Identità, universalismo e miti

Il terzo di una serie di articoli di approfondimento del nostro collaboratore Silvio Marconi.
Per leggere il secondo, clicca qui!
In genere si intende per “universalismo” qualcosa che si basa sull’idea che un proprio modello religioso, ideologico, sociale, politico possa e debba estendersi a dismisura su territori e genti, tendenzialmente fino a raggiungere la totalità dell’Umanità. Così il Cristianesimo e l’Islam sono universalisti, perché non si pongono limiti alla loro azione proselitista, mentre l’Ebraismo non lo è perché non ha il proselitismo fra i suoi scopi fondanti; ciò non significa che nella Storia non si siano registrati casi di conversione non solo individuale e familiare ma anche collettiva (di norma secondo il meccanismo di tutte le conversioni, ossia guidate dai leaders della collettività) all’Ebraismo, in Etiopia come in Crimea, nell’Asia Centrale come altrove, ma resta il fatto che l’Ebraismo non teorizza la spinta propulsiva alla conversione, a differenza degli altri due monoteismi. Una caratteristica, però, è condivisa da tutti i monoteismi, in contrapposizione con tutte le varie forme di culti politeisti: l’esclusività; “monoteismo” vuol dire sempre (come nel Vecchio Testamento) “non avrai altro Dio al di fuori di me” e questo modifica radicalmente la situazione che era propria delle società, ad esempio, greca e romana classica. In quelle società vige l’apertura quasi assoluta a divinità, culti, riti, concezioni, pratiche di diversa origine, non solo in termini di influenze, criticismi, sincretismi, ma anche esplicitamente come coesistenza di forme differenti nella stessa realtà; così nella Roma imperiale si può praticare il culto ai penati della tradizione arcaica ma anche alla Iside di matrice egizia, alle divinità paleo-latine magari ellenizzate come alla mediorientale Mitra, al Sol Invictus come alle divinità di matrice germanica. Se si manifesta in alcune fasi la persecuzione anticristiana non è per intolleranza religiosa, dato che il monoteismo ebraico invece non viene perseguitato, ma perché il rifiuto dei Cristiani di certe pratiche di venerazione dell’Imperatore è letto come “lesa maestà” ed attacco politico allo Stato romano.
Tutto questo non ci dice nulla sui metodi con cui la citata espansione di talune religioni si dovrebbe realizzare: su quelli teorizzati e su quelli praticati, che spesso differiscono fra loro. Ad esempio nel Corano si afferma esplicitamente il divieto di convertire con la forza e la costrizione i credenti di altre fedi aventi un Libro sacro (Ebrei, Cristiani e Zoroastriani) e sebbene tale divieto non appaia altrettanto esplicito nei Vangeli esso è implicito nel messaggio di tolleranza che essi veicolano; ciononostante, l’espansione politico-militare islamica medievale portò con sé, in taluni casi, anche forti pressioni alla conversione, sebbene ciò comportasse danni fiscali per le compagini statuali islamiche in quanto i Musulmani erano esentati da tasse che invece colpivano i fedeli di altre religioni monoteiste e per quanto riguarda il Cristianesimo l’intera sua storia per numerosi secoli è stata un susseguirsi di conversioni forzate.
Anche una ideologia politica o socioeconomica ha spesso caratteristiche universalistiche: è il caso del Liberalismo di matrice fine-settecentesca, del Marxismo, delle diverse correnti delle ideologie fasciste prese nel loro insieme e nel riconoscersi parti “nazionali” di un modello transnazionale ed in particolare di quella nazista, che invece ha già di per sé caratteristiche di tendenza all’espansione illimitata. Sulla frontiera tra le ideologie ed i modelli istituzionali e politici si collocano quelle concezioni che furono, ad esempio, proprie di compagini come l’Impero Romano o come la Spagna cattolica tardo medievale e rinascimentale; in questi casi si ritiene che un potere divino abbia dato alla specifica compagine statuale il compito (autorappresentato come diritto-dovere con caratteristiche sacre) di estendere il suo potere su tutte le terre e le genti, come strumento di un progetto di modellizzazione del Mondo secondo un solo riferimento, sia pure ovviamente articolato e differenziato nel tempo e nello spazio.
