Arte e tecnica militare cinese etnocentricamente rimosse
Dal nostro collaboratore, Silvio Marconi, autore di Quando una farfalla batte le ali in Cina con Viverealtrimenti.
Dal 1839 al 1842 e dal 1856 al 1860, la Gran Bretagna condusse due guerre (note successivamente come “Guerre dell’oppio”) contro l’Impero Cinese, guidato dalla Dinastia Qing. La denominazione di quelle guerre deriva dal fatto che esse vennero condotte dai Britannici per imporre alla Cina la libera vendita dell’oppio, che era iniziato a giungere in Cina nel XVII secolo ma era stato proibito dal Governo Imperiale Cinese fin dal 1729, e che i Britannici producevano massicciamente in India dalla seconda metà del XVIII secolo, esportandolo in tutto l’Estremo Oriente. L’interesse fortissimo britannico alla liberalizzazione della vendita in Cina di quella mortifera sostanza (non a caso mentre la sua importazione nelle isole Britanniche era proibita!) principalmente derivava dal fatto che la Gran Bretagna importava dalla Cina enormi quantità di tè ed era costretta a pagarlo in metalli preziosi (argento e oro) dato che la Cina non era attratta da alcuna delle merci che gli Inglesi proponevano.
Queste due guerre, vinte dai Britannici anche grazie all’insipienza della leadership militare e politica cinese dell’epoca, videro soccombere i Cinesi soprattutto dinanzi alla tecnologia militare che il Paese-guida della Rivoluzione Industriale (la Gran Bretagna, appunto) aveva realizzato nell’ultimo secolo sulla base degli investimenti di capitali a sua volta resi possibili dall’infame “triangolazione transatlantica”, ossia del commercio triangolare che vedeva nel periodo precedente esportare merci prodotte in Inghilterra (soprattutto tessuti, ferraglia, armi) verso l’Africa, schiavi africani dall’Africa, ottenuti con i profitti di quelle vendite, verso il Nord America e cotone nordamericano prodotto col lavoro ed il sangue di quegli schiavi verso i centri di produzione britannici.
Non potendosi realizzare una adeguata accumulazione di capitali necessari alla industrializzazione spremendo ulteriormente i già affamati Irlandesi e l’agricoltura delle Isole britanniche, gli investimenti necessari alla Rivoluzione Industriale vennero resi possibili solo grazie a quella triangolazione e tra i risultati di quegli investimenti e del conseguente progresso tecnologico, figli legittimi del genocidio schiavista, vi sono proprio le armi che inflissero due tremende sconfitte alla Cina nelle “Guerre dell’oppio”.
Prima di quel periodo, in effetti, per millenni, una Cina che non praticò mai alcun traffico negriero (e non accumulò quindi i capitali necessari a trasformarsi in una potenza industriale sfruttando altri popoli) era stata al vertice non solo della potenza economica e dello sviluppo tecnologico a livello planetario ma anche del settore militare e dell’arte della guerra, tanto che fino a tutto il XVII secolo, ad esempio, la flotta cinese restò la più potente del mondo, sebbene di questo non si ami parlare nei manuali scolastici occidentali.
E con la Cina, un’altra potenza economica e militare rilevantissima fu l’India, sia nell’antichità, al tempo in cui, sebbene la battaglia dell’Idaspe (326 a.C.) vedesse le truppe (greco-macedoni-persiano-mesopotamiche) guidate da Alessandro Magno vittoriose su quelle del sovrano del regno indiano Poro, le perdite fecero ammutinare le truppe alessandrine, che imposero la ritirata, sia in altre fasi storiche e soprattutto durante il periodo di fioritura della prima parte dell’Impero Moghul, sorto nel 1526 e giunto al suo apogeo sotto l’imperatore Aurangzeb (1658-1707, nella foto).
L’Occidente non ama ricordare quella superiorità, la rimuove se non in alcuni studi accademici, certamente in tutti i manuali scolastici e negli strumenti di costruzione dell’immaginario collettivo popolare: letteratura, giornali, fumetti, poi cinema, radio, Tv, ecc.; quella rimozione etnocentrica e razzista si accompagna a spiegazioni insultanti delle sconfitte cinesi nelle “Guerre dell’oppio”, che alimentano stereotipi radicatisi ormai nella coscienza di tanti Occidentali, più o meno colti. Si arriva a parlare di “effeminatezza” dei Cinesi, portando come prova il tipo di abiti tradizionali della loro élite culturale e funzionariale, di loro vigliaccheria in battaglia, accompagnata peraltro all’uso di metodi di lotta malvagi e basati sul trucco e il sotterfugio ed alla ferocia. La letteratura prima ed il cinema ed i fumetti poi grondano di descrizioni delle torture cinesi considerate inimmaginabilmente più feroci di quelle che pure gli Occidentali hanno usato per millenni, mentre i personaggi cinesi o mancesi (le due cose vengono volutamente confuse, ad esempio nel personaggio di Fu Manchu) che nutrono l’immaginario collettivo occidentale dal XIX secolo in poi sono macchiette sanguinarie prive di onore, lealtà, dignità e umanità.
