenti di culture anche “altre” dalla propria, in forme diverse da quelle che in Occidente consideriamo semplicemente sincretiche, in quanto tutto quel che assume una dimensione sacra, sotto qualsiasi forma, è visto come espressione delle medesime forze cosmiche e prima degli interventi occidentali è pensato come campo in cui ciascuno può liberamente scegliere riferimenti e pratiche, in genere non in forma individuale ma collegandosi ad una guida, ad un maestro, ad una confraternita, ad una forma di organizzazione rituale. Ciò comporta che si può arrivare a una identificazione fra entità indiane, egizie, greche cristiane, come del resto fra entità della cultura indiana vedica e di quella, più antica, dravidica, e che Cristo possa essere visto come uno degli “aspetti di Vishnu”.
Gli orientalisti occidentali, in primo luogo ovviamente (ma non solo) britannici, piegano questa complessa realtà alla loro visione ma fanno assai di più, influenzando direttamente attraverso vari canali il pensiero religioso indiano; gli strumenti principali di tale influenza sono il sistema scolastico coloniale, sia pur riservato ad una minoranza, e soprattutto l’influsso dei centri di produzione intellettuale occidentali (ed in particolare britannici) rappresentati dalle Università, dalle Accademie, dalle Società Scientifiche, dalle case editrici, dalle pubblicazioni periodiche; nascono così tra gli intellettuali indiani tendenze di “riforma” della religione indiana modellate più o meno esplicitamente sulla struttura del sistema delle Chiese Protestanti, con autonomie e unitarietà di fondo, sistemi di selezione del “personale sacralizzato”, forme di comunicazione, ecc.. Contemporaneamente giungono in India le influenze dei nazionalismi europei, che colpiscono fortemente gli intellettuali indiani, specie proprio coloro che maggiormente si sono occidentalizzati, e da loro, non dai contadini spesso in rivolta ma sempre repressi, non da “feroci bande di fanatici religiosi” più presenti nella letteratura occidentale che nelle pianure indiane, sorgono le istanze che diverranno anticoloniali, come del resto avviene in altri luoghi, e che troveranno nell’affermazione religiosa in forme neo-identitarie (induista ma anche islamica) un forte supporto che, però, renderà a sua volta il terreno religioso campo di battaglia per quel nuovo elemento esportato dall’Europa che è il nazionalismo. Ecco forgiarsi nuove “identità” che come sempre vengono retrospettivamente proiettate nell’arcaicità mitica e astorica, ecco l’avvitarsi del nazionalismo con l’Islamismo e con l’Induismo, ecco il trasformarsi dell’Islamismo e dell’Induismo addirittura in fattori eminentemente nazional-politici, fino alla Partition, allo scontro India-Pakistan, all’emergere vittorioso del modernissimo nazionalismo indù che non teme di sussumere elementi fascistizzanti e populismi europei assieme a suprematismi “panasiatici” degni dei progetti del militarismo nipponico degli anni ’20 e ’30. E la costruzione identitaria continua e tanto più usa canoni post-moderni, campagne mediatiche 2.0, forme di organizzazione del consenso degne delle strategie di marketing, tanto più proclama di rifarsi ad arcaicità fittizie, proietta in passati inventati valori, costruiti nel XIX secolo, mescola religiosità popolare e forme organizzative mutuate dalle teorie del partito leninista e da quelle delle SA hitleriane.
Come si vede, nel caso delle società della Penisola del Deccan, dalla graduale rielaborazione del rapporto fra “identità religiosa” (progressivamente ridotta a fittizia unitarietà arcaicizzata falsamente), “popolo” e “stato” nasce una concezione iper-nazionalistica di tale rapporto che non ha nulla a che vedere con le concezioni antiche delle genti indiane e assai più a che vedere coi movimenti moderni europei, ma che, appunto, ama invece presentarsi proprio come “recupero” della triade “religione-popolo-stato” fittiziamente narrata come ancestrale, confermando perfino in questo suo percorso, che copia quello di nazionalismi europei, l’origine occidentale.
I libri di Silvio Marconi
Uno studio che, lungi dall’avere un obiettivo “enciclopedico” o di minuziosa analisi storica, vuole evidenziare quelle connessioni e correlazioni – tradizionalmente taciute e rimosse – tra i fenomeni ed i processi che portarono alla crisi ed al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e quelli operanti in un’Asia la cui complessa storia viene, tuttora, sottovalutata.
Quando una farfalla batte le ali in Cina si sofferma sul ruolo che, nella crisi e nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ebbero tanto la Persia quanto, indirettamente, la Cina, dimostrando come il pregiudizio etnocentrico che ancora permea la formazione, la divulgazione e la costruzione dell’immaginario occidentale sia un pernicioso ostacolo a una comprensione di ben più ampio respiro e alla lezione metodologica che ne se ne può trarre.
In questa prospettiva, il riconoscimento di una molteplicità di poli e fattori transculturali è la precondizione per affrontare qualsiasi problematica: storica, politica, economica o strategica.
Una precondizione troppo spesso, volutamente, ignorata da una cultura occidentale che, a differenza di quelle orientali, ha rifiutato la logica olistica privilegiando un approccio molto settoriale.
Silvio Marconi – ingegnere, antropologo, operatore di Cooperazione allo sviluppo, Educazione allo Sviluppo e Intercultura – fa ricerca, da anni, nell’ambito dell’antropologia storica e dei sincretismi culturali. Ha pubblicato, al riguardo: Congo Lucumì (EuRoma, Roma, 1996), Parole e versi tra zagare e rais (ArciSicilia, Palermo, 1997), Il Giardino Paradiso (I Versanti, Roma, 2000), Banditi e banditori (Manni, Lecce, 2000), Fichi e frutti del sicomoro (Edizioni Croce, Roma, 2001), Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma, 2002), Dietro la tammurriata nera (Aramiré, Lecce, 2003), Il nemico che non c’è (Dell’Albero/COME, Milano, 2006), Francesco sufi (Edizioni Croce, Roma, 2008), Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016).
Prezzo di copertina: 18 euro Prezzo effettivo: 15.5 euro