In realtà le cose non stanno esattamente così come noi siamo spesso portati a credere; ad esempio, è vero che l’Impero Romano considerava se stesso come portatore dell’unico modello sociale ed ideologico valido su scala universale e si compiaceva di descriversi come soggetto avente la tendenza ad universalizzarsi, al punto che le stesse relazioni che oggi chiameremmo “internazionali”, ossia con altre realtà (popoli, tribù, stati, ecc.) erano di norma segnate da questa concezione Roma-centrica che portava ad uno squilibrio necessario e considerato legittimo in tutti i campi, dal valore dei patti ai rapporti di alleanza. Ciononostante, l’Impero Romano non praticò sempre una politica di espansionismo senza limiti ed era perfettamente a conoscenza del fatto che vicino a lui e lontano da lui esistevano altre compagini statuali, altre potenze, altre realtà che non cercò, salvo qualche tentativo limitato (e peraltro fallito) di assoggettare.
I Romani provarono a conquistare l’insieme delle isole Britanniche ma infine vi rinunciarono e si trincerarono dietro il Vallo Adriano; lo stesso avvenne con la Germania ad Est del Reno, dopo la sconfitta inflitta alle legioni di Augusto nella Foresta di Teotoburgo (9 d.C.); in Oriente non solo i tentativi di sconfiggere definitivamente i Parti si rivelarono un fallimento, ma i Romani dovettero ammettere di avere a che fare con una compagine statuale ben diversa dalle tribù germaniche o britanniche e furono obbligati ad accettare che quella parte del Mondo non sarebbe mai appartenuta a loro. Mercanti romani (in realtà cittadini delle regioni mediorientali dell’Impero) trafficavano con l’India e perfino con la Cina, segnando con la loro presenza anche il porto di Canton, e quindi erano a conoscenza dell’esistenza di regni asiatici potenti in India e dell’Impero Cinese e in nessuno scritto latino si trova il progetto di “romanizzare” quelle terre lontane eppure popolatissime, che con la loro sola esistenza indipendente rendevano falsa l’idea che l’Impero Romano potesse avere davvero una dimensione “universale”. L’ideologia ufficiale romana, quindi, proclama qualcosa che le élites intellettuali, politiche e anche militari dell’Impero sanno essere falso: la missione romana di matrice divina a dominare l’intero Mondo; la costruzione delle fortificazioni di frontiera, al margine del Sahara come in Britannia, sul Reno e altrove e di sistemi di avamposti fortificati in altre regioni (ad esempio in Medio Oriente) rappresentano una delle prove migliori del fatto che la politica effettiva, in termini militari, di investimenti, di gestione del territorio ma anche simbolici, non risponde affatto alla logica dell’espansione illimitata: il “limes” non è solo una fascia di frontiera militarizzata e fortificata ma anche un elemento simbolico che divide la “civiltà” dalla “barbarie”, il “noi” dagli “altri”, che anzi contribuisce alla stessa costruzione del “noi” e dell’”altro”.
Del tutto differente è la concezione delle società asiatiche più o meno coeve a quella imperiale romana: i regni indiani, fino all’epoca dell’islamizzazione parziale, non si interessano minimamente ad una espansione più o meno illimitata oltre i confini della Penisola del Deccan e sono, semmai, oggetto di mire espansionistiche da parte delle realtà prima macedoni e poi persiane, che portano in effetti a miscugli culturali rilevanti. Ad est dell’India, l’influenza culturale indiana si diffonde potentemente, in termini religiosi ed architettonici, senza corrispondere ad una espansione politico-militare, ad Ovest addirittura tale influenza (si pensi ad elementi come i numeri che ancora noi usiamo o agli scacchi, al rosario o al nimbo nelle raffigurazioni sacre) passa attraverso la dominazione musulmana e la cultura iranica, in una situazione in cui si presenta una radicale scissione fra espansione politico-militare ed espansione culturale e quindi identitaria.