Il Fu Manchu appena citato ne è il paradigma: un personaggio creato dallo scrittore britannico Arthur Sarsfield (che firmava con lo pseudonimo germanizzante di Sax Rohmer), un criminale impegnato a distruggere la “civiltà occidentale” e contrastato da eroi britannici (Sir Nayland Smith e Petrie), un mostro che usa mezzi perversi e diabolici e che viene descritto in questo modo dal suo autore: “ Immaginate una persona, alta, magra e felina, (…) con un viso come quello di Satana, un cranio ben rasato e lunghi, magnetici occhi, verdi come quelli di un gatto. Investitelo di tutta l’astuzia crudele dell’intera razza orientale, (…) Immaginate quest’essere terribile e voi avrete un’immagine mentale del Dott. Fu-Manchu, il pericolo giallo incarnato in un uomo.”
La realtà storica è del tutto diversa e basterebbe ricordare che furono i Cinesi ad inventare la polvere da sparo ed i razzi e che entrambe vennero largamente usati anche dagli Indiani, che addirittura giunsero a montare cannoncini girevoli sugli elefanti, per capire che tante tecnologie militari giunsero in Occidente dalla Cina e/o dall’India derivate dalla Cina.
In effetti, la superiorità cinese, tecnologica ed organizzativa, nella dimensione militare spazia su ambiti ben più vasti e per millenni. Un esempio è dato dalle armi in acciaio (del tutto ignote in Occidente) che i Cinesi vendevano nei primi secoli di quella che noi chiamiamo “Era Cristiana” ai Parti, armi che contribuirono grandemente alle sconfitte che i Parti inflissero ripetutamente all’Impero Romano. Altri esempi sono dati dall’invenzione cinese della macchina da assedio detta “trabucco a torsione”, da cui deriva quello a contrappeso medievale, dall’innovazione cinese di grandi aquiloni per elevare in cielo osservatori militari, dall’invenzione di armi bianche multiuso che permettevano l’attacco di punta, di taglio e a mulino, ecc. .
Non troveremo mai nei testi occidentali che parlano delle ben note compagnie di balestrieri che tanta importanza ebbero nel medioevo europeo alcun accenno al fatto che in effetti la balestra fu inventata in Cina alcuni secoli prima di Cristo e rappresentò uno degli strumenti essenziali che portarono a ripetute vittorie le truppe di Shi Huang Di, l’uomo che fondò il primo impero cinese nel 220 a.C., unificando i vari stati preesistenti. Né troveremo mai che la forma di uso delle balestre che caratterizzava le truppe cinesi nel II-III secolo a.C. è immensamente più avanzata di quella delle truppe europee medievali, pur successiva di ben oltre un millennio; i balestrieri medievali, infatti, erano usati singolarmente o in gruppi ed avevano il grave problema di ricaricare l’arma (che ha un tempo di ricarica assai maggiore dell’arco), e per questo in campo aperto (ossia quando non tiravano dalle fortificazioni) si proteggevano in tale fase dietro enormi scudi detti “scudi palvesi” (piazzati sulla loro schiena o sostenuti da attendenti). Le truppe cinesi, invece, usavano le balestre in campo aperto come antesignane delle mitragliatrici: 3000 balestrieri erano disposti su 3 file e appena la prima fila aveva lanciato una scarica di ben 1000 colpi, veniva sopravanzata dalla seconda e dalla terza e si trovava quindi protetta a ricaricare; la seconda tirava immediatamente altre 1000 frecce e veniva sopravanzata dalla terza e la prima sopraggiungeva alle spalle con le balestre di nuovo cariche e sopravanzava la seconda riprendendo il suo posto in prima linea e tirava. Una sorta di rullo compressore che lanciava scariche di 1000 colpi per volta, avanzando, senza sosta, alimentato da inservienti che portavano le frecce alla linea che stava ricaricando e seguito da fanti che finivano i nemici caduti a terra. Nulla di simile venne mai realizzato in Occidente ed esperti britannici attuali ritengono che il ritmo di tiro e gli effetti sul nemico di questa forma di uso dei balestrieri in Cina siano paragonabili solo a quello delle mitragliatrici della Prima Guerra Mondiale.
Va ricordato a questo proposito che si ritiene che sul campo aperto un balestriere occidentale impiegava 15-25 secondi a ricaricare, mentre un arciere occidentale esperto impiegava 3-5 secondi, il che significa che nel tempo in cui un balestriere tirava una freccia, un arciere ne poteva tirare 5-6; anche in Occidente si usava talvolta non schierare i balestrieri su una sola fila ma su due e anche tre, per favorire la ricarica, ma esistevano differenze sostanziali rispetto alla scelta operativa cinese. La prima differenza era costituita dal fatto che mai in Occidente si schieravano numerosi reparti di 3000 balestrieri come in Cina, dove si arrivava ad avere sul campo 12-15000 balestrieri: i balestrieri occidentali erano organizzati in gruppi di 20 (detti “bandiere”, guidati da un “connestabile”), che componevano compagnie da 100 a 1000-2000 uomini; alla battaglia di Crecy (26 agosto 1346) tra Francesi e Britannici i balestrieri erano secondo alcune fonti non più di 2-3000.