La realtà cinese è di altro tipo ancora; l’Imperatore cinese (nei periodi in cui lo Stato cinese non viene frammentato da scontri interni) è considerato il Mediatore fra Cielo e Terra, fra mondo divino e mondo umano, il garante del benessere, della sicurezza e della prosperità degli abitanti, senza una netta limitazione geografica, l’equivalente di un limes alla romana. A quell’imperatore è attribuito un compito che riguarda, per usare una espressione che nasce col primo sovrano cinese unificante lo Stato, le misure ed i pesi, la lingua,Qin Shi Huang (221 a.C.), “tutto quello che è sotto il Cielo” e in effetti “Cina” è termine che gli Occidentali usano traendolo da un termine arabo, ma i Cinesi non definiscono in tale modo la loro terra, bensì Zong huo; questo termine viene solitamente tradotto “Terra di Mezzo” e a noi Occidentali dà l’idea di un concetto spaziale, geografico e quindi di un sinocentrismo, mentre in realtà vuol dire “Terra che segue la Via Mediana” ed ha quindi una caratteristica di modello comportamentale-culturale e non di concetto geografico. Pertanto è “Cina” quel che risponde ai criteri culturali cinesi in una logica di cerchi circoscritti (o di…”scatole cinesi”), dove il nucleo rappresentato come “perfetto” (al di là della sua perfezione effettiva…) è il Palazzo Imperiale, ombellico simbolico del Mondo dove si trova l’asse verticale Terra-Cielo rappresentato proprio dall’Imperatore, in particolare in occasione dei riti di inizio d’anno al tempio del Cielo e la perfezione decresce nei cerchi esterni: la Città imperiale, le provincie del nucleo del territorio cinese, le provincie periferiche, le provincie di frontiera militarizzate, i territori confinanti, i luoghi lontani ricchi di connotati mitici.
Anche i Cinesi costruiscono fortificazioni dal valore militare, politico ma anche simbolico, compresa la “Grande Muraglia”, iniziata prima ancora del 220 a.C. con tratti singoli di fortificazione e unificata per la prima volta proprio nel 220 a.C., nonché estesa e migliorata nei secoli successivi, e comprese fortezze che controllavano punti-chiave e nodi delle reti carovaniere, ma mentre verso il Nord la Grande Muraglia costituì un limite pressoché fisso, nelle altre direzioni la Cina non smise mai di espandersi, sia pure ad un ritmo che non la colloca fra le potenze a proiezione coloniale transoceanica. Intanto, però, a differenza di società caratterizzate da monoteismi come il Cristianesimo e l’Islam, la Cina si apre costantemente ai contributi culturali ma anche ideologici e religiosi stranieri, non solo in elementi marginali come certi simboli, certi riti, strumenti musicali come la pipa, decorazioni sacralizzanti come i nimbi, ma anche in termini nettamente religiosi: arrivano in Cina l’Ebraismo, il Cristianesimo nestoriano, l’Islam e soprattutto, secoli prima di Cristo, il Buddhismo di matrice indiana che pure diventa uno degli elementi essenziali della caratterizzazione dell’ideologia religiosa e del costume cinese e che da lì si espande in Giappone e in Corea ed in parte del Sud Est Asiatico.
La realtà cinese, quindi, mescola concezioni identitarie universaliste con concezioni aperte alle “alterità” in una logica che non è paragonabile né a quella ibero cattolica né a quella romana antica; un esempio di questa peculiarità è dato dal rapporto fra concezione identitaria imperiale cinese (che in parte sopravvive tuttora) e rapporti con altre compagini statuali. L’Imperatore cinese, fino a tutta la prima metà del secolo XIX, non concepisce rapporti diplomatici paritari fra l’”Impero di mezzo” e le altre nazioni, ma solo rapporti di riconoscimento da parte di costoro di gradi diversi di dipendenza dalla Cina, che si concretizzano in tributi sotto forma di doni ed in specifici cerimoniali; poco importa se, perfino nelle spedizioni cinesi transoceaniche dell’epoca Ming, ai sovrani stranieri quei doni-tributi vengono largamente ricambiati, con regalie cinesi di valore di norma assai superiore, ciò che conta è che i doni altrui sono considerati tributi e conferma di uno stato di tipo “vassallaggio” mentre i doni cinesi sono segni di benevolenza e generosità imperiale che non vincolano in alcun modo la Cina.
L’identità cinese, quindi, non ha un rapporto diretto e rigido con un territorio, ma con un insieme di norme, pratiche, espressioni (primo fra tutti il linguaggio, unificato già nel suddetto 220 a.C.) che definiscono la “cinesità”; certo non mancano i miti fondativi e della genesi dell’Umanità (ovviamente collocata in Cina), ma essi non solo sono millenari e non rielaborati a tavolino nel XIX secolo come quelli giapponesi, ma non hanno un effettivo valore fondante della “cinesità” e semmai quei miti (che significativamente sono anche diversificati e contraddittori e mai resi omogenei e coerenti) fondano le pratiche culturali di una Umanità che viene resa sinonimo dell’essere abitante delle pianure centrali fra il Fiume Giallo ed il Fiume Azzurro.