La seconda differenza era data dal fatto che i balestrieri occidentali tiravano da posizioni fisse, riparandosi per ogni ricarica dietro lo scudo palvese, infisso per terra o sorretto da un assistente e non avanzando, quindi veniva a mancare l’effetto del “rullo compressore”; inoltre ogni balestriere occidentale era dotato di soli 20 frecce (”quadrelli”) e il sistema di rifornimento era piuttosto mal organizzato. Ciò comporta che mentre l’intero schieramento di balestrieri europei di una grande battaglia (come nel caso di Crecy) poteva lanciare contro il nemico solo qualche migliaio di frecce al minuto e dopo pochi minuti doveva ritirarsi dietro le fanterie, i balestrieri cinesi lanciavano circa 15000 frecce al minuto per ognuno dei vari reggimenti di 3000 uomini schierati e lo facevano anche per 20-30 minuti ed avanzando! I balestrieri occidentali (privi di corazza) erano considerati strumento tattico difensivo e statico; a Crecy, ai balestrieri venne ordinato dal sovrano francese di avanzare, perdendo così la protezione degli scudi e questo fu uno dei motivi per cui vennero rapidamente decimati dagli arcieri inglesi. Nelle battaglie cinesi, invece, come si è detto, i balestrieri di Shi Huang Di (privi di scudo ma con corazze a lamelle) venivano fatti avanzare col metodo prima descritto ed erano considerati strumento tattico dinamico ed offensivo, destinato a colpire l’avversario senza entrare in contatto con lui, a distanza, lasciando alle proprie fanterie un duplice compito di protezione contro attacchi di fanti nemici e di eliminazione dei caduti.
Inoltre le balestre cinesi fin dal III-II secolo a.C. erano prodotte in serie, addirittura in immensi opifici statali con numerosi lavoratori, con pezzi (in particolare il grilletto metallico) di dimensioni standard facilmente sostituibili, e permettevano così una facile manutenzione e sostituzione delle parti lesionate, cosa che non avveniva nelle balestre medievali occidentali, frutto della perizia di mastri artigiani.
Va infine notato che sebbene i Romani avessero delle “baliste”, ossia delle macchine da guerra di grandi dimensioni simili alle balestre per quanto riguarda i principi tecnico-balistici, non ebbero mai balestre individuali e si affidarono solo agli archi, peraltro assai inferiori sia ai cosiddetti “archi lunghi” medievali, sia agli archi compositi e doppi delle genti delle steppe asiatiche, per gittata oltre che per rapidità di tiro. Pertanto, sebbene nessuno scontro sia mai avvenuto fra truppe romane e cinesi, si può tranquillamente affermare che l’esercito di Shi Huang Di era grandemente superiore per tecnica e tattica ad ogni esercito romano o occidentale coevo e anche dei secoli successivi.
I libri di Silvio Marconi
Uno studio che, lungi dall’avere un obiettivo “enciclopedico” o di minuziosa analisi storica, vuole evidenziare quelle connessioni e correlazioni – tradizionalmente taciute e rimosse – tra i fenomeni ed i processi che portarono alla crisi ed al crollo dell’Impero Romano d’Occidente e quelli operanti in un’Asia la cui complessa storia viene, tuttora, sottovalutata.
Quando una farfalla batte le ali in Cina si sofferma sul ruolo che, nella crisi e nel crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ebbero tanto la Persia quanto, indirettamente, la Cina, dimostrando come il pregiudizio etnocentrico che ancora permea la formazione, la divulgazione e la costruzione dell’immaginario occidentale sia un pernicioso ostacolo a una comprensione di ben più ampio respiro e alla lezione metodologica che ne se ne può trarre.
In questa prospettiva, il riconoscimento di una molteplicità di poli e fattori transculturali è la precondizione per affrontare qualsiasi problematica: storica, politica, economica o strategica.
Una precondizione troppo spesso, volutamente, ignorata da una cultura occidentale che, a differenza di quelle orientali, ha rifiutato la logica olistica privilegiando un approccio molto settoriale.
Silvio Marconi – ingegnere, antropologo, operatore di Cooperazione allo sviluppo, Educazione allo Sviluppo e Intercultura – fa ricerca, da anni, nell’ambito dell’antropologia storica e dei sincretismi culturali. Ha pubblicato, al riguardo: Congo Lucumì (EuRoma, Roma, 1996), Parole e versi tra zagare e rais (ArciSicilia, Palermo, 1997), Il Giardino Paradiso (I Versanti, Roma, 2000), Banditi e banditori (Manni, Lecce, 2000), Fichi e frutti del sicomoro (Edizioni Croce, Roma, 2001), Reti Mediterranee (Gamberetti, Roma, 2002), Dietro la tammurriata nera (Aramiré, Lecce, 2003), Il nemico che non c’è (Dell’Albero/COME, Milano, 2006), Francesco sufi (Edizioni Croce, Roma, 2008), Donbass. I neri fili della memoria rimossa (Edizioni Croce, Roma, 2016).
Prezzo di copertina: 18 euro Prezzo effettivo: 15.5 euro