Ovviamente tutti i miti del nostro pianeta sono invenzioni, che contengono in larga misura elementi del tutto falsi, mescolati a residui di elementi culturali e storici ancestrali effettivi, ma quel che conta per capire quanto la falsificazione mitica abbia influito sulla costruzione delle identità “proprie” ed “altrui” non è il fatto assodato che essi non corrispondono che in misura minima a realtà storicamente ed archeologicamente provate, ma il fatto che essi abbiano o meno un rapporto dialettico con l’evoluzione concreta delle comunità protostoriche a cui vengono attribuiti. In questo senso, ad esempio, alcuni elementi mitologici attinenti la fondazione di Roma relativi ad esempio ai riti di fondazione ed al cosiddetto “ratto delle Sabine” appaiono agli archeologi più recenti come intrisi di fattori che corrispondono a situazioni di fatto corroborate da dati archeologici ma questo avviene in misura enormemente superiore proprio nel caso cinese, nel quale, ad esempio, l’esistenza delle prime dinastie, affermata e descritta nei miti, è stata per lungo tempo considerata una leggenda dagli storici e dagli archeologi fino a quando non si sono scoperte le vestigia dei loro palazzi e la descrizione della immensa tomba di Qin Shi Huang, che riprodurrebbe al suo interno l’Impero cinese in metallo e pietre preziose con fiumi di mercurio, è stata ritenuta una favola fino a che non si sono cominciate a trovare nei sondaggi le prove di una forte concentrazione di mercurio in alcune aree della tomba, ancora volutamente inesplorata.
Usare, però, le falsificazioni (totali o parziali) insite nei miti antichi per costruire una identità non ha lo stesso disvalore che inventare a posteriori, secoli dopo (come nel caso dell’Eneide virgiliana) o addirittura millenni dopo, quei miti e farne artificiosamente la base fittizia per concezioni moderne identitarie; nessun ingegnere aerospaziale cinese crede nel mito della Signora della Luna e se l’astronave inviata verso il satellite della Terra viene denominata così o se la stazione spaziale cinese viene chiamata “Palazzo del Cielo” secondo una tradizione millenaria ciò non vuol dire affatto che si voglia spacciare quegli oggetti tecnologici per l’equivalente delle realtà mitiche ma semplicemente che si vuole recuperare simbolicamente quella tradizione mitica non per sostenerne la veridicità, che non esiste, ma per farne il filo rosso che evidenzia la continuità dialettica della cultura cinese. Una continuità che non è assoluta (per questo si è usato l’aggettivo “dialettica”) ma che non può essere neppure pregiudizialmente cancellata secondo stereotipi occidentali.
I libri di Silvio Marconi
Uno studio che, lungi dall’avere un obiettivo “enciclopedico” o di minuziosa analisi storica, vuole evidenziare quelle connessioni e correlazioni – tradizionalmente taciute e rimosse – tra i fenomeni ed i processi che portarono alla crisi ed al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e quelli operanti in un’Asia la cui complessa storia viene, tuttora, sottovalutata.
Quando una farfalla batte le ali in Cina si sofferma sul ruolo che, nella crisi e nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ebbero tanto la Persia quanto, indirettamente, la Cina, dimostrando come il pregiudizio etnocentrico che ancora permea la formazione, la divulgazione e la costruzione dell’immaginario occidentale sia un pernicioso ostacolo a una comprensione di ben più ampio respiro e alla lezione metodologica che ne se ne può trarre.
In questa prospettiva, il riconoscimento di una molteplicità di poli e fattori transculturali è la precondizione per affrontare qualsiasi problematica: storica, politica, economica o strategica.
Una precondizione troppo spesso, volutamente, ignorata da una cultura occidentale che, a differenza di quelle orientali, ha rifiutato la logica olistica privilegiando un approccio molto settoriale.
Silvio Marconi – ingegnere, antropologo, operatore di Cooperazione allo sviluppo, Educazione allo Sviluppo e Intercultura – fa ricerca, da anni, nell’ambito dell’antropologia storica e dei sincretismi culturali. Ha pubblicato, al riguardo: Congo Lucumì (EuRoma, Roma, 1996), Parole e versi tra zagare e rais (ArciSicilia, Palermo, 1997), Il Giardino Paradiso (I Versanti, Roma, 2000), Banditi e banditori (Manni, Lecce, 2000), Fichi e frutti del sicomoro (Edizioni Croce, Roma, 2001), Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma, 2002), Dietro la tammurriata nera (Aramiré, Lecce, 2003), Il nemico che non c’è (Dell’Albero/COME, Milano, 2006), Francesco sufi (Edizioni Croce, Roma, 2008), Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016).
Prezzo di copertina: 18 euro Prezzo effettivo: 15.5 euro